E se alla sua età

le difetterà

la competenza,

presto affinerà

le capacità

con l’esperienza.

Dove sono andati

i tempi d’una volta,

per Giunone!

quando ci voleva

per fare il mestiere

anche un po’ di vocazione.

 

“La città vecchia”

Fabrizio De Andrè

“Tutto Fabrizio De Andrè”, 1966

 

9. È scabroso le donne studiar …

 

 

 

Al termine di quella rilassata riunione mattutina, che aveva lasciato tutti i partecipanti tranquilli e soddisfatti come potevano esserlo dei condannati in attesa di giudizio, ci fu il ‘rompete le righe’, dato come al solito dal Tedesco con somma degnazione.

Era arrivata l’ora per cui, chi poteva, si guadagnava il letto ed una parvenza di riposo, mentre gli affari ordinari della Meilenhaus sarebbero stati sbrigati, come voleva la prassi, da tre uomini vivi che avevano molte cose cui pensare: De Marina, occupato a cercare di comprendere ciò che aveva origliato nella fumeria d’oppio e a farlo fruttare; Stroessner, preda del mal di stomaco per quello che quel maledetto vampiro inglese stava combinando; Thugut, anche col compito di recuperare la ‘donna del mistero’ portata da Herr Nagel.

Intanto il Tedesco, stufo marcio di avere le mattine rovinate (il giorno prima l’arrivo di Collman e la conversazione con Drusilla, oggi questa misteriosa figura femminile….) stava salendo nei suoi appartamenti per fare due chiacchiere con Renée e spiegarle qual era il suo punto di vista circa la ‘censura’ attuata sul biglietto che ella aveva ricevuto la sera prima a cena.

Tra le poche persone che contavano nella MeilenHaus libera di andare a dormire tranquille c’era Madame R., causa con la sua curiosità di tutto quel … trambusto. Mentre con i suoi colleghi, ormai giù dalle scale, sciamavano nel chiostro piacevolmente adornato dalla fontana ad azulejos, sentì una ben nota voce che la chiamava. “Madame, Madame! Ma allora è viva! Non sa come  mi fa piacere!”

Si figuri a me, rispose pronta la donna volgendosi a Don Teodoro Ignacio Iguaran, che usciva dalla sala d’aspetto (nella cui penombra rimaneva un indio vestito assai umilmente) e le veniva incontro, salutandola e agitando con la mano la bombetta.

Ovviamente tutti coloro che si trovavano lì nel chiostro si fermarono, si girarono e, senza neppure far finta di niente, iniziarono ad ascoltare: era ben strano che a quell’ora il dottore fosse lì, nell’evidente attesa di conferire con il Señor. Che accadeva?

Per quanto potesse sembrare strano (considerate le opinioni del Tedesco), l’alto, nobile, impegnativo e remunerativo impegno di essere il dottore di fiducia della MeilenHaus era toccato ad un uomo che non aveva neppure una sola goccia di sangue germanico nelle vene: castigliano purosangue, discendente alla lontana da qualche Viceré, non aveva neppure un avo che fosse nato oltre i Pirenei.

Eppure Iguaran poteva contare su di una particolarità che lo aveva subito fatto entrare nelle simpatie del signore e padrone della MeilenHaus: grazie ad un prozio danaroso che gli aveva permesso di fare ottimi studi, in Europa aveva frequentato la stessa Universitas Studiorum del Señor!

Questo aveva implicato fin da subito lunghe chiacchiere e ricordi, domande su quella taverna o quel bordello, sulle confraternite goliardiche e sulla possibilità di comuni conoscenze. E questo, unito alla perizia nell’arte medica e la facilità con cui Iguaran dimenticava il giuramento d’Ippocrate, era stato il passepartout per accaparrarsi quell’ottimo posto di lavoro.

“Perché avrei dovuto essere morta?” domandò Madame R., intimamente infastidita dal fatto che tutti i suoi degni colleghi stessero ascoltando; avrebbe potuto prendere sottobraccio Iguaran e chiacchierare lontana da orecchie indiscrete, ma sarebbe stato come dire al mondo che lei aveva qualcosa da nascondere, e questo nella MeilenHaus non era mai una buona cosa.

“Non ha perduto niente di recente?” domandò il medico divertito, sorridendo di sotto il nasone rapace: la donna scosse il capo. “Accidenti, e io pensavo fosse scappata di qua …” Madame R. non capiva, e come lei tutti gli altri, che si erano discretamente avvicinati, ed ora stazionavano a pochi metri dai due, pendendo dalle labbra dell’uomo, che se ne era benissimo accorto e si divertiva a tenerli sulle spine.

“Sa, per caso ho saputo che qualcuno ha trovato una donna che da poco ha perso molto sangue e la verginità … pensavo qualcuno di voi l’avesse persa. Così ero venuto per restituirla … e per comporre il cadavere dello sbadato che l’aveva smarrita.” concluse sorridendo.

 

 

Dove può andare una donna quasi dissanguata, emotivamente e fisicamente provata, avvolta solo in una coperta nella notte dell’inverno panamense? Di certo non lontano, ed un Cartier d’oro non serve a granché in queste occasioni.

Marthe, bene o male, aveva fatto pochi passi, aveva attraversato la strada e s’era inoltrata in un vicoletto poco distante dalla porta della MeilenHaus: lì la tensione nervosa e mentale che la teneva ancora in piedi non l’aveva più sorretta, ed era caduta di botto per terra.

Ma la fortuna non si stancava di baciare quella donna fiera ed intelligente (oppure era degna della Grazia, avrebbe potuto commentare il defunto cognato, a quell’ora già composto sui tavoli dell’obitorio comunale): pochi minuti dopo la casa vicino cui si trovava si animò ed un contadino uscì per andare nella latrina.

Lavorava a giornata, spesso nelle piantagioni di banane del Tedesco (presso cui un figlio faceva il cuoco, ed una figlia le pulizie), e non ebbe bisogno di molta immaginazione per capire da dove provenisse quella bella signora. La MeilenHaus aveva chiuso già i battenti, quindi non era opportuno andare a bussare, rischiando di svegliare qualcuno: decise di portarla in casa, sperando non morisse subito, e poi, nel pomeriggio, di andare a comunicare il ritrovamento al Señor Stroessner.

Chiamò la moglie, che per certe cose aveva molto più senso pratico di lui: superato lo shock nel vedere com’era segnato quel povero corpo, lo aiutò a trasportare la donna priva di sensi nella loro camera, dopo aver mandato uno dei figli minori a svegliare Padre Nicanor (la poveretta poteva morire, bisognava le venisse impartito l’Olio Santo il prima possibile…) ed un altro a chiamare il Señor Iguaran, che oltre ad essere un medico era anche tra gli “intimi” del Tedesco.

Marthe mugolò qualcosa, ma era in uno stato di torpore tale che si espresse in olandese, ed ovviamente i coniugi Montiel· non erano bilingui, quindi pensarono che quella donna avesse sete, oppure stesse invocando Dio. L’uomo andò a prendere un bicchiere, la donna prese la mano di Marthe tra le sue e iniziò a recitare “In nomine Pater, Fili et Spiritus Sanctu. Amen. Pater Noster qui es in Coelis …” ma non fu una buona idea.

Vissuta nel più rigido calvinismo, abituata ad avere un’opinione dei cattolici non certo buona, Marthe, con quel poco di lucidità rimasta capì che quella litania faceva parte delle superstizioni papiste: si girò a guardare la signora Montiel con occhi sbarrati per l’orrore e biascicò qualcosa nella lingua madre. L’india non impiegò molto a decifrare l’origine dell’espressione nel viso della sconosciuta ed urlò al marito di muoversi a prendere l’acqua, che quella poveretta era anche eretica, e quindi andava battezzata prima che morisse, per poter darle la possibilità di salvare la sua anima·.

Al signor Montiel non parve vero che nella sua camera da letto, all’alba, tra i figli già tutti svegli che avevano iniziato a spiegarsi a vicenda la situazione facendo un baccano del diavolo, ci fosse una puttana moribonda cui sua moglie voleva impartire un battesimo d’emergenza. E se la donna si riprendeva e andava a lagnarsi con il Señor di quell’ingerenza teologica che ne sarebbe stato di loro?

Ma la Divina Provvidenza (che presumibilmente si interessa della salvezza delle anime, e forse anche delle diatribe confessionali) continuava a vegliare su Marthe: mentre Padre Nicanor si stava infilando in fretta la tonaca e sbraitava alla perpetua di preparargli tutto l’occorrente per impartire l’Olio Santo alla poveretta a casa Montiel, in quella casa entrava senza bussare Don Iguaran, che non era ancora andato a dormire dopo una sfavillante notte passata in casa con amici.

Si rivolse alla donna in spagnolo, poi in francese, infine in un più che passabile inglese, e finalmente la poveretta diede segno di capire, mentre il medico iniziava già a supporre di trovarsi davanti alla moglie di qualche diplomatico, ufficiale o pezzo grosso: avrebbe dovuto poi conferire con il Señor. Fece uscire i coniugi e i figli dalla stanza (domandandosi perché la signora Montiel continuasse a chiedere acqua per un battesimo) e, con tutta la gentilezza possibile, si accinse a visitare la sconosciuta, che con un gesto pudico e pieno di grazia era riuscita a tirare le coperte sul seno cercando di coprirsi meglio.

Quando il dottore uscì dalla stanza, la signora Montiel stava spiegando con veemenza il suo personale punto di vista teologico a Padre Nicanor, che di prima mattina non era certo d’umore per disquisire con una india sull’impossibilità canonica di impartire battesimi a persone che esprimevano chiaramente il loro rifiuto.

“C’è bisogno di me?” domandò il prete al dottore, ma quest’ultimo escluse come la donna fosse in pericolo di vita: le aveva medicato le principali ferite, fermando l’emorragia (una donna fuggita dalla MeilenHaus ha quasi sicuramente emorragie, aveva pensato il medico, che quindi era venuto attrezzato).

Nello stesso istante, a Panama città, Collman nel sonno abbracciava la sua Danka e faceva buoni sogni che contemplavano sesso, potere e trionfo della civiltà ariana. Si era coricato tardi quella notte, aspettando fino a quando un suo uomo non era venuto a riferirgli che c’era stato un delitto nella casa di un pastore olandese: a quanto pareva un delitto passionale, poiché la giovane ed avvenente cognata del defunto era scomparsa con un uomo, presumibilmente l’assassino. Coricandosi soddisfatto, Collman pensò che quel mattino sarebbe dovuto andare a trovare Herr Stroessner.

 

 

Mi verrà un esaurimento nervoso, pensò il Tedesco, dopo aver ascoltato la relazione del dottore: oppure l’ulcera, quei due mi faranno tornare l’ulcera. Ha portato qua la moglie del pastore, l’hanno quasi dissanguata e poi la rimanda a zonzo per la città: che Herr Nagel fosse la punizione divina per la sua non-vita? Non bastava lo spavento che si era preso durante l’incontro con Drusilla e la certezza che quella sciroccata avesse realmente la Vista, no ! Ci voleva anche questo monumento alla mancanza di tatto e discrezione (davanti al quale l’omicidio del giornalista era una bazzecola) !

Il Tedesco era seduto dietro una scrivania evidentemente seccato, Renée era mollemente adagiata sul divano vicino, Viktor stava in piedi nell’angolo di una stanza, il signor Montiel era a capo chino e teneva il cappello in mano e Don Iguaran si domandava quale tra i tre vampiri nascondesse meglio quello cui pensava.

Ci fu un lungo silenzio nella stanza, interrotto alla fine da Doña Renée, che chiese quando quella si sarebbe fisicamente ripresa.

“Ma ci pensi, caro? Quella porcellina, davanti al cadavere del cognato, prima molla su due piedi la famiglia, e poi va a rallegrare i nostri ospiti. E deve esserci anche portata, sennò dubito che Nagel l’avrebbe lasciata viva! La voglio conoscere, potrebbe lavorare per te! Non trovi, caro?”

Il padrone di casa annuì, pensando che magari era meglio se l’eventuale offerta di lavoro alla donna fosse prospettata da Madame R., piuttosto che dalla sua dolce metà, e si alzò in piedi per accompagnare alla porta Don Iguaran e l’indio; prima, diede ordine a Viktor di sistemare appena possibile la residenza dei Nagel, che sicuramente aveva bisogno di una bella ripulita.

“Don Teodoro, la ringrazio per la sua puntuale sollecitudine. Quando pensa che la signora potrà ricevere visite?”

“Mi sembra una donna dalla tempra forte: se non sopraggiungono febbri o complicazioni penso potrà fare due chiacchiere con la Señora nel tardo pomeriggio. Andrò a vedere come sta prima di pranzo e a metà pomeriggio e vi terrò informati.”

Il Tedesco mise una mano sulla spalla di Montiel, che si sentì morire, e lo fissò indulgente. “Ringrazio anche lei per il disturbo che si è preso nell’ospitare quella sventurata e le assicuro che mi sdebiterò quanto prima. È confortante sapere che in questo mondo corrotto si trovano ancora persone di buona volontà e che praticano la virtù della carità. Ovviamente, Señor Montiel, sarà mio onore farle avere tutto ciò che servirà alla sua ospite.”

 L’indio sorrise ed abbozzò un umile inchino. Ci arrivava anche lui che era stato appena congedato.

 

 

Le lenzuola erano stese sul lungo bancone, e spiccavano con il loro incerto biancore nella penombra della stanza. La donna aveva appena finito, usando un gesso colorato, di tracciare con mano ferma ed esperta i contorni di ciò che si sarebbe potuto ricavare da quelle lenzuola dopo aver tagliato via le parti che non sarebbero sicuramente venute pulite.

“Puttane da poco sicuramente lo sono, Señor, ma neppure loro meritano di dormire su macchie di sangue che non vengono via.” affermò con sicurezza Ana Francisca Linero guardando il Tedesco, che annuì pensieroso. Quella donna aveva il dono di far diventare in poche parole qualsiasi problema un banale contrattempo, sapeva governare in modo perfetto l’immenso magazzino e poi gli ricordava i primi anni della MeilenHaus.

“So chi sei! Sei quel tizio che ha aperto un bordello verso Veranillo.”gli disse, una notte alla fine del XIX secolo, quando lui se la stava per bere. “E questo ti farà morire più felice?” le chiese, in un’imitazione di sarcasmo. “Sono sopravvissuta due volte al vaiolo, non credere di farmi tanta paura, sai? Ma nel tuo bordello non ci sono lenzuola?”

Il Tedesco abbandonò il volto della caccia (tanto lei, stretta in un angolo, non sarebbe di sicuro sfuggita) e le rispose piccato che, per quanto ancora piccolo, il suo era un bordello rispettabile, e quindi aveva le lenzuola. “E chi te le stende? Non penso tu vada a mezzogiorno a fare il bucato e a mettere i panni al sole. E il sapone? Che fai, sei ridotto a rubare la notte nelle mercerie?”

La verità fa male ed il Tedesco, che non dimenticava di essere svizzero e laureato, si vergognava come un cane a stendere i panni nell’umida brezza della sera (ci voleva una vita perché asciugassero) e, appunto, a rubare di notte nelle mercerie il sapone e tutto ciò che gli serviva. “Lasciami viva e ci penso io a stirare, farti il bucato e la spesa.”

“Non voglio soci, ragazza.”

Ana Francisca gli diede uno sguardo di fuoco e, facendo pesare le parole, specificò che era una ragazza onesta e che non avrebbe mai fatto società con un demonio. Di lì a poco, seduti su una panchina, si svolse un accanita discussione, degna della miglior vertenza sindacale, tra l’imprenditore e la prestatrice d’opera.

Ne erano passati di anni da quella sera: Ana Francisca, invecchiata dalle gravidanze e dal duro lavoro, era diventata grassa e tozza, mentre il Tedesco aveva fatto i soldi e s’era trovato una compagna sensuale ma con poco gusto estetico. Immutato era rimasto un certo rapporto che, se non d’affetto, era sicuramente di stima e che permetteva alla mulatta di dare in privato del “tu” al vampiro; ed era l’unica persona viva che potesse farlo in tutta la MeilenHaus.

Così quella mattina, come la precedente, dopo aver cercato di distrarsi girando per le sue proprietà, cercando di trovare da solo una soluzione al terribile guaio in cui si era cacciato dando retta a Collman, era finito per sbucare all’interno della saletta dove, da dietro al bancone, la donna dirigeva il proprio regno in modo impeccabile. Solo lei sarebbe riuscita a fargli vedere sotto un’ottica, se non migliore, almeno diversa le grane che s’era andato a cercare portando i Nagel a Panama.

L’aveva trovata intenta ad osservare con occhio critico lenzuola lavate da poco, ma rovinate da aloni rosati: sangue, come aveva subito annusato. “Bel casino, con licenza parlando, hanno combinato quei due là.”

Il Tedesco s’era lasciato cadere su una sedia di vimini lì vicina, sbuffando irato.

“Per farle venire pulite rischiamo di renderle talmente lise che al prossimo lavaggio saranno da buttare. Quindi meglio farne adesso salviette con le parti pulite e stracci da poco con quelle sporche. Mi passi per piacere quella scatoletta?”

Il Tedesco s’era rialzato e le aveva dato i gessi colorati, osservandola poi tracciare linee sulle lenzuola.

“Ma il gioco vale la candela?” gli aveva chiesto, senza guardarlo, china sul tessuto.

“Collman mi paga bene, fare un piacere a certi gringos è sempre vantaggioso …”

“Ma non ne puoi più di quei due, a ragione. E lei ha anche la Vista.”

“Già.”

“E per qualche motivo questo ti mette paura. Vorresti non averli mai fatti venire qua.”

“Già.”

“Tra poco se ne andranno, e tu prenderai i soldi di Collman: contento tu, contenti loro e contento quell’uomo. Dov’è il problema?”

Lui si risedette e sbuffò, facendo un vago gesto con la mano: troppo difficile e complicato spiegare ad un’india semi-analfabeta le implicazioni economiche e geopolitiche di una possibile vittoria dei nazisti in Germania.

“Di prendere i soldi ti sta bene, che quei due se ne vadano anche. Il problema è quindi che Collman ottiene quello che vuole?”

Il Tedesco guardò quella mulatta ignorante, che sapeva tessere sillogismi meglio dei professori dell’Università di Tubinga.

“Allora non dovevi farli venire qua. Ma adesso che ci sono non ti resta che ucciderli perché non portino a conclusione il lavoro.” concluse lei.

“Ma smettila! È ovvio che nessuno ucciderebbe due vampiri cui do ospitalità! Si capirebbe subito che sono io il mandante.”

Detto questo si alzò e prese un corridoio del magazzino, smaltendo la rabbia camminando a lungo in quell’intricato dedalo: nemmeno Ana Francisca sapeva dargli un buon consiglio in quella situazione.

“Dio solo sa come diavolo fai a trovare tutto quello che serve in questo marasma da folli.” le disse, quando infine ricomparì nella stanza dove la mulatta, finito di lavorare intorno alle lenzuola, stava scrivendo qualcosa su un quadernetto.

Lei non si lasciò scoraggiare. Annusata la riflessione come un cane con un osso, non se la sarebbe certo lasciata scappare di mano. “E tu non vuoi che gli amici di Collman sappiano che hai cambiato idea sui loro progetti, e che da amico sei diventato nemico. Ed inoltre tu non li puoi uccidere perché lei ha la Vista, quindi sa già prima che ancora lo pensi quello che combinerai” gli rispose, incurante della lunga pausa nella conversazione, senza neppure alzare il capo.

“E con queste due informazioni cosa ci dovrei fare secondo te?” le chiese, infastidito per la ripresa di un argomento che considerava concluso.

“Chiedi a quella là cosa farai nel prossimo futuro e fallo. E inizia a pensare a quale tra i nemici di Collman darai la colpa.”

Si alzò di nuovo dalla sedia e, gesticolando, le disse che era da un giorno intero che stava rimuginando su queste cose e che chiedere un parere a quella matta era un suicidio. “Impiegherei una settimana solo a capire cosa significano i suoi vaneggiamenti!”

Ana Francisca si degnò di guardarlo in viso, smettendo di trafficare dietro il bancone, e scosse la testa, piantandosi le mani sui fianchi. “Jefe, sei sempre il solito testardo: due teste pensano meglio di una, e tre di due. Con tutta la gente che mantieni metti qualcuno a studiare il tuo problema e a risolverlo. E se il tuo amor proprio ti impedisce di confessare d’aver fatto un affare sballato … dà la colpa a qualcun’altro.”

 

 

De Marina aveva dei rigidi orari, che compensavano la mollezza della sua morale: tutti i giorni lavorativi alle quattro e mezza si prendeva una pausa, faceva un salto alla taverna del Guercio e si godeva una limonata gelida scambiando quattro chiacchiere, leggendo un giornale o magari facendo una mano di domino o di carte.

Anche quel pomeriggio, come al solito, era lì, nel suo tavolo preferito, non troppo distante e non troppo vicino al ventilatore: lui era uno dei pochi -per via della sua posizione nella MeilenHaus- a potersi riposare nella grata frescura della taverna durante le ore morte che anticipavano l’apertura.

Come tutti i giorni, c’erano sempre le solite persone: il Guercio che pisolava sull’amaca all’ombra delle palme nel giardino interno della taverna; il figlio del Guercio (era lui in effetti a gestire il locale da qualche anno, considerata l’età paterna), che da dietro il bancone guardava gli sguatteri tirare giù le sedie dai tavoli ed affaccendarsi nel retrobottega; Pacon, monumentale figlio di Ana Francisca Linero, controllava che dai meandri del magazzino gestito dalla madre arrivasse alla taverna tutto quello che era stato richiesto.

Chen Segundo, l’attuale rappresentante della brulicante e attivissima comunità cinese che serviva il Tedesco, si era allontanato dai fumi della sala dell’oppio e dai vapori delle lavanderie per fare una mano di domino con l’onorevole amico De Marina ed adesso sedeva al tavolo con lui, tenendo in mano però un mazzo di carte: c’era anche Magnus quel pomeriggio, e se avessero trovato un quarto potevano fare un paio di giri di briscola.

De Marina amava molto andare in quella taverna prima dell’apertura, rilassarsi nella quiete e nel silenzio e nell’ombra, prima che torme di soldati da tutte le parti del mondo, braccianti e mezzadri, borghesi piccoli e medi, contadini ed operai, vociando, bevendo, fumando ed urlando la trasformassero in quello che veramente era, la taverna di un immenso bordello.

Per quanto potesse essere assurdo, poi, gradiva moltissimo la compagnia di quei suoi colleghi, benché uno trafficasse in droga e nella tratta di giovani coreane (squisito frutto esotico per gli avventori della MeilenHaus) e l’altro fosse un altissimo e robusto vampiro morto da una trentina d’anni.

Chen Segundo (che non si chiamava Chen, ma così lo aveva appellato il Tedesco, poiché aveva preso il posto di Chen-Tze-qualcosa, il primo “mandarino” dei cinesi che lo servivano) era un piccoletto che avrebbe potuto essere suo padre per l’età, vestito in eleganti completi di lino come i ricchi ed europeizzati cinesi di Shangai, dotato dell’indubbia virtù di parlare pochissimo, a frasi brevi e stringate: una cosa bellissima, per un contabile che tutto il giorno ascoltava mezzane parlare di copule e sottoposti che ripetevano l’uno all’altro i dati delle puttane per essere certi di non sbagliarne le schede.

Nel grato regno dei silenziosi entrava di diritto anche Magnus: il childe di Renée, dopo decenni trascorsi a sovrintendere vampiri e vampire che si prostituivano, era oramai abituato ad esprimersi a gesti, ad occhiate, a brontolii. Laggiù, nelle sfarzose catacombe in cui lui era depositario del potere per conto del Señor, gli bastava uno sguardo per farsi ubbidire.

Mentre i tre attendevano che Pacon finisse di contare le casse di rum, entrò nella taverna - annoiato come poche volte gli era successo - Spike: dopo gli eccessi della notte, si era nutrito, intimamente seccato dal dover bere sangue da un calice di cristallo, aveva fatto del sesso poco soddisfacente con la vampira che gli rifaceva i letti, aveva guardato un po’ il soffitto ed alla fine, oppresso dalla calura spaventosa, s’era vestito ed era andato un po’ a zonzo per la MeilenHaus, infastidito dal trovare una Guardia Civil a quasi ogni angolo: una fila di casse di birra che entravano nella taverna l’aveva spinto a seguirle, tanto per far qualcosa.

Uno sguattero gli disse qualcosa in spagnolo, e non doveva essere un complimento, intuì il vampiro, ma prima che prendesse quel nanerottolo dalla pelle olivastra per il collo, qualcuno lo chiamò ad alta voce. Si guardò intorno: era una lunga sala rettangolare divisa da due file di pilastri in legno nel senso della profondità, con molti tavoli rotondi ed un lungo bancone (dietro cui un uomo lo stava fissando) che occupava buona parte della parete di fondo; i muri bianchi avevano bisogno di una mano di vernice ed alcune porte immettevano in altre stanze.

“Mister Nagel!” ripetè la voce, e Spike vide di chi era: da dietro uno dei pilastri adesso spuntava l’uomo incontrato la mattina precedente, che lo stava salutando ed addirittura gli veniva incontro, mentre il garzone continuava a guardarlo aggrottando le folte e nerissime sopracciglia e stringendo la scopa.

L’uomo disse qualcosa in spagnolo ed il nanerottolo si allontanò, brontolando sottovoce. “Lo scusi, Mister Nagel, ma adesso la taverna è chiusa e quindi … lei capirà, no?” gli disse De Marina, tendendogli la mano e ringraziando il cielo che quell’inglese mezzo matto non avesse strangolato l’inserviente: il Señor sarebbe uscito dai gangheri.

“Davvero? Eppure ho visto qualcuno che entrava.”

“Facchini, bassa manovalanza” spiegò con degnazione il contabile, aggiungendo poi che solo lui ed alcuni suoi colleghi potevano entrare lì a quell’ora. “Anzi, perché non ci fa compagnia, così glieli presento? Magnus era assai curioso di conoscerla. Lei sa giocare a briscola?”

Spike seguì l’uomo di cui continuava a non ricordare il nome fino ad un tavolo nell’angolo della stanza: c’erano alcuni bicchieri, un minuscolo cinese di mezza età ed un vampiro biondo dalla faccia quadrata, che si alzò quasi sorridendo e gli strinse la mano.

“Finalmente Herr Nagel, che piacere: contavo venisse a trovarci una di queste sere” gli disse con falsa giovialità il childe di Renée, curioso anche lui su questo ospite così importante e così privo di senso della misura, come aveva dimostrato fin da subito, interrompendo la riunione mattutina del Señor qualche giorno prima.

“Perché? Lei dove sta?”

“Herr Magnus ha l’alta responsabilità di curare e vegliare sulla prostituzione vampirica.” spiegò cortese il contabile, scostando una sedia affinché l’ospite si sedesse con loro.

“Ah, puttane vampiro … Non per essere scortese ma non sono molto interessato, quando posso avere qualche bella ragazzetta calda da fottere ed uccidere.”

“Non ci sottovaluti, Herr Nagel: le nostre ragazze ed i nostri ragazzi, anche se non sono caldi, possono dare piaceri superiori a quello di bere il sangue addolcito da una scopata. Provare per credere. Sono istruiti, testati e mantenuti apposta, e non c’è ancora stato umano o vampiro che sia uscito deluso.”

Il solito discorso, pensò De Marina: tranne poche parole, erano le identiche frasi che ripetevano anche Madame R. e le altre maitresse che dirigevano le varie sezioni della MeilenHaus. La consueta pubblicità standard della Casa, affinata dall’uso e dalla quotidianità. “Anche perché se qualcuno uscisse deluso voi lo uccidereste per non farvi fare cattiva figura” concluse divertito Spike: Magnus rise di gusto, mentre Chen Segundo osservava l’inglese che non si era poi tanto divertito nella sua fumeria d’oppio. E non riusciva a capire per quale motivo il Señor avesse voluto ospitare quell’elemento di disturbo tra loro.

Spike ordinò un mint juleep – specialità della casa, a dire di De Marina – mentre Magnus mescolava le carte: fecero un paio di partite, sufficienti all’ospite per apprezzare i compagni di gioco. Il contabile non era uomo da bluff, ma cercava la vittoria con costanza e pazienza, una mano dopo l’altra senza tendere troppo la corda.

Il cinese, impenetrabile, meditava in silenzio, ad ogni carta che calava dava l’impressione di star preparando qualche colpo di mano, tenendo sul chi vive gli avversari. Magnus, invece, tendenzialmente giocava in difensiva, molto sottotono, anche quando era ben servito, sempre però pronto a colpire di sorpresa se ne valeva la pena. Era proprio un buon tavolo, peccato non durò a lungo.

Dietro di loro infatti una voce rauca in spagnolo disse qualcosa: anche Spike si girò e vide in piedi un vecchio, un tempo massiccio, ora cadente, con pochi capelli ed un’oscena lattiginosa cateratta all’occhio sinistro, appoggiato ad un bastone di bambù, con indosso un’orrida giacca a righe che aveva almeno trent’anni, lercia come il fazzoletto che teneva al collo.

Quello era il Guercio che, dopo anni di fedele servizio, smaltiva la sua vecchiezza in mari d’alcool d’infimo valore, tra puttane da lmeno trent'pochi dollari e qualche rara pipa d’oppio: il Tedesco lo permetteva, come permetteva che quella Taverna non fosse in linea con l’algida ricchezza e l’impeccabile ordine che vigevano nella MeilenHaus.

Anche il Signore, in fondo, aveva riempito i paradisi tropicali di zanzare, e il Tedesco copiava sempre le idee dei migliori. Concorrenza per imitazione.

Lì bevevano e chiacchieravano e giocavano a carte servi e autisti, mezzadri, uomini di poco valore ed ancora meno soldi da spendere: camerieri in livrea, tappeti e champagne non solo sarebbero stati sprecati, ma avrebbero messo anche a disagio quella bruta clientela. E poi, per quanto tedesco, il Seńor apprezzava la nota legge di natura per cui un’imperfezione raminga dà risalto all’ordinata bellezza dell’immagine. E quell’imperfezione alla MeilenHaus era detta Taverna.

Il figlio del vecchio era già pronto, si avvicinavano le cinque.  

Inferno: diciassette – cinque, orario continuato. Così qualche volta aveva pensato, nei suoi rarissimi sprazzi d’umorismo, il buon De Marina, all’avvicinarsi dell’ora in cui si aprivano le porte della MeilenHaus.

Alle cinque in punto tutti i giorni (tranne le principali feste religiose, quando anche le puttane che potevano andavano dalle loro famiglie, ed Monsignor il Vescovo era contento) la campana della torre dell’orologio suonava e tra due file di soldati schierati Herr Thugut dava gli ordini necessari affinché venissero tolti i chiavistelli ed i catenacci, lasciando libero accesso al  regno del Tedesco (il quale, dalla ombrosa loggia dei suoi appartamenti privati, si godeva la scena)a due file di soldati schierati Herr Thugut dava gli ordini necessari affinchè venissero tolti i chiavistel. Così sarebbe successo anche quel giorno, che però era lunedì: iniziava una settimana lavorativa, ed il Señor onorava la ricorrenza a suo modo.

Nella MeilenHaus, come in tutti gli stati che si rispettino, c’era un Governo (che si riuniva, assonnato ed impaurito, ad ore antelucane, tra un caffè forte, una sigaretta ed uno sbadiglio trattenuto), un esercito (organizzato da Herr Thugut), una costituzione non scritta (come in Inghilterra, ma questa era meno liberale), un’organizzazione sociale appena meno rigida che il sistema di caste indiane e … un inno nazionale, ovviamente.

La presenza massiccia di tedeschi melomani dovrebbe far supporre che per l’abbisogna si fosse scelto un qualche brano di Wagner, ma non era così: il Tedesco aveva imposto lo spartito di una vecchia nenia popolare, che gli cantava la sua nonnina quand’era piccolo; come tanti suoi compatrioti, tra un massacro e l’altro aveva nel cuore abbastanza spazio per la genuina commozione data dai ricordi del natio e lontano focolare.

Ma poiché un inno dev’essere decisamente marziale, giacché al suono delle sue note l’esercito deve marciare altero e fiero, bisognava trovare un musicista più o meno bravo che lo riarrangiasse, e chi meglio di un latino - che, come tutti i tedeschi sanno, hanno la musica nel sangue - poteva occuparsene?

Così una sera, alla chiusura del suo negozio di musica, il signor Pietro Crespi·, figlio di bergamaschi immigrati in Argentina (da dove, non avendo fatto fortuna, si erano allontanati finendo sulle rive del Canale), ebbe il notevole piacere di trovarsi un messo della MeilenHaus che lo invitava a conferire con il Señor; e il resto è facile immaginarselo.

Ci volle del buono e del cattivo per riuscire a trovare qualcuno da impiegare nella banda della Guardia Civile perché, come lo stesso Tedesco ammetteva con rara magnanimità, il senso artistico non è di tutti. Alla fine, persi molti chili e capelli, il povero Crespi riuscì a trovare abbastanza persone per mettere insieme una banda presentabile mentre Renée, gioendo, aveva già disegnato la loro divisa, che fu bocciata senza appello da tutti coloro che la videro: “Diavolo, amore, anche un domatore da circo si vergognerebbe ad indossarla!” sintetizzò il Señor.

Risolto il problema degli uomini grazie a Crespi, quello dei vestiti con l’intervento provvidenziale di Madame R., quello di farli marciare a tempo dopo una lunga serie di estenuanti bestemmie e prove da parte di Herr Thugut, scoppiò la grana del percorso: e questa fu la prima missione importante che il mellifluo Stroessner risolse.

Il Tedesco aveva stabilito che la banda militare sarebbe uscita dalla MeilenHaus, avrebbe fatto un giro del paese che si estendeva sotto le protettrici braccia di quel covo di attivi non - morti, vivi senza coscienza e puttane senza futuro.

Giunta davanti alla Chiesa di San Michele Arcangelo avrebbe reso gli onori militari –suonando qualche inno gregoriano- all’alato soldato che aveva sconfitto il Diavolo, al parroco e quindi indirettamente a Monsignore il Vescovo e a tutta Santa Romana Chiesa (meritevole di vegliare sulle anime di quei disgraziati che credevano in Lei e lavoravano per il Señor), e poi sarebbe rientrata alla base.

E tutto questo di domenica, perché da che mondo è mondo le bande escono in parata in quel giorno.

Quando Monsignor il Vescovo seppe che il Banchiere di Satana (pittoresco soprannome per il Tedesco) aveva intenzione di far sfilare nel giorno del Signore il suo esercito privato, e per di più davanti alla Sua Casa, per poco non ebbe un infarto per l’ira; immaginiamoci quando il parroco di San Gabriele gli comunicò l’aggiunta degli onori militari.

Stroessner iniziò una lunga serie di peregrinazioni tra la Curia, gli uffici del Governo panamense (il Governatore statunitense aveva stabilito che questa era una faccenda tutta interna ai papisti e quindi non interessava in alcun modo la sua amministrazione), la MeilenHaus e la parrocchia: il Señor non voleva cedere in quello che riteneva un doveroso omaggio verso un potere cui voleva mostrare tutta la sua amicizia, Monsignor il Vescovo minacciava l’interdetto su quella parrocchia e Padre Nicanor era pronto a sfoderare un pubblico Santo Rosario in piazza davanti a quei soldati ed a quella banda musicale.

Alla fine si giunse ad un accettabile accordo: la banda giunta davanti alla Chiesa avrebbe lasciato da parte il gregoriano e gli onori militari, restando comunque in un computo silenzio carico di rispetto per il sacro edificio e Chi rappresentava, e il parroco avrebbe tenuto per sé qualsiasi atto ostile, compresi improvvisi e furibondi scampanii. E tutto questo sarebbe avvenuto di lunedì alle cinque della sera, quando la MeilenHaus riapriva ufficialmente i battenti per la nuova settimana.

Spike e Drusilla, protetti dall’ombra delle arcate del cortile principale, rimiravano questo spettacolo senza sapere cosa dire: un cavallo senza cavaliere (che rappresentava l’assente ma pur sempre presente Señor) tenuto per le briglie da un soldato apriva il breve corteo, seguito dal povero Crespi e dalla sua risicata banda che suonavano pezzi di varia natura e provenienza spazianti da Mozart a Franz Lehar·, e infine giungeva la bandiera e l’impettito Herr Thugut coi suoi truci soldati.

In ogni angolo del mondo una banda fa allegria, le donne sorridono affacciate dalle finestre e i bambini ridono e battono le mani a tempo: in quelle equatoriali terre quella sfilata era più simile ad un funerale di un suicida.

Mentre quelli marciavano a tempo per le strade, le persone di quei sobborghi assistevano e non dicevano nulla, qualcuno al più si segnava, attendendo che i gonfaloni demoniaci e tutti i segni più esteriori del potere di quel morto che non riposava del giusto sonno ritornassero dentro quelle alte e bianche mura: così avrebbero potuto continuare a vivere cercando di narcotizzare l’orrore e la paura che da anni oramai viveva con loro, si sedeva sulle loro sedie, mangiava con loro e li accompagnava nelle loro vite.

Dopo il rituale giro lo schieramento rientrò alla MeilenHaus ed a Spike toccò assistere al culmine di quell’autoincensarsi del proprio ego che il Señor aveva creato: nella loggia centrale al terzo piano, la stessa dove lui e il Tedesco si erano fumati una sigaretta qualche notte prima, le alte porte a vetri si aprirono.

In penombra, ma chiaramente visibili dal grande cortile, uscirono come in parata i supervisori dei vari bordelli, De Marina e Stroessner, Chen Segundo e Magnus, gli altri burocrati di quella macchina da sesso e soldi ed infine, dopo una significativa pausa, il Señor e la Señora, accolti dalle note dell’inno ufficiale.

Belli, ben vestiti, eleganti, lei come trasognata per lo spettacolo che il suo Karl le offriva, lui serio ma compiaciuto, sorridevano e salutavano benevolmente con la mano tra quelle persone immobili e rigide, al centro di un tableau vivant che andava considerevolmente oltre l’assurdo ed il grottesco.
E sì che in quelle terre assurdo e grottesco prosperavano da sempre, con una spruzzata di macabro per gradire, come piante grasse.

Ma lì si esagerava.

Sessant’anni dopo a Spike tornò in mente quell’irreale spettacolo vedendo per caso in televisione nella tribuna sulla piazza Rossa Breznev· ed una folla di vecchie mummie sovietiche più morte che vive salutare con la stessa defunta vitalità del Señor l’obbligato giubilo dei loro terrorizzati ed oppressi sudditi.

Di fronte a tale spettacolo, persino i raffreddori di Andropov· diventavano segni di inaspettata vitalità.

 

 

Con notevole perizia ed ampio uso di fini arti diplomatiche, il Tedesco era riuscito ad impedire a Renée di attraversare la strada, entrare nella casa dei Montiel e fare due chiacchiere con la cognata del pastore per mostrarle il radioso e ricco avvenire che le si sarebbe prospettato se avesse voluto collaborare in pianta stabile con la MeilenHaus. Conosceva la sua dolce metà, ma credeva che, se si fosse presentata una donna viva e vegeta, la signora sarebbe stata meno intimidita.

Non che si fosse dimostrata tale durante la passata notte, ma poteva benissimo darsi che dopo un’emorragia, uno svenimento nel fango, la visita di un medico, di un prete e un intero pomeriggio per riflettere, il suo punto di vista circa i non morti fosse cambiato. Per quell’incarico Madame R. con il suo fascino rassicurante, la pronta intelligenza e la profonda empatia che riusciva a instaurare con tutti era sicuramente la più qualificata.

La signora stessa aveva subito acconsentito. Non v’è destino meglio compiuto di chi – nel lavoro – realizza i propri talenti.

Quelli di Madame R. non erano solo per l’amore inteso come arte e godimento non solo fisico, ma anche emotivo ed intellettuale, che pure l’avevano portata ad eccellere nel suo campo, ma anche più in generale per le public relations.

PR ante litteram, era donna che faceva del contatto con il prossimo, specie quello parlato¸ la propria croce e delizia quotidiana, il core business della sua professionalità di maitresse.

Non pensate, a volte credeva che non le piacesse quel continuo dover fare da schermo trasparente e osmotico tra i desideri dei questuanti (sia che fossero clienti, che fornitori….) e il potente (l’interesse supremo della MeilenHaus, ormai del tutto assurta ai suoi occhi al rango di Istituzione ontologicamente fornita di mission e vision aziendali).

Chissà. Quando iniziava una giornata, subito dopo l’incontro delle otto, e dopo un forte caffè, Madame R. detestava di dover di nuovo cominciare l’eterna, teatrale pantomima consistente nel far credere a chi chiedeva che ogni sua richiesta fosse alla sua portata, e che la magnanimità dell’Istituzione fosse immensa.

Per far ciò, bisognava applicare all’ennesima potenza la sublime arte del far cadere le cose dal quindicesimo piano.

Non banale, la faccenda. Eppure, di tanto in tanto, foriera di soddisfazioni, come quando i potenti della zona sfioravano con le labbra, vinti non da una consuetudine agée ma da autentica fascinazione, le sue piccole mani bianche e lisce.

Di tanto in tanto, un misterioso fremito di piacere la percorreva. V’erano colloqui più gratificanti di altri, s’intende, e in quelli ella eccelleva.

Specie quando doveva convincere qualcuno dell’esattezza delle scelte di vita da lei stessa fatte.

Fallire in quello avrebbe invero compromesso nel profondo ogni sua serenità: per cui, non restava che mettere fascino e teatralità all’opera,  e vendere la sua personale scelta di vita come fosse Vangelo.

Madame R. pensava a quello, mentre si affrettava verso la casa dei Montiel. Se la ragazza aveva quel tipo di qualità, sarebbe stato un vero peccato sprecarle. Non solo per la Meilenhaus, ma per lei. Qualità totale era già un concetto chiaro alla matura maitresse anni prima che i teorici giapponesi lo individuassero. Il cliente è al centro del suo mondo, la sua soddisfazione è la soddisfazione (letterale) del fornitore del servizio.

E così via in cerchi concentrici di gratificazione - dovere, all’apparenza così moderni, ed invece così medievali….

Il dolore è anarchico, la soddisfazione è reazionaria.

Ma questo Madame R. non solo lo intuiva, di più, lo rifiutava, così come si rifiuta il concetto della Morte.

Il dolore erano i vampiri che ti straziavano le carni, dandoti un piacere insufficiente e breve. Sostanzialmente deludente.

La soddisfazione era la protezione fornita dalla Meilenhaus.

“E’ permesso ?” chiese, bussando alla porta della casupola. Indossava un lungo abito severo, color grigio scuro, eppure fine, con i polsini di velluto nero, ed il piccolo colletto di pizzo bianco. Molto di classe. Una governante del midwest non si sarebbe potuta vestire in modo più appropriato. Alla faccia di tutti i cliché.

“Señora … vi prego, entrate.” la accolse il Señor Montiel. Entrare era un concetto ambizioso, per una casa di quelle dimensioni, visto che  ci si limitava a lasciare l’aria del vicolo per quella stantia di un’unica stanza di medie dimensioni. Dove troppa gente respirava. Senza darne conto, Madame R. si portò il fazzoletto di sangallo alle narici.

La vide subito.

E sentì subito l’odore del sangue.

Non si poteva stare anni ed anni vicino ai vampiri senza imparare a conoscere quell’odore, che si portavano dietro come i gatti la loro urina. Le sue narici fremettero. Marthe, sotto il suo sguardo verde, si tirò su, radunando le lunghe gambe fino a toccare il pavimento in terra battuta con le punte dei piedi.

Indossava una camicia da notte di cotone usurato e giallognolo, ma apparentemente pulita. E aveva il collo e i polsi fasciati. La metresse indovinò altresì il rigonfiamento di una fasciatura inguinale e sulle cosce.

Era pallida, pallidissima. Madame R. giudicò che ci sarebbe voluta una decina di giorni prima che si riprendesse del tutto. Forse, il suo colorito verginale non sarebbe mai più tornato. Mai più.

Non era necessariamente un male.

“Mia cara, non agitatevi.” le disse, piano, sedendosi accanto a lei. Il luogo non era lercio … malgrado la povertà. Doveva darne atto a quegli umili popolani. Le prese la mano fasciata, l’accarezzò. E poi sollevò il volto ad incontrare gli occhi di lei.

Occhi vitrei. Marthe sembrava ancora sotto shock.

“Non voglio farvi del male. Nessuno vi farà mai più del male.

”Me lo potete garantire?” chiese Marthe, con il suo accento gutturale.

“Sì.” Madame R. scosse il capo. “Siete sotto la protezione della MeilenHaus, ora.”

“Quel posto dove ... mio Dio …”

“Dov’era Dio quando quelle due belve vi straziavano?” chiese dolcemente Madame R. E poi, chinando il capo, le scostò i capelli dalle guance con dita leggere. “Dov’era Dio quando vi facevano provare emozioni che nessun essere umano, nessun figlio di Dio dovrebbe provare? Il Dio che voi temete non esiste, Marthe. Esiste la carne, il sangue. La pelle, i peli. Esiste il respiro. Ed esistono creature come quelle.

“Voi bestemmiate.”

“No. Io dico ad alta voce ciò che avete già intuito, Marthe.” replicò piano la maitresse. “Se Dio c’è, ha ignorato il vostro santo cognato, e pure voi. O forse no, forse quel Dio vi ha preservata, perché il vampiro non ha preso la vostra vita. E solo quello conta. Vivere fino a domani.

Marthe non rispose. Si limitò a voltare il viso dall’altra parte.

“Ascoltatemi.” mormorò Madame R., prendendole dolcemente il mento con due dita. “Avete scoperto cose che molti non scoprono in anni ed anni di vita. Donne sposate da decenni non sanno un decimo di ciò che avete sperimentato voi in una sola notte. Reputatevi fortunata. Non c’è altro che possa spaventarvi. Ed è molto, per una donna, sapete? E’ garanzia di libertà.”

Marthe la fissò, gli occhi sempre più grandi, nel viso pallidissimo.

“Libertà. Marthe, ripetete quella parola con me, assaporatela come si assapora un frutto. Libertà. L’avevate, prima, quando vostra sorella è morta e siete rimasta sola con un cognato che vi concupiva senza avere il coraggio di sposarvi? Ditemi, eravate libera?”

Marthe esitò…e poi scosse il capo.

“Bene.” Madame R. sorrise, lasciando che il piacere di una negoziazione ben condotta le scivolasse lungo le terminazioni nervose. A ciascuno le proprie gratificazioni professionali.

“No…non lo eravate.” Il suo piccolo sorriso indugiò sulle labbra piene, ancora prive di rughe. “Vivevate secondo un set prestabilito di doveri e convenzioni. Ma il mondo, che per voi finiva lì, non si esauriva … anzi. Fuori dalla vostra casa … anzi, dalla sua casa … c’era tutto un universo di creature diurne e notturne, creature che fottono e vivono e sanguinano e si nutrono e … scoprite la vostra libertà, Marthe. Siete bella, nel modo in cui sono belle le donne che a qualunque latitudine riescono ad attrarre gli uomini nel loro letto, al di là di pizzi e belletti, e siete intelligente. L’altra notte siete stata preda, e vi è servito, era indispensabile … nulla se non la più totale acquiescenza può dare la vera libertà, non lo sapete?  E siete sopravvissuta. Ad una donna che è sopravvissuta a ciò che avete provato voi, tutto è concesso, Marthe. Tutto. La vostra ricchezza è tra le vostre gambe: non la lasciate marcire.”

“Cosa … intendete?” chiese Marthe, fissandola come se nel bel volto di quella donna gentile che diceva cose così vere ci fossero chissà quali supreme rivelazioni …

Madame R. si avvicinò. Il suo sguardo verde come smeraldo divenne ipnotico, assumendo una sfumatura dorata nella penombra della casupola.

“Sesso. Io lo so, Marthe, cos’è il sesso. Quello vero. E’ piacere, piacere da far dilaniare le membra, piacere da far sciogliere la mente. Il piacere vero è inebriante, vero? Voi lo sapete. Io ve lo prometto, quel piacere. Vi prometto di mostrarvi i segreti, le tecniche … tutto ciò che vi occorrerà per dominare il vostro corpo e quello dei vostri amanti … o delle vostre amanti. Per renderli vostri schiavi. Per darvi libertà. E, sì … anche denaro. Rispettate il denaro, Marthe. Il denaro è libertà. Il denaro vi nobilita. Il denaro vi può dare il piacere, e il piacere vi darà il denaro, ed entrambi vi daranno la libertà … cui così intensamente anelate.”

“Dite sul serio?” chiese Marthe, con voce resa ancora aspra dal dolore. “Proverò ancora…quelle emozioni?”

“Sì.” sussurrò Madame R., dolcissima. “Sì, tesoro mio. Proverete quel piacere. Quando lo vorrete. E sarete libera e remunerata, avrete tutto … una casa, compagnia, il mio sincero affetto … la vostra libertà. E persino un fondo pensione per dopo, quando sarete … più matura. E’ molto che sto cercando la persona che mi succederà tra alcuni anni alla Meilenhaus … nella direzione, intendo. Voi siete intelligente, istruita … in breve, potreste essere la persona adatta. Pensateci, Marthe. Un futuro meraviglioso vi si stende davanti. La vostra risposta è, a questo punto, naturalmente un …”

“No.”

Madame R. la fissò, senza capire.

“Ho detto no.” rimarcò Marthe.

“Figliola, la perdita di sangue vi acceca. Vi obnubila. Che diavolo pensate di fare, sola, senza denaro, in un paese venduto al demonio a mille miglia dalla vostra patria? Finirete come carne da macello. Forse non avete ancora capito che siamo nel mezzo di una catena alimentare in piena regola, e voi non siete certo … al top.”

“Non farò la puttana.” replicò Marthe, fissandola con forza, malgrado la debolezza estrema. “Ci sono destini che devono compiersi, ed il mio non è quello di finire meretrice. No, non io, la figlia di mia madre. Se perirò, così sia, ma non mi abbasserò a fare ciò che voi fate, a vendere me stessa e gli altri come fossero merce al mercato.”

“Ma … con il vampiro …”

“Dite bene. Con lui. E con nessun altro.

“Non siate sciocca. Per lui siete un pezzo di filetto al sangue. Siete cibo. Null’altro. Penserete mica, bambina, di piacergli?

Marthe scosse il capo. “Non penso nulla. So di poter cadere, ed anche di rialzarmi, ma ciò che mi proponete è  solo un’infinita caduta …”

“Un’infinita dolce caduta …” la corresse Madame R., guardandola con compatimento.

La ragazza aveva talento.

Ma non aveva cervello. L’avrebbe capito chiunque che non aveva un futuro, fuori dalla Meilenhaus. Non lì a Panama. Prima che fosse stata notte, il suo corpo sarebbe letteralmente marcito. Il caldo, la miseria, le zanzare, lì, dissolvevano tutto, peccati e corpi.

Forse. Ma una caduta, nondimeno.”

Madame R. si rialzò, guardandola piano, senza astio … quasi con pena.

“Sapete cosa vi frega, Marthe? La solita arroganza dei protestanti. Pensate di essere stata scelta. In effetti, lo siete stata, ma non dalla potenza divina che pensate voi.”

Madame R. sorrise, prima di uscire, e la lasciò con un’ultima battuta. Marthe le restituì il sorriso con fierezza, anche se le gambe le tremavano.

“I cattolici sono più pragmatici, mia cara, ed il paradiso se lo costruiscono in terra.” la fissò, prima di chiudersi la porta alle spalle.

 

 

E così quella era la Meilenhaus, pensò il giovane funzionario dell’ambasciata statunitense, giuntovi davanti per la prima volta. Aveva indossato un abito in lino di mediocre valore, non s’era messo la camicia coi gemelli ed aveva abbandonato l’orologio a cipolla, il panama e gli occhiali da sole, sperando che nessuno lo riconoscesse; per maggior precauzione era arrivato fin là prendendo il tram pubblico dove, mischiato tra peones e poveracci, aveva aspirato il vero odore di Panama, composto di sudore, polvere, povertà e rassegnazione.

Tutte cose che non aveva mai neppure sfiorato nello sterilizzato e compassato quartiere americano dove viveva, in cui di rigore erano la pulizia, la sobrietà ed il patriottismo. Poi aveva dovuto rappresentare l’ambasciatore al capezzale di un giornalista morto dissanguato, e per James F. Wilkinson la percezione di Panama era cambiata radicalmente: quel mondo sporco e lontano, di cui si parlava nelle austere stanze del potere come se fosse reale quanto un archetipo platonico, era lì dietro l’angolo (come del resto, a New York, Little Italy, con tante ragazzine figlie di immigrati italiani in gonnelline corte e lunghe gambe abbronzate….) e pullulava di tentazioni.

Dopochè Stroessner se n’era andato, aveva congedato di nuovo il capitano Marquez e aveva chiesto di poter interrogare in privato la ragazzina che aveva trovato il cadavere: era salito su uno scricciolo dalle ossa lunghe e occhi neri profondi, una voluminosa testi da capelli crespi ereditati da qualche nonna schiava e due labbra carnose un po’ imbronciate, che avevano mozzato subito il fiato al giovane.

Era teso quanto eccitato, e come ogni volta in quel frangente non sapeva come comportarsi, e sarebbe stata troppa fortuna se la ragazzina avesse capito subito cosa voleva da lei. Ascoltava compita lo spagnolo artificioso di quell’uomo che sudava tanto guardandola fisso. Ogni momento che passava, ogni volta che incrociava quegli occhi o che le fissava la bocca, James sentiva montare tanto il desiderio quanto l’ansia e il senso di colpa per quello che desiderava fare e che non sapeva in che modo far accadere.

Fu lei che prese in mano la situazione, chiedendo se sarebbe stata interrogata altre volte: il giovane americano, le cui pulsazioni continuavano ad aumentare, non formulò una frase sensata, ma disse qualcosa che assomigliava a “potrebbe darsi, sì, forse, bisogna vedere”. Lei gli si avvicinò guardandolo negli occhi, appoggiò la testa sul suo petto e chiese in modo educato se ci fosse modo per evitarle altri interrogatori, artigliandoli l’erezione: James pensò sarebbe morto sul colpo, e mettendole una mano sulla spalla balbettò che forse lui poteva fare qualcosa.

La sera, sdraiato ed insonne nel suo letto, si era ricordato di quello che mister Stroessner gli aveva detto della MeilenHaus, ed aveva avuto subito una gran voglia di andarlo a trovare sul posto di lavoro. Si sarebbe presentato per ringraziare a nome dell’Ambasciata per la sollecitudine e la cura che era stata impiegata nel chiudere la pratica Smithson e avrebbe confidato nell’intuito e nella cortesia di mister Stroessner per un giro all’interno del più famoso pubblico esercizio di Panama.

Si era avvicinato all’ingresso, presieduto da due impettite Guardie Civil, sperando ardentemente nessuno lo notasse, senza ancora aver capito come, dentro quelle mura, di solito ci fossero più persone rispettabili che sul palco delle autorità nella piazza del Parlamento il giorno dell’indipendenza nazionale. Superato l’androne si era trovato all’interno del grande cortile quadrato, e aveva percepito di colpo, con una vampata di panico che lo assaliva, di non avere la più pallida idea di come muoversi e dove andare.

La fortuna (in questo frangente di certo non c’entrava la Divina Provvidenza) aveva voluto che davanti a lui, a non oltre cinque metri di distanza, fosse appena scesa da una Ford nera una coppia: da dietro Wilkinson poteva vedere che l’uomo, molto grosso, indossava come tanti possidenti locali degli stivaloni, pantaloni alla cavallerizza ed una larga giacca color corda; la donna, quasi sovrastata dalla mole del suo compagno, aveva una di quelle scandalose gonne appena sotto il ginocchio ed un vezzoso cappellino a cloche.

“Mi perdoni, Señor” chiamò: sentendo la voce da gringo, Collman si girò per vedere a chi appartenesse. Vide un secco giovane uomo evidentemente a disagio, vestito in maniera sciatta e dimessa, anche se le sue mani curate ed i suoi denti bianchi e perfetti testimoniavano fosse nato e vissuto in una casa dove i pasti non erano mai mancati, e dove c’era una tata che si assicurava dopo cena che lavasse i denti e recitasse le preghiere.

Collman gli rivolse un grosso sorriso, che lo faceva assomigliare ad un contadino furbo quando incontra un “pollo” da spennare, e gli si avvicinò, squadrandolo dalla testa pettinata in modo perfetto (la riga nei capelli poteva essere stata fatta con la quadra) fino ai piedi, che calzavano morbide e comode scarpe di vitello. Chi diavolo era quel riccone con quel vestito da quattro soldi?

Il senso estetico di Wilkinson fu offeso alla vista di Collman, che come al solito sprizzava volgarità, compiacenza, affabilità a buon mercato ed illegalità; ma fu una sensazione che durò un attimo, perché i suoi occhi incontrarono quelli verdi di Danka. Non aveva certo l’età delle amichette a causa delle quali era stato spedito laggiù, ma era semplicemente la cosa più bella e florida avesse mai visto al mondo.

“Al suo servizio mister …”

“Wilkinson, Señor” rispose l’americano, con gli occhi sempre fissi sulla bellissima donna dai tratti leggiadri ed aristocratici che gli aveva accennato un sorriso.

“Come posso esserle utile? Scommetto che è la prima volta che lei viene qua. Io sono di casa, invece, le saprò dire di certo dove trovare quello che cerca. Mi dica solo che … gusti ha: siamo tra gentiluomini, ci siamo capiti, vero?”

Memore (in quest’ordine) di essere statunitense, bianco, anglosassone, protestante e laureato, James F. Wilkinson con tutta la degnazione possibile comunicò a quell’orrido ceffo che doveva parlare con mister Stroessner.

Allora quell’americano tranquillo, nonostante non sembrasse essere dotato di particolare acume, doveva essere un uomo di un qualche valore, o almeno interesse: tanto valeva, quindi, chiedere delle informazioni su di lui agli  amici di Washington ed intanto iniziare a cuocerselo per benino, che era sempre una cosa utile. E Danka avrebbe potuto dargli una mano: non ci voleva un genio per capire che la sua donna non aveva lasciato indifferente il gringo.

“Ah, mister Wilkinson, che fortuita combinazione: anch’io debbo vedermi con lui per affari. Lei lo conoscerà, sa bene che uomo prezioso e discreto sia! Ma i miei giudizi sono di parte: anch’io come lui sono di stirpe germanica e non riuscirei mai a trovare pecche in un altro ariano. E a ben vederla credo che anche lei possa vantare con noi comuni antenati … fieri adoratori di Thor, invitti guerrieri, uomini superiori forgiatori di civiltà. Insomma, alla lontana siamo cugini!”

Collman diede una grossa risata, la cui volgarità (unitamente all’assurdità delle sue affermazioni) ferì le orecchie di Wilkinson (il giovane pensò che avrebbe potuto dar fastidio a quella silenziosa e discreta dama) e con familiarità lo prese sottobraccio. Ora tra lui e il timido e virginale fiore dagli occhi verdi c’era quel grosso e vociante omone: James F. Wilkinson ebbe un brivido di dispiacere pensando che avrebbe fatto tutto ciò di cui sarebbe stato capace per rovinarlo ed allontanarlo per sempre da lei.

 

 

 

Note e curiosità

 



· I coniugi Montiel sono protagonisti del racconto “La vedova Montiel”, contenuto in “I funerali della Mamà Grande” di Gabriel Garcia Marquez.

· In casi di pericolo imminente di vita anche un laico può impartire un battesimo, che per la legge canonica è valido a tutti gli effetti. Questo avviene il più delle volte al momento della nascita di bambini la cui sopravvivenza è estremamente incerta, evenienza una volta molto diffusa nelle campagne e tra la povera gente. Queste conoscenze teologiche della signora Montiel non debbono quindi stupire.

· Pietro Crespi è un personaggio di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez. Nel romanzo non è bergamasco: questo è un omaggio di uno degli autori ai propri avi immigrati nel Nuovo Mondo.

· Franz Lehár (30 aprile 1870 - 24 ottobre 1948), figlio di un direttore di banda militare, studia al Conservatorio di Praga. Sceglie poi di seguire le orme paterne: a Losoncz, Pola, Trieste, Budapest e Vienna sarà direttore di banda in vari reggimenti austro-ungarici e durante questo periodo inizia a comporre e scrive due opere liriche, “Rodrigo” (1890) e “Kukuschka” (1896); solo quest’ultima verrà rappresentata (e poi ribattezzata nel 1906 “Tatjana”).

A Vienna mette in scena la sua prima operetta, “Donne viennesi”, nel 1902; scriverà poi tre operette modeste prima di approdare al più trionfale dei successi nella storia dell’operetta: “La vedova allegra”. Dal 1905 il fortunatissimo lavoro di Lehár conserva tuttora i suoi magnifici requisiti: incarna un’epoca, un modo di vedere la vita, una cultura, e le repliche si susseguono ancor’oggi in tutto il mondo con esiti incredibili perché Lehár aveva capito cosa voleva il pubblico e qual’era la nuova funzione dell’operetta. La parola d’ordine era “seduzione”, in senso musicale, nei contenuti, nel fascino dell’ambientazione, nelle pieghe della comicità: “La vedova allegra” inebriava il pubblico di piacere per la vita, di favola e di sogno, di risvolti dolceamari che venivano prontamente riscattati dall’umorismo e dal sorriso.

Dopo il successo de “Il conte di Lussemburgo” firma “Eva” e “La moglie ideale”, ibrida e banale: la stella lehariana sembra appannarsi, nubi funeste di guerra inquinano l’animo del compositore, il mondo si trasforma, l’impero austro-ungarico crolla, sui giornali si ironizza sull’operetta ritenuta anacronistica ed obsoleta. Lehár sogna un universo sereno dove regni la pace dell’anima. Dopo la Grande Guerra compone “Finalmente soli!”, lodata da Puccini, ma il pubblico sembra distratto: “Mazurca blu” non sarà un successo, e così “Frasquita” e le trascurabili “La giacca gialla” e “Clo Clo”.

L’acclamato tenore Richard Tauber accetta la collaborazione con Lehár ed inizia una nuova stagione, florida e rigogliosa: “Paganini” è il primo frutto di questo connubio e si attesta subito su alti livelli; in Italia una gradevole rielaborazione de “La danza delle libellule” fa guadagnare molto a Lehár che, da adesso in poi, non perde più un colpo: il fortunato ciclo continua con “Il paese del sorriso”, da cui proviene l’aria “Tu che m’hai preso il cuor”, rielaborazione della sfortunata “Giacca gialla”.

Siamo ormai nel 1929 e stanno per suonare le campane a martello anche per l’operetta: l’Europa si prepara ad una nuova, terribile guerra, le persecuzioni contro gli ebrei costringono compositori e librettisti d’operetta ad emigrare, qualcuno conoscerà anche tristi giorni di prigionia e Lehár si accontenta di amministrare i propri sforzi del passato. Prima di morire nella sua villa di Bad Ischl, vivrà un periodo a Zurigo, dopo la fine della guerra. Non saranno gli ultimi anni della sua vita nella quieta cittadina di Bad Ischl a ridargli la dovuta serenità; dopo aver regalato tanti sorrisi musicali, Lehár non ebbe mai la soddisfazione di una piena consacrazione da parte della critica musicale.

· Leonid Il’ic Brežnev (19 dicembre 1906 - 10 novembre 1982) fu l’effettivo presidente assoluto dell’Unione Sovietica dal 1964 al 1982, Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1964 al 1982, e due volte a capo del Presidium del Soviet Supremo (Capo dello Stato), dal 1960 al 1964 e dal 1977 al 1982.

Diplomatosi nell’Istituto di studi Metallurgici di Dneprodzerzinsk e laureatosi in Ingegneria Metallurgica, lavorò per qualche tempo in alcune industrie del ferro e dell’acciaio nell’Ucraina orientale: si unì alle organizzazioni giovanili del PCUS, il Komsomol, nel 1923, e divenne membro del partito stesso nel 1931. Quando egli vi entrò Stalin ne era il capo indiscusso, e lui con molti altri crebbero politicamente nel segno dello stalinismo senza porsi dubbi o domande sulla bontà delle scelte che venivano dall’alto.

Dopo la seconda guerra mondiale Brežnev lasciò l’Armata Rossa col grado di Maggior Generale: era stato commissario politico per l’intera durata del conflitto, e si era occupato pochissimo di incarichi di comando militare vero e proprio. Nel 1950 divenne deputato del Soviet Supremo, il parlamento-facciata dell’URSS; nello stesso anno, fu Primo Segretario nella RSS Moldava, che era stata da poco assorbita nell’Unione Sovietica dopo l’annessione alla Romania. Nel 1952 divenne membro del Comitato Centrale del Partito Comunista, e successivamente del Presidium (già noto come Politburo).

Nel 1956 fu promosso a membro candidato del Politburo, e fu incaricato dell’industria degli armamenti, del programma spaziale, dell’industria pesante e della loro amministrazione. Nel 1959 Brežnev divenne Secondo Segretario del Comitato Centrale e nel maggio 1960 fu promosso a Presidente del Presidium del Soviet Supremo, carica che lo rese nominalmente Capo dello Stato. Anche se il vero potere era nelle mani di Khrušcev, che era Segretario di Partito, la posizione presidenziale permise a Brežnev di viaggiare all’estero, e così iniziò a sviluppare il gusto per i ricchi abiti occidentali e le automobili, per le quali divenne poi famoso.

Una volta divenuto presidente, la sua politica (soprattutto quella estera) si basò su una revisione del marxismo che venne tra l’altro chiamata “dottrina Brežnev”: egli dichiarò che l’Unione Sovietica era lo stato guida del comunismo e che aveva il diritto di intervenire, anche militarmente, negli affari interni dei paesi alleati, come fece in Cecoslovacchia nel 1968. Nei confronti di Stati Uniti ed Europa occidentale egli perseguì una politica di distensione, riportando risultati significativi agli inizi degli anni Settanta, ad esempio con la firma del primo trattato sulla limitazione delle armi strategiche SALT II. Tuttavia l’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979 segnò un deterioramento nelle relazioni USA - URSS che portò tra l’altro al boicottaggio di due Olimpiadi.

Negli ultimi anni della sua vita Brežnev, nonostante la grassezza, le malattie e la vecchiaia, consolidò il proprio potere: nel 1976 fu nominato maresciallo dell’Armata Rossa, l’anno successivo venne rieletto alla presidenza del Soviet Supremo e nel 1981 fu di nuovo alla guida del Partito comunista dell’Unione Sovietica.

· Jurij Vladimirovic Andropov (15 giugno 1914 - 9 febbraio 1984) fu Segretario Generale del PCUS dal 12 novembre 1982 alla sua morte.

Dopo aver studiato all’Istituto Tecnico per Trasporti Acquatici di Rybinsk, fu primo segretario del Komsomol (organizzazione del PCUS per l’inquadramento politico dei giovani) nella Repubblica Careno - Finnica dal 1940 al 1944; dopo la guerra, si spostò a Mosca, nel 1951, ed entrò nella segreteria del partito. A seguito della morte di Stalin, nel marzo 1953, Andropov venne degradato ed “esiliato” da Georgij Malenkov nell’ambasciata sovietica di Budapest, giocando un ruolo importante nell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956.

Andropov tornò a Mosca per guidare il Dipartimento per le Relazioni con le Nazioni Socialiste (1957-1967), venne promosso al segretariato del Comitato Centrale nel 1962; nel 1967 venne nominato capo del KGB e nel 1973 divenne un membro a tutti gli effetti del Politburo, anche se non si dimise da capo del KGB fino al 1982.

Pochi giorni dopo la morte di Brežnev (10 novembre 1982), Andropov venne nominato a sorpresa come Segretario Generale, battendo Konstantin Cernendo, che gli successe alla morte. Fu il primo capo del KGB a diventare Segretario Generale e a questa carica aggiunse rapidamente quella di Presidente dell’URSS e Presidente del Consiglio di Difesa.

Durante il suo governo fece dei tentativi di migliorare l’economia e ridurre la corruzione; viene ricordato anche per la sua campagna anti-alcol e la lotta per migliorare la disciplina sul lavoro: entrambe le campagne vennero portate avanti con il tipico approccio amministrativo sovietico ed una durezza vagamente reminescente dell’epoca staliniana.

Il suo governo fu anche segnato dal deterioramento dei rapporti con gli USA, a causa della forte presa di posizione antisovietica di Ronald Reagan, che vennero esacerbati dall’abbattimento da parte di caccia sovietici di un aereo di linea coreano che si era smarrito nei cieli Russi il 1 settembre 1983, e dallo schieramento in Europa dei missili Pershing americani. Morì per un cedimento dei reni il 9 febbraio 1984, dopo diversi mesi di malattia.

Nonostante la linea dura impiegata in Ungheria ed i numerosi intrighi ed esili di cui fu responsabile durante il suo lungo incarico a capo del KGB, viene visto da molti commentatori come un riformatore; essi citano il fatto che promosse Mikhail Gorbacëv lungo tutta la gerarchia del partito e che fu abbastanza tollerante per essere un capo del KGB. Egli fu certamente considerato in generale più incline a riforme graduali di quanto non fu Gorbacëv; il cuore delle ipotesi ruota attorno al fatto se Andropov sarebbe o meno riuscito a riformare l’URSS in un modo tale da non provocarne l’eventuale distruzione.

La successione al potere di Breznev, Andropov e Chernenko, vecchi, cadenti e malati, portò a coniare il termine “gerontocrazia” per indicare la classe dirigente sovietica.