El cario que te tengo
No te lo puedo negar
Se me sale la babita
Yo no lo puedo evitar

Cuando Juanica y Chan Chan
En el mar cernan arena
Como sacuda el jibe
A Chan Chan le daba pena

Limpia el camino de paja
Que yo me quiero sentar
En aqul tronco que veo
Y as no puedo llegar

 

“Chan Chan”

Compay Segundo

Buena Vista Social Club

 

1. Tristi tropici

 

 

 

Erano sbarcati a Colòn, dopo un viaggio più disagevole per gli insetti che per le condizioni del mare, in perfetto orario: al porto già li aspettava una Ford nera. L’autista, sollecito, li riconobbe al primo sguardo (il che non era difficile, poiché costituivano una coppia non appariscente, ma estremamente particolare) e mandò ad avvicinarli Manuel, mentre Spike guardava con una chiara espressione di disgusto la banchina di quel porto sperduto in mezzo all’America: durante la navigazione più di una volta aveva pensato che il gioco non valesse la candela e che, nonostante ciò che si diceva sul Tedesco e sulla sua MeilenHaus, avrebbe fatto molto meglio a non imbarcarsi per Panama.

L’autista, stretto nella livrea, sbuffava di caldo nonostante fosse notte, ed ora che non guidava era tutto impegnato nell’ammazzare zanzare. Manuel si avvicinò celere alla coppia indicatagli, domandandosi perché lui, che non sapeva l’inglese, doveva accertarsi se quei due fossero i gringos che attendeva il Señor.

“Señor y Señora Nagel?”

I documenti con cui si erano imbarcati a Miami, e che li rappresentavano come una coppia di giovani tedeschi in viaggio di nozze, erano intestati al signor e alla signora Nagel: se Spike avesse conosciuto un po’ di tedesco avrebbe saputo che quella parola significava “chiodo” e si sarebbe fatto così un chiaro esempio del pessimo umorismo di Simras Collman, che tanta importanza avrebbe avuto nella sua vita nelle prossime settimane.

Spike tirò un’occhiata a quel basso nativo con la testa mezza coperta da un cappello e con indosso una lunga camicia di tela a righe: era un ragazzetto, non arrivava ai quindici anni, ma lo scorbuto (o il vaiolo o la febbre gialla o, più probabilmente, la povertà) ne aveva plasmato il volto come fosse un uomo di trenta.

Solo allora Drusilla si riscosse e smise di fissare un punto nell’orizzonte, mormorando qualcosa: da quando lui aveva deciso di andare a Panama dal Tedesco per fargli un ancora vago favore, ottenendone in cambio un soggiorno gratuito nella sua MeilenHaus e molti dollari, era stata più inquieta del solito.

Negli ultimi giorni, poi, Dru ripeteva un’estenuante variazione sul tema “anche le stelle chiuderanno gli occhi dalla paura, lo sanno già, me lo stanno dicendo”. Solo quando la loro nave si era trovata all’altezza di Mérida, scalo successivo a L’Avana, Spike si era deciso a prendere del tutto sul serio i suoi vaneggiamenti chiedendole se le stelle le avessero detto che sarebbe capitato loro qualcosa di spiacevole.

Lei destò appena la testa dal cuscino canapè in cui era sprofondata e lo guardò dolce e innamorata. “Oh, no. Noi staremo bene. Tu soprattutto. Ma anche io.” Detto questo gli aveva sorriso complice, quasi già sapesse qual era metà della ricompensa promessagli dal Tedesco. “È ancora presto. È ancora presto perché arriva la Regina che ti ruberà. Ed è ancora presto perché la loro aquila voli con quella croce.”

Magnifico, adesso ci mancavano anche gli uccelli e le croci: chissà cosa voleva il Tedesco da lui, magari bersi il Vescovo.

Il messaggio recapitatogli era stato abbastanza reticente, testimoniava solo egli avrebbe avuto piacere nell’incontrare William (detto Spike) il Sanguinario al fine di proporgli una breve collaborazione, considerate le ottime storie che venivano narrate su di lui, tutte suffragate da attendibili e circostanziate testimonianze.

Quando Spike lesse queste poche righe, vergate in caratteri gotici su una morbida carta perlacea, con la semplice ma esplicativissima (per chi era “del giro”) intestazione “MeilenHaus, Panama” per poco non ebbe un mancamento. Come faceva il Tedesco ad averlo trovato lì dove si trovava? Quali mai erano queste attendibili prove su cui aveva basato l’incredibile richiesta di averlo come collaboratore?

E soprattutto, cosa mai poteva volere da lui il più potente vampiro tra il Texas e il Rio delle Amazzoni?

 

 

Il Tedesco (il cui nome completo pareva fosse Karl Ludwig Franz, che lui aveva spagnolizzato in Don Carlos Luis Francisco) era in realtà uno svizzero nativo di Meilen, ridente cittadina nei pressi del lago di Zurigo, ed era il tenutario di uno dei più grandi, completi, sofisticati ed attrezzati bordelli delle due Americhe: la leggenda voleva che in quella parte di mondo con la sua MeilenHaus (orrido nome che aveva dato alla sua casa di piacere, incrocio tra una fazenda, una fabbrica, una fortezza e un monastero) potessero stare alla pari solo altri tre bordelli: uno a New York, uno New Orleans e uno a Bahia.

Lì dentro c’era di tutto, uomini e donne, vampiri e vampire, bambini e bambine, fumerie d’oppio, sale con strumenti e marchingegni particolari, e tutto irreggimentato dalla più funzionale, produttiva ed ordinata mentalità germanica. Ma si dice che da vivo il Tedesco fosse stato un ingegnere o qualcosa di simile.

Era arrivato a Panama con i Francesi nel 1882 e subito aveva iniziato a dedicarsi alle tre attività che meglio gli riuscivano: gestire donne di malaffare, essere amico di tutti (francesi, colombiani, panamensi, statunitensi) e accumulare denaro.

Con i soldi guadagnati aumentava il numero di ragazze e comprava il silenzio e la complicità dei governi e degli uomini di potere che si susseguivano, il che gli faceva guadagnare altri soldi e così via, in una catena che si ripeteva incessantemente senza interrompersi. Per questi motivi dopo appena vent’anni di permanenza, quando gli Stati Uniti fomentarono nel 1903 la rivolta anti-colombiana che avrebbe permesso la nascita della repubblica di Panama, le sue proprietà furono tra le poche a non subire danni.

Intanto, con l’andare del tempo, aveva diversificato e aumentato sempre di più i piaceri che poteva offrire e oramai con buona verità si poteva dire che nella MeilenHaus era presente ogni genere di perversione e raffinatezza di cui l’uomo del XX secolo era a conoscenza: nel 1916, nonostante gli effetti della guerra si sentissero anche là ai Tropici, aveva costruito una sala per le proiezioni di particolari filmini che gli giungevano da Parigi.

La leggenda voleva addirittura che le sue ragazze dovessero passare rigidi e severi esami per poter lavorare da lui, mostrandosi perite in tutte le arti del piacere, capaci di ogni feticismo e disponibili a tutti i tipi di penetrazione e stimolazione.

Quello era il paradiso, sapeva Spike, per tutti coloro che ci lavoravano: il Tedesco pagava bene perché era dell’idea, come Henry Ford, che una manodopera soddisfatta renda di più, e se i vivi ricevevano abbondanti soldi in pregiata valuta i vampiri che lavoravano per lui godevano di sangue sempre fresco e molti raffinati piaceri.

Ma ogni lato positivo ne reca con sé uno negativo: per avere tutti al meglio il Tedesco sovrintendeva ad ogni aspetto della loro vita, dalle diete alla ginnastica, dai vestiti che dovevano svestire agli orari che facevano, impiegando una snervante pignoleria che a Spike avrebbe dato sui nervi al secondo giorno.

Eppure erano moltissimi i vampiri che da ogni dove venivano dal Tedesco, disposti a rinunciare a una parte consistente della propria libertà, in cambio di una sorta di reddito fisso, della possibilità di bersi comodamente, senza doverseli neppure andare a cercare, uomini e donne consenzienti, e di due giorni (anzi notti) liberi alla settimana con l’obbligo di non toccare gringos e preti e di uccidere tutti i demoni privi uno speciale lasciapassare che il Tedesco rilasciava.

 

 

Manuelito, dopo essersi tolto il cappello in segno d’omaggio e saluto, prese i bagagli dei due gringos e, tra cenni e il suo vago americano, fece capire loro di seguirli fino a quella macchina ferma vicino ad un lampione.

A vederli erano deliziosi: lei vestiva come una collegiale inglese. Abito di sangallo bianco che le arrivava ai polpacci e che le lasciava appena scoperte le spalle bianchissime che tradivano la sua origine anglosassone, mezze maniche che lasciavano il posto ai lunghi guanti di capretto bianco, i riccioli lucidi e neri raccolti vezzosamente sulla sommità del capo, un cappellino minuscolo e bianco, guarnito come un bigné, proprio sulla sommità della magnifica testa da dea, mentre lei si teneva tranquilla – malgrado fosse notte – il delizioso ombrellino in tinta sul capo, appoggiandosi al braccio di Spike, perfetto nel completo beige, con i capelli neri e lisci e ed un magnifico panama.

Spike aveva da poco deciso di adottare un look più deciso tingendo di nero i suoi capelli, originariamente di un biondo cenere piuttosto scuro. I capelli scuri sottolineavano il suo viso scolpito, i suo zigomi perfetti. Una coppia impossibile da non notare.

L’autista scese rapido dalla Ford nera e scattò sull’attenti all’arrivo dei due ospiti, aprendo con un gesto impeccabile e fluido la portiera della macchina: doveva essere anche quello tedesco, ad un primo sguardo, considerata la pelle chiara, gli occhi azzurri e i pochi capelli color paglia che spuntavano da sotto il berretto rigido.

Spike prima pensò che doveva avere la divisa inamidata, a veder quant’era rigida, poi che sicuramente stava morendo di caldo, così stretto in quella sorta d’armatura di panno e bottoni. Aiutò a salire Drusilla, che amava pazzamente l’ebbrezza della velocità in macchina, poi la seguì, mentre Manuelito stava legando gli ultimi bauli di Dru, riempito il portabagagli anteriore, sul portapacchi sopra il tettuccio della vettura.

Spike, notando le manovre del giovane indio sospirò: aveva avuto già una volta una lunga discussione con la sua colombella circa l’eccessivo numero di bagagli con cui lei amava girare per il mondo. Che bisogno c’era, si domandava ogni volta: passino i due bauli con le bambole, ma tutti quei vestiti così ingombranti! Se aveva bisogno di un vestito le bastava adocchiare uno di suo gusto indosso a qualche ragazza. Donne, sarebbe finito all’inferno prima di capirle!

“Ehi! Quanto ci vuole per arrivare?” disse con fare asciutto al ragazzetto che, coperto di sudore e maledicendo mentalmente quei due gringos, stava salendo davanti, affianco all’autista. Fu questi a girarsi e a rispondergli, facendo scorrere un vetro che divideva la parte anteriore da quella posteriore della vettura, dicendo in un più che accettabile inglese, seppur non ancora sgrezzato da certi suoni aspri tipici delle lingue del ceppo germanico, che c’erano circa ottanta chilometri di strada da percorrere, e che se non ci sarebbero stati problemi avrebbero impiegato un paio d’ore per arrivare alla MeilenHaus.

Spike non aveva per nulla notato che ai due lati del muso della macchina si stagliavano due bandierine, tagliate a coda di rondine e svettanti sulle rispettive aste, come una sorta di replica di quelle che ornavano le automobili delle autorità in tutti i paesi civilizzati del mondo.

Ogni vessillo era nella parte superiore bianco e in quella inferiore azzurro, poiché riprendevano i colori della bandiera del cantone di Zurigo, nonché colori per così dire ufficiali della MeilenHaus: il Tedesco infatti aveva a poco a poco connotato i suoi possedimenti, i suoi sottoposti e tutto ciò che era rapportato a lui con le caratteristiche di uno Stato nello Stato.

A seconda della funzione che si svolgeva all’interno della Haus erano prescritti vestiti di un certo tipo di colore o fantasia, cioè era pressoché istituzionalizzata una divisa, e così sulla macchina ufficiale del Tedesco sventolavano quelle bandierine, chiaro monito a tutti di lasciarlo passare e non infastidirlo.

In tal modo, vedendola arrivare, la gente si organizzava: chi offriva figli o figlie, chi chiedeva un aiuto per qualche faccenda privata, chi invocava di essere assunto anche solo per spazzare gli infiniti porticati della MeilenHaus.

Il Tedesco, che ancora si infastidiva un poco per la mancanza di dignità di quei popoli, difficilmente usciva con la macchina di rappresentanza, soprattutto quando doveva combinare alcuni “affari” che, per natura dei suoi abituali traffici, obbligavano alla più grande e religiosa discrezione.

Talvolta la mandava in giro per le strade di Panama e di Balboa, la capitale dello “Stato del canale” (cioè di quella fetta di terra che era un ufficiale possedimento degli Stati Uniti), vuota, con l’unica funzione di ricordare chi era il terzo a comandare da quelle parti, assieme al Governatore della Canal Zone e a Monsignore il Vescovo.

Cariche con cui cercava di mantenere il rapporto migliore possibile, in modo da non aver fastidiosi impicci ai suoi traffici: al secondo aveva più di una volta fatto giungere, tramite amici di amici, discrete somme per potenziare gli ospedali e le scuole cattoliche che tanto gli stavano a cuore e che i buoni prelati succedutisi avevano sempre impiegato.

L’altro non aveva che da guadagnare nel tenersi amico e attivo quel vampiro, che a sua volta teneva sotto controllo l’intera popolazione demoniaca residente e transitante nella Canal Zone e aree limitrofe, preservando la vita ai suoi concittadini che lì vivevano e lavoravano.

E infine, grazie a un gioco di equilibri così sapiente da sembrare impossibile, il Tedesco era riuscito ad essere “persona grata” anche ai vari Presidenti della Repubblica a partire dal primo eletto, il 20 novembre 1904, Manuel A. Guerrero.

Era dal 1856 che a Panama, allora distretto della Colombia, in seguito a ogni tumulto, insurrezione e simili avvenimenti sbarcavano i marines e arrivavano le navi da guerra per riportare l’ordine pubblico: fu in un’occasione simile, nel 1903, che venne proclamata l’indipendenza di Panama dalla Colombia.

Ma adesso, con i gringos proprietari della Canal Zone, la situazione era mutata: se il Tedesco, oramai un’autorità nella zona dello Stretto, per qualche motivo fosse andato in polvere, sicuramente tutti i suoi vampiri avrebbero sciamato per le strade e le case di Panama e di Balboa e ci sarebbero stati così gravi tumulti e sanguinose insurrezioni, bagni di sangue e distruzioni che avrebbero autorizzato gli Stati Uniti al passo successivo: far di Panama l’ulteriore stella della loro bandiera.

Per questo, dal giorno dell’Indipendenza, ogni singolo Presidente della Repubblica era stato dell’idea che l’eventuale morte di quel vampiro avrebbe significato la fine della libertà e quindi, per quanto potesse sembrare blasfemo, tutti auguravano e pregavano per una sua lunga, soddisfacente e sicura non-vita.

Un vampiro che fa regali a Sua Eccellenza il Vescovo, sovrano di un regno di piaceri e denari, protetto dallo stesso stato in cui vive e che occultamente gestisce e che riceve gratifiche di vario genere dal governo di uno degli stati più potenti e progrediti al mondo: ce n’era abbastanza per creare intorno al Tedesco una leggenda aurea dalle dimensioni spropositate.

Alcuni sostenevano che facesse tre bagni al giorno: uno nell’acqua, uno in una vasca piena di monete e uno in una vasca piena di sangue, che bellamente sprecava solo per le sue abluzioni poiché ogni giorno il Presidente della Repubblica gliene faceva pervenire venticinque litri. Altri sostenevano che tutte le ragazze dello stato, non appena fossero entrate nella pubertà, venivano deflorate da lui, e così i ragazzi.

Spike non ci credeva: alcune erano grasse indie di bruttezza ripugnante. Quanto ai ragazzi … possibile.

Altri giuravano e spergiuravano che il governo svizzero gli mandasse ogni mese un notevole assegno perché non tornasse in patria, e che lo stesso facesse il governo statunitense perché rimanesse a Panama ad assicurare il quieto transito di tutte le navi del mondo.

Sulle sue più grandi tre passioni, il potere, il denaro ed il sesso (in quest’ordine), per tacere del sangue, noblesse oblige, si raccontavano storie e miti che i vampiri facevano andare da un capo all’altro del globo, fino a mostrarlo come unico signore e padrone di una sorta di Eldorado demoniaco, dove sangue fresco sgorgava dalla fontana della sua abitazione e c’erano sempre almeno tre donne pronte a soddisfare ogni visitatore.

E Spike era stato invitato lì.

Per vedere, con i suoi occhi curiosi e ribelli, se tutto ciò corrispondeva al vero.

Spike non credeva al perfetto paradiso del perfetto vampiro.

Eppure, i vampiri più antichi, i più potenti (come Dracula, quell’idiota, o il Maestro, quel ributtante vegetale costretto alle profondità della terra), vagheggiavano di Utopie dove il sangue scorreva a fiumi e i vampiri erano la razza padrona.

Spike era un ribelle nato, e non credeva alle Utopie. Non credeva ai sogni.

Credeva ai denti, alle zanne ed ai pugni, al sangue che sgorgava quando proprio te lo andavi a cercare, urlando ed imprecando e sudando in risse nei bar e assalti nei vicoli. Una pinta al giorno, e via, sopravvivere fino al prossimo assassinio, al prossimo delizioso scoppio di violenza gratuito. Questo sì che era vivere!

Per cui, era già in preda al più perfetto cinismo: avrebbe sicuramente visto le crepe in quel germanico, educato, seppure un po’ sinistro impero del male. Anzi, peggio … in quel germanico impero dell’efficienza, del crudo rapporto tra costi, sangue e benefici. Avrebbe visto le crepe, e avrebbe riso, prima di tornare alla sua perfetta libertà.

Quanto a Dru, si sarebbe nutrita, avrebbe avuto qualche orgasmo e si sarebbe procurata qualche bel vestito, con qualche bella ragazza dentro. Che si poteva volere di più dalla non – vita?

Le indicò le meraviglie sdrucite di quel paesaggio astratto, eppure così concreto, dove una massiccia cattedrale barocca con annesso seminario e chiese per quanti erano i giorni dell’anno, o giù di lì, non riuscivano del tutto a smentire quell’aria da Des Moines dei Caraibi, ovvero da città tipo americana.

“Quasi non respiro, Spike” protestò debolmente Dru. “C’è odore di vita stantia

“Presto avrai tutta la morte che vorrai” replicò lui, distratto dal caldo e dal viaggio. Spike era sempre estremamente facile alle distrazioni.

 

 

La MeilenHaus si trovava nei pressi della zona che poi sarebbe stata nota come Veranillo, defilata dal centro di Panama, distante dal via vai di soldati, trafficanti, marinai, Esercito della Salvezza ed avventurieri, ma facilmente e velocemente raggiungibile da tutti coloro che volessero usufruire dei molteplici servizi che il Tedesco offriva nella sua MeilenHaus. Dal 1918 poi, era stata aperta anche una linea del metrò a cavalli che faceva capolinea non molto distante e che era in funzione ventiquattr’ore al giorno.

Dopo tanti anni di duro lavoro oramai l’originario postribolo a due piani, sopra le camere e sotto vari i locali d’uso, era poco meno che un ricordo, nonostante nell’ufficio in cui il potente vampiro personalmente presiedeva alla scelta del nuovo personale ci fosse una sua foto in bianco e nero davanti all’originario piccolo edificio imbiancato a calce e col tetto di foglie di palma in cui aveva iniziato a creare le basi della sua fortuna e della sua potenza.

Piano piano, comprando un lotto alla volta, o ricevendoli in dono dai proprietari creoli della zona che in tal modo si acquistavano, per loro e i loro possedimenti, l’immunità da “visite”, l’originaria costruzione era stata soppianta da un esteso, magnificente e diversificato complesso di edifici che si estendeva tra le case delle molte famiglie che lavoravano per il Tedesco, mostrando sulla strada una fronte omogenea ed estremamente sobria, ligia a quella discrezione che il Tedesco cercava in tutti i modi di mantenere.

Sfiorati i sobborghi di Panama la Ford imboccò una via decentemente asfaltata e costeggiata di lampioni fino alla chiesa di San Michele Arcangelo, centro di quel villaggio che, col passare degli anni, sarebbe divenuto prima un sobborgo e alla fine si sarebbe fuso senza soluzioni di continuità con la capitale.

Qui, in una piazza circondata da case bianche alte due o tre piani, uguale a quelle di cento altri paesi spersi nelle terre che furono del Re di Spagna, dal Texas all’Argentina, partiva una strada non molto larga, dritta e costeggiata da fossi, che dopo poco si faceva largo tra le infinite piantagioni di canna da zucchero, proprietà dalla Creazione di alteri nobili e gentiluomini spagnoli che continuavano a parlare tra loro in puro castigliano e a rispettare, nelle noiose e doverose visite che si scambiavano, la severa etichetta che i loro avi imparavano per andare a Città del Mexico quand’era sede di Sua Eccellenza il Viceré.

In queste piantagioni continuavano a lavorare tutto il giorno indios, meticci e negri con le stesse attrezzature e con gli stessi diritti dei tempi dei Viceré, convinti com’erano i proprietari (sia che fossero creoli o puri anglosassoni scesi con i marines) che non conveniva a nessuno spendere un solo centesimo nel rendere la vita di quella gente migliore: più sarebbero stati prostrati meno avrebbero avuto voglia e forza di ripetere, costante nella storia panamense fin dal XVII secolo, rivolte ed insurrezioni.

Con questo panorama circostante, l’oscura macchia della foresta vergine in lontananza e circondata dalle canne che non superavano il metro d’altezza, la mole della MeilenHaus era naturalmente amplificata e resa, per così dire solenne.

Nonostante la fila di casette in legno e lamiera a due piani lungo il ciglio della strada, che annunziavano di nuovo la presenza umana, l’enorme edificio spiccava ugualmente alla vista con la sua immagine solida e massiccia, forse più adatta ad un carcere che ad un bordello.

Uno spesso muro, bianco di calce, alto una decina di metri girava tutto intorno alla proprietà e di notte, sulla sommità, capitava di vedere piccoli lumi che si muovevano: non lucciole, ma le braci delle sigarette della “Guardia Civile” (così aveva battezzato il Tedesco il proprio personale esercito), truci e bassi indios con machete appeso alla cintura e bandoliere di proiettili che s’incrociavano sul petto e sulla schiena, ed un piccolo orso rampante disegnato sulla manica destra. Avevano il compito, per tutta la notte e il giorno, di percorrere il camminamento che si snodava per tutta la lunghezza del muro di cinta, osservando, vigilando, scrutando e, se il caso, sparando.

Questo bianco muro, il giorno accecante quando vi batteva il sole, era sulla strada privo di aperture, se non in una sola zona, quella dell’ingresso. Sopra un ampio ingresso ad arco si estendevano due lunghe file di finestrine quadrate, che illuminavano le stanze in cui vivevano gli uomini della “Guardia Civile” con le rispettive famiglie, anch’esse impiegate nella MeilenHaus in mansioni che variavano, a seconda dell’età e del sesso dei componenti.

La prima regola era che nessuna ragazza (o ragazzo) che si prostituiva doveva avere un parente che già lavorava lì: il Tedesco era dell’idea che una simile situazione sarebbe stata alla lunga foriera di problemi e discussioni, se non peggio, e lui per prima cosa voleva che tutto funzionasse alla perfezione; “come un orologio svizzero” diceva la sua compagna, la vampira francese Rénee (ma si sussurrava forse circassa, ovverosia proveniente da una remota zona dell’ex impero russo, come testimoniavano i suoi larghi zigomi e i suoi grandi occhi neri), prendendolo un poco in giro.

La Ford imboccò l’apertura ad arco e sbucò in un grande cortile, scandito su tutti e quattro i lati da archi semicircolari, sotto cui in certi punti posteggiavano le poche macchine degli importanti visitatori, in altri erano legati i cavalli dei clienti di minor conto, un po’ ovunque erano tirate amache per il riposo degli inservienti, che si godevano il fresco dei portici, cosa che il Tedesco riteneva un odioso vizio inestinguibile di quel popolo.

Sulla sinistra dell’ingresso, sotto i portici, erano disposti un po’ di tavoli, poiché su quel lato del cortile c’era la taverna del Guercio, dove i clienti di minor importanza prima o dopo la visita alle donne, ai ragazzi od ai vampiri e demoni si rinfrescavano bevendo rum messicano o mint juleep, o anche caffè e, i più esotici, mate, e magari giocavano a truco, domino e carte, raccontandosi meraviglie delle proprie prestazioni e suggerendo a chi doveva ancora entrare quale ragazza fosse meglio.

Sul lato opposto, sotto la lunga teoria di archi, c’erano solo due ingressi: quello più verso la strada dava accesso alla zona dove si trovavano i magazzini degli alimenti, ripostigli con letti, mobili e vari oggetti di necessità alle camere, il porcile e il grandissimo pollaio, perché il Tedesco teneva che i suoi fottitori fossero ben nutriti a uova fresche, il tutto distribuito in una varia confusione di cui conosceva l’esatta disposizione solo Ana Francisca Linero.

Questa vecchia mulatta governava con mano ferrea tutta la servitù della MailenHaus che aveva diretti rapporti con i prostituti (d’ambedue i sessi) vivi: i cuochi che preparavano i pranzi e le cene, le zitelle butterate dal vaiolo che pulivano le camere e gli ambienti comuni, le donne che rifacevano i letti e quelle che lavavano le lenzuola con la lisciva.

Se c’era bisogno di un pacco di saponette o della carta igienica, se una ragazza doveva smacchiarsi una federa o le si era rotta una tenda, se un quadro era caduto e serviva un nuovo chiodo; per qualsiasi cosa, insomma, veniva mandato qualcuno a chiedere ad Ana Francisca, che prendeva nota di tutto e poi si addentrava con il postulante per quella babilonia di corridoi, stipi, magazzini, stanze cieche, ripiani e ceste distribuite nel modo più irrazionale possibile.

Il Tedesco teoricamente disapprovava, ma pragmaticamente non aveva nulla da ridire, visto che in quella confusione babelica la meticcia trovava tutto, segnava ogni richiesta con una precisione al centesimo, cosicché in tanti anni i rendiconti mensili erano sempre stati impeccabili, e non spariva nulla, malattia endemica nei magazzini tanto ampi.

L’altra porta su quel lato del cortile conduceva ai piaceri più segreti della MeilenHaus, il suo core – business, come si sarebbe detto in altri tempi.

La fumeria d’oppio, innanzitutto. Non ce n’erano di migliori ad occidente del canale, ed era dire qualcosa, visto che nelle maggiori capitali europee ce n’erano da tempo di ottime.

E poi, il bordello.

Diviso scientificamente in reparti: quello femminile, quello maschile, quello dei fanciulli. Poi, c’erano le camere private ed elitarie dove vivevano prostituti d’ambo i sessi d’alto bordo, merce pregiata che nulla aveva a che vedere con la mercanzia a poco prezzo che abitava il corpo principale dei bordelli. Ed infine, nel piano sotterraneo, le cripte dotate di tutte le comodità abitate dai vampiri e dalle loro compagne.

Dru osservava tutto ciò, gli occhi grandi, spalancati, come cogliendovi una segreta magia. Spike, dal canto suo, era già annoiato. Voleva andare al dunque con il padrone di quel posto privo di fantasia, scoprire subito il perché ed il percome.

La loro servitù privata li accolse in un appartamento di dimensioni inusitata: Spike si accorse scocciato che si trattava di vampiri. Il Tedesco temeva forse che non sapessero tenere a posto le mani? Beh, faceva bene … conoscendo Dru.

“Il bagno, signori.” si inchinò un vampiro vecchio di una quarantina d’anni, ma che ne mostrava settanta, un antico maggiordomo. Dru, battendo le manine, si lasciò spogliare dalla serva vampira subito accorsa e si lasciò immergere nell’ampia vasca in argento brunito dall’acqua bollente, che avrebbe ustionato un umano, piena di sali profumati e preziosi provenienti da Parigi. Spike, invece, si guardò intorno irrequieto.

“Poche ciance. Voglio parlare subito con il vostro padrone.”

Il maggiordomo vampiro non esitò, malgrado Spike leggesse sul suo brutto volto l’irritazione. Evidentemente, gli era stato detto di ubbidire a tutti gli ordini dei signori Nagel. E, ne era sicuro, di riferirli.

“Da questa parte, signore.”

Spike lo seguì, l’andatura sciolta, arrogante. E quindi penetrò con il suo accompagnatore nel regno privato del padrone di quel luogo decadente eppure così dannatamente efficiente.

 

 

 



Note e curiosità 

 

 

Il titolo di questo capitolo è tratto dall’omonimo libro di Claude Lévi-Strauss, in cui l’autore ha raccolto i racconti delle sue spedizioni presso le popolazioni indigene dell’Amazzonia Meridionale e del Mato Grosso e ha affrontato molti aspetti relativi al Brasile, a S. Paolo, e alle culture etniche a suo avviso in via di sparizione.       

L’idea del Canale di Panama fu nel 1879 caldeggiata dal Congresso Internazionale di Parigi ed ebbe tra i suoi promotori Ferdinando de Lesseps, già costruttore del Canale di Suez. Nel 1881 costui fondò una società per raccogliere fondi e iniziò i lavori secondo un progetto molto complesso che non prevedeva l’impiego di chiuse; il suo tentativo fallì per gli ostacoli di natura tecnica e finanziaria (la società fallì a sua volta nel 1889), un secondo tentativo iniziato nel 1902 si concluse con un altro fallimento nel 1902. Poi gli Stati Uniti “aiutarono” l’indipendenza panamense e presero in mano il progetto.

Negli ultimi due secoli le ingerenze degli Stati Uniti a Panama sono state notevoli. Di positivo gli Stati Uniti hanno contribuito, e non poco, al miglioramento delle condizioni economiche e sanitarie, rendendo quantomeno vivibile questo paese, che gli spagnoli chiamavano “sepoltura de vivos”: nel 1905 a Panama il tasso di mortalità era del 65,8% e a farla da padrone erano le malattie tropicali (malaria, febbre gialla, colera); tanto che per portare a termine la costruzione del canale gli Stati Uniti dovettero prima impegnarsi a fondo nel migliorare questo stato di cose, grazie al medico militare William Gorgas, il quale riuscì a sterminare interi vivai di larve di ofelie e delle stegomie, portatrici di malaria e febbre gialla, che in passato avevano ucciso circa 300 operai al giorno durante i lavori guidati dall’ingegner Lesseps.

Nel Settembre del 1856 si verificò il primo sbarco di marines a Panama per ristabilire l’ordine pubblico, in applicazione del trattato Mallarino - Bidlack (1846). Pochi anni più tardi nel 1860 gli Stati Uniti intervennero nuovamente per reprimere una delle tante rivolte anti-colombiane promossa dal generale Tomas Mosquera, reo di aver colpito con i suoi propositi rivoluzionari anche i più alti interessi nordamericani.

Da un lato, senza l’appoggio di Washington forse i panamensi non avrebbero mai ottenuto l’ambita indipendenza, e quella del 1903 sarebbe stata solamente l’ennesima delle tante rivolte anti-colombiane, verificatesi durante il secolo scorso; dall’altro lato, l’indipendenza ottenuta fu pagata a caro prezzo dal popolo panamense, che dovette cedere la striscia di territorio lungo il quale verrà in seguito costruito il canale in base al trattato Hay - Bunau Varilla del 1903 (chiamato dai panamensi il “trattato della vergogna”) vedendosi piombare in casa “in grande stile” quel colosso che sono gli Stati Uniti.

Nel 1921 gli Stati Uniti decisero di invadere la regione di Coto, contesa tra Costa Rica e Panama, per proteggere gli interessi della United Fruit (il colosso Del Monte) e inviarono una nave da guerra di fronte alle coste “chiricane” per intimidire Panama e costringerla a rinunciare ad ogni pretesa. Questo stato di conflittualità permanente fra i due paesi a volte rimase latente e soffocato, altre volte invece sfociò in aperte manifestazioni antiamericane, come quella del 1964, quando un gruppo di studenti panamensi tentò di issare la propria bandiera nella Canal Zone, tentativo stroncato poi nel sangue dagli stessi militari nordamericani.

Questi interventi, con un numero di morti sempre imprecisato, e di volta in volta giustificati in base a qualche trattato o per la “necessita di difendere i cittadini americani”, hanno caratterizzato nel bene e nel male tutta la vita della piccola repubblica centroamericana a partire dall’appoggio fornito ai “ribelli” panamensi nel 1903 fino ad arrivare all’ultimo intervento, l’operazione “giusta causa” del dicembre 1989 (con l’obiettivo di destituire Noriega), che ha causato 7000 vittime.

Tutti questi episodi hanno finito per far prevalere all’interno della tranquilla popolazione panamense le tendenze “nazionaliste” o la “oleada di soberania”, come fu definito quel sentimento molto diffuso tra la popolazione panamense tra gli anni ‘60 e ‘70, che poi porterà agli accordi Carter - Torrjos e al graduale abbandono da parte degli Stati Uniti della Zona del Canale, basi militari comprese.

“La taverna del Guercio” è ripresa dalla ben nota telenovela messicana “Corazon Salvaje” (Cuore Selvaggio), ed in particolare dalla terza edizione televisiva della stessa.

Il mint julep è un noto cocktail a base di bourbon, brandy, menta fresca e zucchero; il mate invece si ricava dalle foglie dello Yerba Mate, dalle quali si estrae il particolare infuso. Le proprietà terapeutiche di questa bevanda sono molteplici: aiuta i processi digestivi, stimola il sistema immunitario, depura il sangue da scorie e tossine, è un ottimo coadiuvante nel trattamento delle allergie, è in grado di aumentare la resistenza fisica, riequilibra l’organismo, blocca l’ossidazione del colesterolo, rallenta lo sviluppo dell’iperglicemia ed inoltre contiene 196 componenti attive tra cui vitamine, minerali, proteine, carboidrati, acidi grassi. Fornendo tutte le sostanze nutritive necessarie all’organismo il Mate è indicato anche nelle diete dimagranti poiché riduce il senso di fame.

Esistono importanti differenze regionali nel bere il mate. Si beve “amargo” (senza zucchero), oppure “dulce” con zucchero e “yuyos” (erbe aromatiche). Un invito a bere il mate è segno di benvenuto e non andrebbe rifiutato, anche se il mate ha un gusto a cui bisogna abituarsi e gli stranieri che lo bevono per la prima volta all’inizio lo possono trovare amaro e molto forte. Al terzo o quarto giro questa impressione diminuirà.

Ana Francisca Linero è un personaggio secondario di “L’autunno del patriarca” di Gabriel Garcia Marquez.