MARGOTJ  PRESENTA…

 

Spoiler per: Non so. Sto scrivendo ma non è ben chiaro in che punto della serie. Diciamo allusioni varie.

Rating: boh, mah, chi lo sa                           

Timeline: post 3x13 Doctor Who e post 2x07 Torchwood. Poi si vedrà.

Disclaimer: i personaggi non appartengono ai legittimi proprietari. L’autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.

Nota dell’autrice: Non voglio più parlare della mia ossessione. Ora nego. Adesso scrivo. Ah, dimenticavo… ho quasi deciso di comprarmi un Tardis fermacarte. Sarà grave?

 

INTRO

 

Torchwood non era un posto da mezze misure. Una buona giornata significava che eri vivo, una cattiva giornata significava documentazione e un loculo da riempire. E, in questa suddivisione, come aveva avuto modo di far notare Ianto, le buone giornate erano più delle cattive, proporzionalmente al numero dei giocatori e ai giorni dell’anno.

Tra i due estremi, dunque, il Torchwood aveva creato nuove definizioni: giornate assurde , uniche, terrificanti, noiose.

“Paradossali no?” - chiese dunque Gwen, quella mattina, durante la canonica partita a pallacanestro.

“Tutte paradossali.” - replicò Owen, portandole via la palla e andando a canestro - “Hai avuto una giornata senza paradossi da quando sei qui?”

“Nessuno usi quella parola davanti a me.” - commentò Jack, attraversando il campo da gioco e sparendo in ufficio, l’espressione concentrata sui propri polsini.

“Brutta nottata?” - domandò Owen, cedendo il passo a Ianto.

“Io ho dormito benissimo. Grazie dell’interessamento.” - fu la risposta, serafica. Ianto seguiva la scia di Jack ma, sul percorso, abbandonava tazze di caffè nelle mani dei giocatori - “Tosh, mi servirebbero i dati della frattura…”

“E li troverai una lettura interessante.” - commentò la ragazza. Aveva partecipato alla partita a pallacanestro quanto bastava da rischiare di distruggere un tavolo, ritornando a sentirsi la nerd occhialuta che era stata, quella che in palestra valeva meno della palla da inseguire - “Le particelle sembrano aver ballato il charleston, stanotte…”

“Davvero?” - in un attimo furono tutti attorno a lei, gli occhi fissi sul monitor. Forse sono ancora nerd, pensò Tosh, guardando la palla rotolare sotto al divano, ma a loro non importa.

Non mi dimenticano mai.

“Si, guardate qui.” - allungò una mano, indicando rapidamente alcuni dati.

 

Dall’ufficio alle loro spalle si sentivano rumori e imprecazioni di varia natura.

“Esiste un modo per evitarlo tutta la giornata?” - domandò Gwen, senza voltarsi, quando a un tonfo seguì un chiarissimo rumore di ceramica infranta.

“La morte.” - replicò Owen - “Oppure l’ibernazione.”

“O la possessione.” - azzardò Tosh, voltandosi verso Owen, cercando di essere altrettanto divertente.

“Solo se trovi il modo di non farti strappare le braccia da Jack.” - ribattè il medico, senza degnarla di un sorriso - “L’hai visto l’ultimo posseduto che ha spedito sul mio tavolo?”

“Quello cos’è?” - domandò Gwen, interrompendoli e indicando un segno. Era un picco stranamente morbido in una catena montuosa di punte affilate.

“Non lo so.” - Tosh digitò sulla tastiera, cercando altri dati. E numerose schermate si aprirono, sopra quella di sorveglianza - “E’ come se qualcosa stesse succhiando l’energia della spaccatura.”

“Quando? Quando, Tosh!”

“Io non... impossibile.” - Tosh digitò ancora, dati che entravano e uscivano dalla loro visuale - “Non più di… non più di dieci minuti fa.”

Qualcosa cadde di nuovo nell’ufficio di Jack. Ma le sue imprecazioni non furono udibili, coperte dall’allarme del cancello che si apriva.

Si voltarono all’unisono, mentre l’ingresso del bunker terminava la sua corsa spalancandosi del tutto.

 

Owen fu pronto ad afferrare una pistola. Ma Gwen e Ianto erano già in posizione, le braccia tese, le automatiche spianate.

“Salve!” - disse il buffo tizio, varcando la porta - “Torchwood, immagino. Jack è in casa?”

 

(SIGLA)

 

PROMISES

( Crossover Doctor Who/Torchwood)

 

 

Di Nuovo a Carmilla, per due motivi.

Primo: Margot, deliziata di tanta devozione, si spreme per averne altra.

Secondo: la frase storica “Margot, ho capito che il futuro è nel crossover”. E io mi inchino a cotanta saggezza!

 

Gwen, più avanti rispetto agli altri, ne rimase ipnotizzata.

Il loro ospite abusivo era alto, secco come un palo. Piedi enormi, come il sorriso.

Sorriso rettangolare, come solo la penna di Shultz aveva saputo disegnarlo sulla faccia imbarazzata di Charlie Brown.

“Vicino a quest’uomo.” - pensò, impugnando saldamente la pistola - “Sarei grassa.”

Lo sconosciuto non sembrò turbato da tutte le armi che gli venivano puntate contro. Inforcò gli occhiali e alzò il suo bel naso diritto, studiando il volo dello pterodattilo.

“Affascinante…”

Avanzò, serafico, i piedi lievemente in fuori, fino a posare due dita sulla canna e obbligare Gwen ad abbassare l’arma.

“Tranquilla, non mordo.” - le mise una mano sotto il naso e allargò le dita nel saluto vulcaniano - “Lunga vita e prosperità. C’è Jack?”

“In…” - Toshiko lo fissava, rapita. Come Gwen - “In ufficio.”

“Grazie.” - Il cappotto che aveva addosso frusciò, pesante. E le mani sparirono nelle tasche dei pantaloni - “Molto gentile.”

“Un momento.” - Owen gli sbarrò il passo. Il tizio non lo vide nemmeno. Ma Ianto fu indubbiamente più incisivo.

“Ha un appuntamento…” - disse, posandogli significativamente la pistola sull’ombelico - “…signore?”

Il ‘signore’ lo fissò bene. E Ianto non trovò motivo in quell’esame, per cambiare espressione. Anche se il tizio, con quegli occhi, gli stava probabilmente frugando anche i lobi temporali.

“Si.” - annuì infine lo sconosciuto. Che oltre che sconosciuto iniziava ad essere irritante - “Tu devi essere Lui. E no, non mi serve un appuntamento. Jack!”

Si sporse, ondeggiando appena sulle chilometriche gambe.

“Jack.” - urlò di nuovo, sopra la spalla di Ianto - “La tua squadra vuole mettermi il guinzaglio. Ti muovi o la getto in un buco nero?”

 

Le pistole scattarono di nuovo, accerchiandolo.

“Frase impropria, immagino.” - commentò, con aplomb.

Dapprima si sentì rumore di passi.

Poi il capitano Harkness emerse, quasi correndo, da uno dei meandri della base.

“Mi piace quando corre.” - commentò il Dottore, allegramente, guardando Ianto - “E a te?”

 

Un attimo dopo, Jack gli fu addosso in un abbraccio di potenza.

E Owen, con rimpianto, rinfonderò l’arma.

“Che ti dicevo...” - mormorò Gwen - “Esistono le giornate paradossali.”

 

***

 

“Dovevo capirlo.” - Jack battè il pugno sulla mano aperta - “Dovevo capirlo dal ronzio.”

“Ronzio?”

“Sentivo un ronzio. E non riuscivo a concentrarmi.” - spiegò, spicciativamente, omettendo la mole di oggetti distrutti a causa di quel ronzio. Poi li indicò, uno ad uno - “Loro sono Gwen Cooper, Ianto Jones, Owen Harper e Toshiko Sato. Sono la mia squadra.”

 

E lo dici con un orgoglio che ti fa onore, considerò il Dottore, seguendo le presentazioni.

 

“Lui è il Dottore.” - Jack si voltò, gettandogli un’occhiata obliqua. Dottore e poi? È un alieno? È l’ultimo Signore del Tempo? È un eroe? - “Un amico di vecchia data.”

“Dottore e poi?”

“Solo Dottore.” - rispose, distrattamente. Quell’Owen era come la carta vetrata. Ma la ragazza alle sue spalle, giapponese, era carina - “Si parlava delle frattura, quando sono entrato…”

 

Come lo sapeva? Tosh lo fissò, interrogativa. Ma era gentile e non esisteva motivo per non rispondergli, a meno che Jack…

 

No, Jack non diceva nulla.

 

“Stavamo notando un’anomalia.” - rispose, tornando alla propria postazione. Il Dottore l’aveva seguita e ora leggeva, in piedi, alle sue spalle, le sopracciglia contratte - “E’ di quasi venti minuti fa, si tratta di un assorbimento di energia, di solito la frattura ne assorbe e ne disperde di continuo, ma questa sembra come... incanalata.”

“E così.” - il Dottore aveva di nuovo gli occhiali sul naso. Ma Tosh sembrò intuire come questo potesse essere un vezzo più di una necessità - “Ma non c’è da preoccuparsi. Sono stato io.”

“Come?”

“Dovevo fare rifornimento.”

Non solo erano spiegazioni brevi. Ma non avevano nemmeno un senso.

Per nessuno tranne che per Jack.

“Per quanto?” - domandò, a braccia conserte, fissando lo schermo.

“Due, quattro…” - rispose, vago - “Magari sei ore. È stata poco attiva nelle ultime settimane. L’ultima volta, mi sono bastati dieci minuti.”

“Beh, si, l’ultima volta…” - Jack annuì, con aria modesta, massaggiandosi il collo. Poi si riscosse - “Sei ore? Bene, allora abbiamo tempo.”

Si era voltato e se ne era andato, sparendo in ufficio.

“Tempo? Tempo per cosa!” - Gwen si voltò, seguendolo. E dovette fermarsi, mentre Jack riappariva, mettendosi di cappotto. Senza degnarla di un’occhiata.

“Andiamo?” - domandò soltanto, alzando gli occhi sopra la sua testa e finendo di sistemarsi il colletto.

 

Il Dottore sorrise. E ritirò gli occhiali, prima di ficcare nuovamente le mani in tasca.

 

“Mi porta a pranzo fuori.” - aveva comunicato, smagliante, seguendo Jack con un mezzo giro su se stesso - “Il capitano Harkness è un uomo vecchia maniera…”

 

E non era rimasto che guardarli mentre, con l’ascensore, sparivano verso la superficie.

 

***

 

“Ti sei sistemato bene.” - commentò il Dottore, scendendo dal marciapiede. Era una bella giornata, assolata. E il Tardis, in lontananza, si notava appena - “Non lontano dalla baia, in buona compagnia… molto buona compagnia…”

“Si, vero.” - Jack verificò di avere tutto sotto controllo, fissando la propria polsiera. Poi si voltò, dedicandogli più attenzione - “Stai insinuando qualcosa?”

“Come sei sospettoso…” - replicò l’altro, continuando a fissare in lontananza. E cominciando a camminare, zigzagando, perfettamente sopra la frattura - “Gli anni passano, Jack, non vorrai diventare un vecchio bisbetico….”

“Ma senti chi parla.”

“Scusami?”

“No, niente. Allora, da che parte?”

“Di là.” - Jack indicò un punto. E  il Dottore, come suo solito, gli passò sui piedi, precedendolo. Jack alzò gli occhi al cielo, rassegnandosi a due passi di corsa per affiancarlo.

“Corri sempre, Jack?”

“Mi dona.”

“Innegabile.”

“Grazie. Dona anche a te.”

“Jack, non flirtare con me. Ho attraversato un trilione di anni e ho fame. Ne parliamo dopo il dessert.”

“Ti stavo solo facendo un complimento!”

Il Dottore non lo degnò di risposta. Jack salutava, Jack si complimentava… Jack non sapeva stare zitto mai. Ed era disposto a tutto per sfoggiare una rastrelliera di denti perfetti a chiunque, umano e non.

“Allora, che ci fai da queste parti?”

“Rifornimento.”

“Rifornimento e poi?”

“Jack, il fatto che tu sia qui.. e che io sia qui… può anche non significare niente. A parte che… si, penso che prenderò un piatto di salmone.” - annuì, con la consapevolezza di chi ha appena salvato le sorti dell’universo - “Potremmo andare in quel localino… hai presente?”

“Si, immagino a quale tu ti stia riferendo.”

“Bene. Ci andiamo?”

“No. Affondato.”

“Come sarebbe a dire…” - si era fermato, per fissarlo - “Affondato?”

“Bhe, sai…” - Jack sembrava in visibile imbarazzo - “Doveva essere un appuntamento ma avevamo in corso un problema con dei Weavill e…”

“Jack!” - lo interruppe, deciso - “Tu mi hai affondato il ristorante?”

“E’ stato un incidente.” - Jack si posò una mano sul cuore, tutto serio - “Sono mortificato.”

Il Dottore lo fissò senza parole.

“Torchwood.” - borbottò soltanto, riprendendo a camminare - “Quanto non vi tollero…”

 

***

 

“Dove potrebbe averlo conosciuto?” - domandò Gwen girando per l’ennesima volta la tazza tra le mani - “Passato o futuro?”

“Trattandosi di Jack…” - Tosh lasciò la frase in sospeso, guardando di nuovo il monitor centrale.

“Trattandosi di Jack dovremmo cominciare a chiederci quanto sia pericoloso.”

Non c’era dubbio che Owen fosse già dell’opinione. Il Dottore, chiunque fosse, avrebbe portato guai. E di proporzioni, come aveva avuto modo di dire Gwen, paradossali.

“Bhe…” - Ianto era come sempre in posa, dietro Tosh - “Martha non mi sembrava pericolosa…”

“Oh, certo. Quella volta sono solo morto.”

“Ma non ti ha ucciso lei. Anzi.”

“E’ lo stesso.”

Fine della questione. Per due motivi. Owen non intendeva proseguirla. E il cancello si stava di nuovo aprendo.

“Potevamo andare anche noi a pranzo con loro.” - commentò Gwen, saltando giù dallo sgabello - “Ed è un bene che siano tornati, la fessura ha appena sputato fuori qualcosa e…”

Non terminò la frase. Ianto le passò a fianco correndo. Owen era già afferrato al cancello per aprirlo, a forza, se avesse ancora tardato ancora a ruotare su se stesso.

“Toshiko.” - lo sentì urlare, mentre Ianto lo aiutava a violare la loro stessa base, dopo aver colpito un interruttore con un pugno - “Tosh, muoviti!”

Il cancello si spalancò, con scatto sinistro. E i due, che si reggevano a stento in piedi, piombarono tra le braccia del medico.

“Martha.” - disse soltanto Jack, con labbra ustionate, lasciando che Ianto afferrasse il Dottore - “Cercate Martha Jones.”

 

Il Dottore voltò la testa, mentre piombavano entrambi a terra. E gli occhi azzurri di Jack furono l’ultima cosa che vide. Poi venne il buio. Ed era rosso, come il sangue.

 

***

 

Tosh cambiò un’altra volta canale e un altro notiziario invase la stanza. La baia era ancora un rogo mal domato dalla protezione civile. Fiamme alte e misteriosamente verdi si erano sviluppate in maniera improvvisa in un punto mal identificato.

Ma, quando le telecamere inquadrarono di nuovo dall’alto il disastro, Tosh segnò un altro punto sulla mappa. Una nuova x, poco discosta dalla prima, sulla stessa linea. La linea della fessura

Ianto le passò ancora una volta alle spalle, sparendo in uno dei depositi. E riapparve, poco dopo, con materiale medico in mano. Era in maniche di camicia, impregnato del fumo e della fuliggine di cui erano stati coperti Jack e il Dottore. Più fuliggine che ustioni, aveva constatato Owen per il sollievo generale, cercando di soccorrerli. Ma c’era ugualmente sangue, sui vestiti di tutti loro. E non era poco.

Meno di venti minuti dopo il loro mirabolante ingresso, era apparsa Martha, senza nemmeno farsi annunciare. Aveva lanciato il cappotto sul divano ed era piombata nel reame di Owen per litigare sulla propria parte di ferite.

 

Tosh cambiò di nuovo notiziario e finì di allineare i satelliti. Le immagini in tempo reale del disastro invasero ogni schermo disponibile. Ed ella segnò un nuovo punto sulla mappa, digitalizzando i propri appunti.

Le cartine si sovrapposero assieme al modello virtuale basato sulle equazioni. E le x divennero focolai rossi e pulsanti in una simulazioni dai toni sconcertanti e preoccupanti.

 

Qualunque cosa li avesse attaccati, non era venuta dal cielo. Ma dalla profondità della spaccatura sotto i loro piedi.

 

***

 

“Non capisco. Batte a malapena ma gli elettrodi dicono che è forte.” - commentò Owen, ritraendosi e lasciandole spazio.

“Poco importa.” - replicò Martha, dandogli una spinta decisa e prendendo il suo posto per verificare con lo stetoscopio - “Starà usando quello di scorta.”

“Il cuore di scorta?”

“Sono di grado paritario.” - borbottò il Dottore, con voce roca, senza premurarsi di aprire nemmeno un occhio - “Dateci un pugno sopra e fatelo ripartire.”

“Accontentato.”

Prima che Owen potesse bloccarla, Martha gli rifilò un gancio nello sterno. Il Dottore emise un mugolio e Martha lo tenne fermo, allungandosi a spegnere le spie che si erano accese. E gli elettrodi, sotto il suo sguardo allibito, sembrarono impazzire e si stabilizzarono.

“Respira e fai con calma.” - ordinò la ragazza, professionale. Ma l’uomo non le rispose, sprofondando nuovamente in un sonno spesso e confuso - “Avanti, respira.”

“E’ una parola.” - Commentò Owen, guardandola di traverso. Forse Martha non era malvagia, forse non lo era nemmeno il Dottore, ma il vederli assieme gli provocava un senso di pericolo non ignorabile. Da quando era arrivata, non aveva fatto altro che correre attorno alle due brande, senza prendersi la briga di renderlo partecipe delle considerazioni personali o sul perché Jack l’avesse chiamata nella sua ultima frase coerente.

E, in una situazione che ricordava molto una scena cinematografica di pronto soccorso, aveva prelevato sangue ad entrambi, facendo partire ogni macchinario e sottoponendo i campioni ad ogni tipo di analisi.

“Cosa stai cercando?” - aveva ringhiato Owen, cercando di tamponare squarci e suturare pressochè con la stessa mano.

“Non sono stata chiamata per il rattoppo.” - Aveva risposto lei, per niente turbata - “Per quello tu sei migliore di me. Io sono qui per cercare ciò che non si vede.”

Cosa, si domandò Owen ancora una volta, inserendo una nuova flebo e lasciandola completamente aperta. Qualcosa che i medicinali avrebbero modificato?

O qualcosa che, se fossero morti, sarebbe svanito per sempre?

Sospirò ancora, gettando un’occhiata prima ad uno, poi all’altro.

E Martha, passandosi lo stetoscopio attorno al collo, abbandonò il Dottore.

“Fatto. Stabile.” - disse, sbrigativamente, posando un’altra fiala sul vassoio - “E ora, occupiamoci di Jack.”

 

***

 

Gwen si sentiva un animale in gabbia. Estromessa dalla zona ospedale, dimenticata da Tosh e superflua all’attività di Ianto.

Aveva reagito in ritardo, limitandosi a chiamare Martha, guardando con occhi sbarrati le ferite, i vestiti bruciacchiati, l’assenza di reazione. Vivi, pesti, assolutamente inutili per ottenere informazioni.

L’avevano dovuto sapere dai notiziari. E, dopo, mentre Tosh fissava lo schermo, Gwen aveva chiamato Rhys, sentito la sua voce, la sua preoccupazione, la normalità delle sue lamentele. E, poco a poco, era riuscita a scacciare la visione di Jack che cadeva a terra, prima che qualcuno potesse soccorrerlo.

“Gwen.” - Ianto le apparve alle spalle, sfiorandole il gomito. E Gwen sussultò, fissandolo, colpevole.

“Scusami. Non so dove ho la testa.” - mormorò, lo sguardo sperso nella confusione della base.

“Non importa.” - Ianto non aggiunse nulla. Non era trasandato nemmeno ora, con le maniche arrotolate, il collo della camicia slacciato, senza cravatta - “Hanno stabilizzato il Dottore. Si stanno occupando di Jack, ora…”

“Come sta. Come sta, Ianto.”

Ianto non le rispose. E gli occhi fuggirono, dal viso di Gwen all’ambiente circostante.

“E’ meglio che mi occupi di questa confusione.” - mormorò, posandosi le mani sui fianchi. E allontanandosi, un attimo dopo.

 

Gwen si tormentò le mani ancora una volta, prima di decidere di aiutarlo nella sua opera.

Raccolse, ripulì, radunò in maniera automatica, imponendo tranquillità alla propria mente e ai propri gesti. E, infine, decise di affrontare i vestiti di Jack e del Dottore, ancora sparsi a terra.

Sospirò, piegandosi sui talloni. Raccolse i gemelli di Jack, togliendoli dalla camicia ormai a brandelli, ripensando fuggevolmente a come, meno di poche ore prima, Jack si fosse irritato nel cercare di metterli. Gettò in un mucchio camicie, pantaloni, giacche bruciacchiate, fino a giungere sul fondo della pila, ai due cappotti, uno aggrovigliato nell’altro.

“Jack non apprezzerà.” - sospirò, alzando l’indumento e fissando le macchie e i fori - “Non credo si possa aggiustare.”

“Ne procureremo un altro.” - rispose, con calma, Ianto, piegandosi al suo fianco - “Jack non è Jack, senza quel cappotto.”

“Già.” - forse il cappotto era da buttare, ma Gwen non osava gettarlo nel mucchio con gli altri vestiti. Lo abbassò, fissando il secondo giaccone, di una calda tonalità nocciola - “Quello del Dottore è in uno stato migliore.”

“Un problema di meno.” - Ianto fece forza con le mani sulle ginocchia, per alzarsi. Ma Gwen lo trattenne, decisa, afferrandogli il braccio.

“Aspetta.” - mormorò soltanto. Tutta la silenziosa indecisione con cui si era mossa sembrava essere svanita - “Ianto, guarda.”

 

Sotto i suoi occhi perplessi, Gwen distese i due cappotti a terra, uno a fianco dell’altro. Quello di Jack, in pessime condizioni. E quello del Dottore, al suo fianco, sembrò bruciacchiato e macchiato solo in parte, in una strana simmetria. Bruciature solo su un lato. Sangue, sull’altro.

“Non vedi niente?” - insistette Gwen, voltandosi verso di lui - “Ianto, guarda bene.”

 

Nulla, non vedeva nulla. Nulla, se non troppo sangue ormai scuro. E odore di fumo, intossicante, irritante come il ricordo di quei vestiti pieni di sofferenza.

Avrebbe soltanto voluto voltarsi e scendere a vedere le condizioni dei feriti. Ma Gwen, con gesto deciso, per aiutarlo, sovrappose i capi, dando al disegno una coerente e agghiacciante interpretazione.

Le bruciature si stendevano lungo il cappotto di Jack, sulla schiena, le spalle, lungo un braccio. E si allungavano, in un perfetto incastro sui vestiti del Dottore. Uno sull’altro, lievemente sfalsati.

“E il sangue…” - aggiunse Gwen mentre Ianto dilatava le pupille, intuendo - “E’ pressochè tutto di Jack.”

Si voltò, tornando a fissare i due indumenti, a terra, privi dei corpi che li avevano indossati.

“Jack proteggeva il Dottore.” - aggiunse, sottovoce - “E noi non sappiamo da cosa.”

 

***

 

Il capitano Jack Harkness era un patetico caso clinico. Costole fratturate, ustioni sulle mani e sul torace, una lunga ferita lungo il fianco che aveva dato parecchio filo da torcere ad Owen.

“Non c’è una radiografia che mi piaccia.” - commentò, inserendone un’altra con schiocco netto sul pannello luminoso - “Le analisi?”

“Assurde.” - rispose Martha, dalla scrivani a cui stava lavorando - “Ma non mi sorprende.”

“E invece dovrebbe.” - disse una voce, alle loro spalle - “Lui ha sangue normalissimo. Non è di certo un alieno.”

Martha scattò in piedi, affacciandosi sulla conca piastrellata. Dove di solito Owen teneva un tavolo adatto ad un obitorio con annesso occupante, erano stati disposti due lettini metallici. E, su uno dei due, concentrato nel coordinamento dei propri arti, era seduto il Dottore.

“Non ti muovere da lì.” - ordinò la ragazza, puntando un dito nella sua direzione e scendendo precipitosamente le scale - “Sei a rischio infarto.”

“Ma per piacere!” - replicò l’altro, afferrandosi al primo sostegno disponibile e alzandosi in piedi - “Mi sorprendo di te, Martha Jones, non ti ho mai sentito dire un’idiozia del genere!”

Barcollò. E Martha si insinuò rapida sotto al suo braccio, come se non avesse fatto altro, per tutta la sua vita.

“E ne abbiamo viste di cose idiote, assieme.” - aggiunse il Dottore, guardandola, mentre la squadra del Torchwood convergeva su di loro. Ma Martha non si accorse di nessuno, perché il Dottore le parlava e la guardava. Ed il resto, idiota o no, non doveva quindi esistere.

La prima impressione di magrezza, pensò Gwen, afferrandosi alla ringhiera e fissandolo, era ampiamente confermata dal vederlo seminudo. Secco, ben delineato, alto e stranamente giovane, più di quanto si potesse intuire dagli atteggiamenti e dall’espressione. In apparenza poco più vecchio di Owen, forse poco più che trentenne. Ma, e gli occhi di Gwen corsero istintivamente all’altro corpo ancora immobile, tutto si poteva nascondere dietro la giovinezza. Forse persino la vecchiaia senza fine.

“Io concordo con lei.” - commentò Owen, prendendo in mano la situazione e obbligando il Dottore a sedersi nuovamente sul letto. Gli afferrò il polso e gli gettò la sua tipica occhiata obliqua, per saggiarne le reazioni - “E’ un piacere vederla in salute, Dottore.”

“E’ un piacere anche per me sapermi in salute.” - rispose l’uomo, senza intralciarlo e  senza intralciare Martha, impegnata nel tastargli il torace e le fasciature. Storse la bocca, quando il dolore lo invase come una fiammata. Ma non smise di fissare il letto alle loro spalle, senza parlare.

“Non è un bello spettacolo.” - mormorò, infine, quando si allontanarono, quel tanto che bastava da permettergli di respirare.

“No.” - Owen scosse la testa, sentendo l’ostilità di nuovo forte, dominandosi a vicenda - “Non lo è.”

Il Dottore era di nuovo in piedi, con un’espressione che li invitava tutti a non intralciare.

“Martha, il mio cacciavite.” - ordinò, allungando una mano verso il vassoio dove troneggiavano alcuni oggetti personali. La polsiera di Jack, un paio di occhiali, un anello. E il cacciavite sonico, inoffensivo solo in apparenza.

Quel cacciavite che per il Dottore era un oggetto indispensabile e assoluto.

Inutile contraddirlo. Martha lo sapeva, come sapeva come fosse inutile provare a ostacolarlo.

Si poteva aiutarlo… o almeno illudersi di riuscire ad aiutarlo. E, con questa triste filosofia, Martha gli pose in mano il richiesto e compì un passo indietro, per lasciargli libero il campo.

 

***

 

“Gwen.” - Toshiko l’afferrò per un braccio, obbligandola a prestarle attenzione - “Ci siamo. Vieni con me.”

“Guarda.” - disse, poco dopo, indicando due schermi. Tutti trasmettevano immagini dal satellite, oppure diagrammi complessi - “Ho isolato la sequenza dal picco anomalo di stamattina, quello del Dottore. E ho analizzato tutta la sequenza della spaccatura, sincronizzandola con le immagini dal satellite. E li ho trovati.”

“Trovati?”

“Osserva.”

L’immagine si scompose in miriadi di pixel, distorcendosi, ingrandendosi. Poi, in una confusione che Gwen identificò come onda energetica, intravide alcuni punti più scuri, in movimento. Poi Tosh ingrandì ancora l’immagine, seguitando a parlare. I due punti si muovevano veloci, fluidi. Ma la miriade di segni neri che emergeva dalla frattura sembrò convergere verso di loro, dapprima come uno sciame, poi con maggior lentezza.

“E guarda ora.” - Toshiko digitò ancora e l’immagine sembrò distorcersi. I frammenti scuri volarono verso i due umani, accerchiandoli e poi radunandosi in macchie più grosse. Non si distinguevano particolari, esisteva solo un’assurda consapevolezza di assistere ad un fondersi della materia, da qualcosa di più piccolo a qualcosa di più grande.

“Componenti metallici.” - rispose Toshiko, dando a Gwen la consapevolezza di aver pensato ad alta voce - “Di natura prevalentemente sconosciuta. Sono passati a livello molecolare dalla frattura e qui hanno trovato modo di tornare a quello che credo sia lo stadio iniziale. Il loro vero aspetto.”

Istintivamente, Gwen sfiorò il monitor. I due umani, ora, sembravano esasperati nelle loro fattezze. Più longilinei, veloci, armoniosi nella corsa, nel combattimento rispetto ai loro avversari neri come cimici, quasi fluttuanti nel movimento, come se corressero su binari. Forse concentrandosi, pensò, sentendo gli occhi farle male, alla ricerca di ciò che non era visibile, vedrò come, quando Jack ha…

“E, a questo punto…” - l’immagine scomparve, riempiendosi di fiamme. L’esplosione della baia coprì ogni cosa, sotto i loro occhi. Toshiko voltò la testa, rifiutandosi di vedere ancora una volta quella scena. I due, nella tempesta, il nero che si disintegrava colorando le fiamme con i suoi componenti chimici.

Il senso di morte di una guerra invisibile ma comunque seguibile in televisione.

Non aveva bisogno di vedere, non più. Contò gli scatti del timer e, infine, fermò l’immagine.

“E qui.” - sospirò, tornando a fissare la massa informe di colori e fuoco - “Questi sono i superstiti.”

 

Qui… una macchia unica, in direzione del Torchwood… e qui...

 

Gwen si voltò, fissandola obbligandola ad ammetterlo, non solo a indicarlo.

“Sono sopravvissuti. I loro aggressori sono vivi.” - Tosh annuì, segnando due macchie sul basso dello schermo - “E non so dove siano.”

 

***

 

Il cacciavite emetteva un suono leggero, ma fastidioso. E, per quanto Martha avesse convinto Owen a lasciarlo fare, Ianto non intendeva perderlo di vista. E, per farlo al meglio, si era seduto sull’ultimo gradino, intrecciando le mani e fissando il Dottore e la sua opera.

Era un uomo strano, quel Dottore. Non era freddo, non era serio, non aveva una voce pacata e rassicurante ma sapeva farsi ascoltare. E sapeva colpire, senza far nulla.

Soprattutto ora, in piedi, a fianco di Jack, con gli occhi in perenne lentissimo movimento dietro la luce azzurra del piccolo oggetto di tecnologia aliena.

Nell’angolo, Owen e Martha discutevano, in maniera sostenuta. Ed era palese, considerò Ianto, che il nocciolo della questione fosse la fiducia da tributare a quel Dottore e alle sue affermazioni.

E, in quel mentre, la luce azzurra si spense e il ronzio cessò.

Un ronzio… un ronzio come quello di cui Jack si era lamentato tutta la notte, svegliandosi di continuo. Tamburi, aveva mormorato, nel sonno. Tamburi.

 

Ma, al risveglio, non ne aveva più parlato.

 

“Tamburi.” - mormorò Ianto. E il Dottore lo fissò, senza una vera espressione.

“Tu sai il suo segreto?” - chiese, soltanto, posando il cacciavite e movendo un passo indietro, fino a sedersi sul proprio lettino metallico.

Ianto lo scrutò, ponderando la risposta.

“Uno in particolare?” - chiese, infine, con lentezza.

“Quello che conta, ora, per avere speranza.” - rispose il Dottore, le mani abbandonate tra le ginocchia - “Sai a cosa mi riferisco…”

Ianto annuì, senza muoversi. E il Dottore sembrò soddisfatto.

“D’accordo.” - disse soltanto. poi voltò la testa - “Martha… Owen…”

“Allora?” - Owen non intendeva cedere di mezzo metro. Suo il capitano, sua la decisione - “Responso?”

Il Dottore lo fissò dritto in faccia. Poi, come se non lo potesse considerare più di tanto, tornò a fissare il profilo di Jack e la consapevolezza delle proprie parole.

 

Jack e quella sua iniziativa spettacolare innanzi al pericolo. Quello spregio per la morte che lo aveva sempre caratterizzato, prima ancora di divenire immortale.

Jack e le sue reazioni istintive, sempre con il sorriso sulle labbra.

Jack, mortificato dall’affondamento di un ristorante. E bugiardo fino al midollo.

 

“Sta morendo.” - mormorò, con lentezza - “E’ ora di lasciarlo andare.”

 

***

 

“Owen!” - Gwen si sporse sulla conca - “Sappiamo cosa…”

E le parole le morirono sulle labbra. La prospettiva, dall’alto, le sembrò ancora una volta straniante, come ogni volta in cui si era affacciata, per vedere, per decidere, per semplicemente scherzare.

Nella conca piastrellata, tra le due scale, il Dottore incombeva su Owen, pur restando seduto. Ianto, immobile, in piedi sull’ultimo gradino, stringeva i pugni, senza proferire verbo. E Martha, stranamente con le mani sulle labbra, era quasi defilata.

Una scena congelata, come rallentata, in cui aleggiavano ancora le parole udite di sfuggita.

Una scena in cui Jack steso sulla barella e con il volto girato verso il gruppo appariva inanimato, pallido e segnato dalle ferite, sul viso e sulle braccia. E non c’era punto, attorno, sui lenzuoli e sulle garze sparse ovunque, in cui il sangue non segnasse e macchiasse l’ambiente asettico.

 

Sta morendo. E’ ora di lasciarlo andare.

 

La reazione di Owen, non si era fatta attendere. Ma Gwen non aveva sentito le parole. L’espressione era stata abbastanza, come il frapporsi rapido di Martha tra lui e il Dottore.

Come Jack, Martha lo difendeva. E si leggeva negli occhi che lo avrebbe difeso sempre, forse persino a torto. Forse persino oltre la sopravvivenza di Jack.

 

“Owen.” - la voce di Ianto passò tra loro, come una folata di vento - “Owen, ragiona.”

 

“Ragionare?” - Owen non sembrava intenzionato a calmarsi. Se mai, ci fosse stata l’occasione, intendeva impegnarsi a trovare altri capri espiatori su cui sfogare la frustrazione - “Ragionare su cosa! Mi sto facendo in quattro per salvarlo e lui mi dice di arrendermi?”

“Jack non può morire.” - replicò Ianto, con calma. Fissò negli occhi il Dottore, come se non provasse nulla per lui - “Se tu lo uccidi, spezzerai la sua agonia. Sbaglio?”

“Riavviare il sistema. E lasciare che ripristini i danni.” - sussurrò Toshiko. E il Dottore alzò la testa verso di lei e verso l’altra donna, Gwen.

Tra le mani, la ragazza giapponese aveva delle immagini. Dati.

A fatica, si alzò, avvicinandosi e tendendo una mano.

“Permetti?” - domandò, appoggiandosi alla parete asettica. Tosh si piegò, fino a sedersi a terra, per fissarlo negli occhi e porgergli le carte. E perchè, in tutta coscienza, non era certa di poter sovrastare un uomo del genere.

“Per te non conta nulla.” - ringhiò Owen, quando lo vedi così incurante, distratto da ben altro - “Che viva, che muoia, che sia così conciato per colpa tua.”

“Owen.” - Gwen lo fissò, dilatando le pupille. Ma Owen era troppo fuori di sé per calmarsi.

“Oh, si, ho visto i vestiti, Gwen!” - ringhiò - “E lo so che Jack per un motivo che non mi è chiaro lo ha salvato. E lo vedi come questo Dottore lo sta ricambiando? Uccidetelo, leviamoci il pensiero e andiamo avanti.”

“Non sono qui per farmi giudicare. Se non lo ucciderai tu, lo farò io.” - replicò il Dottore, senza nemmeno voltarsi, sfogliando i documenti - “Toshiko, i miei complimenti, davvero. Queste deduzioni matematiche sono uniche.”

Le restituì  documenti, con un mezzo sorriso.

“Ne parleremo ancora.” - promise - “Devo solo terminare ciò che ho iniziato.”

Detto questo, si pose davanti a Owen, sovrastandolo e fissandolo dritto negli occhi.

“Sei libero di non credermi.” - commentò - “Puoi tenerlo in piedi sul baratro per giorni, cercare di salvarlo con accanimenti di ogni genere. Jack è forte, ti darà grandi soddisfazioni. Ma, alla fine, morirà comunque. Lascialo andare e lascia che rigeneri se stesso. Il Torchwood ha cose più importanti di cui occuparsi, al momento.”

Respirò a fondo, attendendo una reazione che non giunse.

“Toshiko potrà spiegartelo, se non credi a me. Ma la razza che è uscita dalla frattura è una delle peggiori sulla faccia della terra e va fermata. Va fermata o vi sterminerà tutti.”

 

“Sterminare…” - Ianto scandì la parola, senza pronunciarla. E vide Jack, alla scrivania, lo sguardo perso chissà dove, con il brandy innanzi gli occhi.

“Sterminare…” - sussurrava - “L’ultima parola da umano. Sterminare. E, un attimo dopo, ero morto. Non potevo più morire…. Solo che non lo sapevo.”

Aveva alzato il bicchiere, sorridendo.

“Alla vita, più forte della morte.” - aveva riso. E bevuto tutto d’un sorso, sprezzante - “Sterminare!”

Il Dottore alzò gli occhi verso di lui, come se potesse udirlo, udire i suoi stessi pensieri.

“Lui è una mia responsabilità.” - aggiunse, fissando Ianto come se potesse accettare e comprendere senza domande, come se lo credesse in grado di celare segreti ed essere un segreto stesso - “E l’ultima cosa che vuole fare è morire. Non lo farà. Non succederà. Ma, per favore, ponete fine alle sue sofferenze.”

 

“Lo farò io.”

 

***

 

Avevano alzato gli occhi verso di lei.

Tosh, addirittura, aveva compiuto un passo indietro, allontanandosi.

“Lo farò io.” - ripetè Gwen, inumidendosi le labbra - “Lui tornerà. Lo sappiamo tutti.”

“Stai giocando con lui, Gwen.” - ribattè Owen, brutale - “Giochi con la sua vita e non te ne importa.”

“Giochiamo tutti con le nostre vite.” - replicò Gwen, guardandolo - “Affrontiamo la morte ogni giorno e per un mondo in cui non esistiamo. Giochiamo di continuo con le nostre vite, Owen.”

Una volta in più non farà differenza.

“Lo abbiamo già ucciso.” - aggiunse, dopo un attimo - “Ora non farà nessuna differenza. Lo farò io.”

“No.”

 

E la prima a voltarsi fu Martha.

“Me ne occuperò io, Gwen.” - Ianto non si era mosso. E non era intervenuto con la propria opinione, come se l’avesse ritenuta superflua, fino ad ora - “Tu sei il comandante in seconda. Fai il resto.”

Era distaccato. Autoritario. Ma non intenzionato a prendere il comando, a essere sedotto dal posto vacante di Jack. Non gli spettava e non gli importava.

 

Eppure, quando parlava, lo ascoltavano tutti.

 

“Oh, si, certo!” - Owen era ad un passo dalla resa, ma continuava ugualmente a recriminare - “Smettetela con tutto questo senso del pathos! Accomodatevi, se è quello che volete, un colpo alla testa e via!”

“Quello è il tuo stile.” - replicò Ianto, senza sbavature - “Martha, esistono metodi meno brutali?”

“Tutti quelli che vuoi.” - rispose la ragazza, come un automa. La testa le girava, vorticosamente. E il rumore del battito di Jack, dalle macchine, sembrava rimbombarle nel cervello, sbagliato e malato - “Ho bisogno solo di qualche minuto.”

“Noi intanto andremo in perlustrazione alla baia. Le fiamme sono quasi domate. Ci servono campioni. Ci occorrono tracce.” - aggiunse Gwen, guardando Owen - “Saremo in contatto radio, teneteci informati. Owen, andiamo.”

Lo disse cercando di non calcare il tono del comando. Ma Owen lo sentì ugualmente. E i suoi occhi sembrarono incenerirla, nel levarsi su di lei. Incenerirla, ma senza disubbidirle.

Dopotutto, non c’era molto altro da aggiungere. Se solo avesse osato puntare i piedi, o avvicinarsi a Jack… Ianto gli avrebbe sparato. E senza rimorso.

Per tanto annuì, raggiungendola, afferrando la propria giacca e la fondina, sul passaggio.

Tutto questo non è paradossale, ringhiò, precedendola. È solo assurdo.

“Bene. È un piacere vedere il team scendere in campo.” - Concluse il Dottore, soddisfatto - “In tal caso…” 

Strinse maggiormente il lenzuolo verde che si teneva ai fianchi.

“Mi servono dei vestiti.” - aggiunse - “E un buon the.”

“Me ne occupo io.” - mormorò Ianto, come se niente fosse, risalendo le scale - “Martha, chiamami non appena sei pronta. Dottore, se vuole seguirmi…”

 

***

 

“Oh, si.” - sospirò il Dottore, finendo di sistemarsi la cravatta - “Meglio, decisamente.”

Si era dovuto rassegnare a non mettere la giacca, che lo avrebbe fatto sembrare un ragazzino con i vestiti fuori misura. Ma il panciotto, la camicia e gli accessori denotavano una certa classe. E non erano certo del capitano Harkness, per taglia e buongusto, anche se provenivano dal suo armadio.

“Meglio.” - si apprezzò ancora, innanzi allo specchio. E Martha si stagliò alle sue spalle, obbligandolo a voltarsi.

“Vorrei che tu badassi a te stesso.” - mormorò la ragazza, avvicinandosi e aiutandolo a chiudere un polsino. Un unico gesto, per poi prendergli anche le pulsazioni - “Non siete stati veloci, questa volta, a correre…”

“A quanto pare no.” - confermò il Dottore, lasciandola fare. Era perfettamente a conoscenza dei propri limiti fisici e delle ferite sul proprio corpo. Ma quel gesto umano avrebbe rassicurato Martha, senza togliergli nulla, né in tempo né in sicurezza personale - “Avevo fame e mi sono distratto.”

“Sono Dalek, vero? Sono ancora loro…” - domandò Martha, senza perdersi in chiacchiere. Fissandolo dritto negli occhi, con quegli occhi scuri e di velluto. Occhi che nemmeno Rose ha mai avuto, pensò il Dottore, quasi distrattamente.

 

Oh, Rose... tu salvi Jack e io,oggi, sono il mandante della sua morte. Meno male che non sei qui a osservarmi.

 

“L’unica nota positiva è che non sono molti.” - disse soltanto. Ma il suo tono risuonò stanco, perduto nel tempo. Forse non erano molti, non più di due, tre. Ma tornavano, tornavano sempre.

Tornavano intenzionati a restare. E i Signori del Tempo, non erano in grado di fare altrettanto. Non volevano.

Il Dottore era ancora solo, innanzi ai Dalek. Solo e sperduto nella consapevolezza di aver visto la propria stirpe spegnersi senza raggiungere l’obbiettivo finale. Solo, innanzi a un nemico ancora in grado di avanzare.

Per questo Jack ti ha protetto, oggi, pensò Martha, lasciandogli andare la mano perché potesse finire di vestirsi. Perché i Dalek sono tornati, senza l’aiuto di profezie. E tu sei ancora solo, con questo peso sulle spalle.

 

“Sono giunti molto vicino, oggi…” - aggiunse, guardandogli le spalle magre, perennemente diritte. Anche ora, sotto il peso assurdo della sorpresa - “E credo di essermi sbagliata. Non vi servivo come medico…”

“I Dalek si sono materializzati, Martha. Occorrono analisi del materiale, delle radiazioni... tu sai affrontarli, a differenza di tutti loro. Non accadrà di nuovo. Non accadrà più.” - si voltò, porgendole anche l’altra mano, lasciando che gli sistemasse il polsino. E poi, in un gesto più intimo, Martha gli sistemò il nodo della cravatta.

“Ti dona questo colore.” - scherzò, lisciando il panciotto lievemente troppo largo - “Ma scommetto che non è di Jack.”

“Andiamo!” - il Dottore aggrottò le sopracciglia, scandalizzato - “Jack magari dorme nel raso di seta ma non sa proprio vestirsi!”

“E’ vero.” - Martha annuì. E una lacrima le scese lungo la guancia, prima di poter essere frenata - “Tu sei certo che tornerà, vero? Perché, sai, io non sono favorevole all’eutanasia, soprattutto quando si tratta di amici.”

“Ianto se ne sta occupando?” - chiese, senza risponderle.

“Ora.”

“Tu sei favorevole alle cose giuste nel momento giusto.” - aggiunse il Dottore, fissandola - “E’ il tuo più grande dono. Non ti preoccupare per Jack.”

Si guardarono, per un attimo, in silenzio.

“Ma puoi fargli al respirazione bocca a bocca un’altra volta, se vuoi.” - aggiunse il Dottore, con gli occhi sarcasticamente brillanti - “A Jack non dispiacerà di sicuro.”

E Martha, con una sorriso, gli rifilò una spintarella tale da fargli perdere il già precario equilibrio.

“Avanti...” - sospirò, insinuandosi sotto al suo braccio - “…sono ancora il bastone della tua vecchiaia, dopotutto…”

 

***

 

Martha aveva lasciato la siringa sul vassoio. E non aveva avuto bisogno di solleciti per allontanarsi.

“Nella flebo.” - aveva detto, semplicemente - “Due minuti, al massimo.”

Ianto aveva annuito, ma la ragazza aveva proseguito, con imbarazzo, a rispondere a domande non formulate. Domande e scuse per se stessa.

“Avrei voluto qualcosa di più rapido ma… ma Jack è troppo forte, anche adesso. Il suo organismo combatte per la sopravvivenza e potrebbe davvero andare avanti per giorni. È come se... se fosse inceppato.”

“O in trappola.” - Ianto era immobile, le braccia conserte. E il sangue di Jack, ancora, sulla camicia. E nello sguardo - “Due minuti vanno bene, Martha.”

 

Vanno bene per essere consapevoli delle proprie azioni. Nessuno mai ha così tanto tempo per pentirsi.

“Se ti servisse… io sono di là.”

“Lo so.”

 

“Lo so.” - ripetè, ancora in piedi a lato della barella, gli occhi fissi sul suo occupante.

Lo so. So quello che devo fare.

“Sapere cosa fare.” - mormorò una voce alle sue spalle - “Non lo rende più semplice.”

Il Dottore appoggiò un piede al montante, intrecciando le dita oltre la balaustra.

“E non credere… so capire il tuo stato d’animo.” - aggiunse.

“Non ne dubito.” - commentò Ianto, senza voltarsi - “Ma anche questo non lo rende più facile.”

“Già.” - il Dottore annuì, riflettendo - “Del resto, Ianto, penso che tu sappia che attendere non cambierà nulla.”

Ianto non rispose. Ancora fermo, immobile, gli occhi fissi. E le proprie parole, di una vita lontana, nella mente.

“Un giorno avrò la possibilità di salvarti. E ti guarderò soffrire e morire.”

Si, anche quella volta si era versato sangue. Copioso, a fiumi, intossicato di amore e altre banalità.

Come oggi.

Il Dottore, probabilmente, se ne era andato. Ma era difficile quantificare il tempo trascorso dal librarsi delle loro ultime parole. E Ianto, infine, sciolse le braccia, intorpidite per il tanto stringere.

Protese le dita, la siringa nella  mano destra, la sinistra su Jack. Il viso, le labbra, il petto, con leggerezza. Caldo, intenso e fragile. Solo Jack.

 

Attendere non cambierà nulla.

E, con gesto rapido, iniettò il veleno. E lo fissò scorrere dentro la cannula.

Ti guarderò soffrire. E morire.

 

Addio. Addio capitano.

 

***

 

Toshiko era  dotata di quelle doti scientifiche che mandavano in visibilio il Dottore.

Parlava di numeri e frequenze con naturalezza. Forse difettava di entusiasmo, manteneva un atteggiamento fin troppo distaccato, ma era semplice autodifesa.

E, sull’autodifesa, il Dottore non aveva mai da ridire.

Dati, frasi essenziali, supposizioni di complessa esposizione, per comprendere da dove o come i Dalek avessero saputo penetrare lungo la frattura.

Cinque, confermò il Dottore alla ragazza, spiegando brevemente, di cui due probabilmente disintegrati nell’esplosione che avevano provocato, nel tentativo di ucciderli. E no, non era spiegabile come avessero saputo materializzarsi in quella maniera.

A riempire le lacune del resoconto, altri dati emersero dal computer per magia.

“Non capisco, non li avevo mai visti.” - ammise Tosh, all’apparire di fotografie, rilievi, dati in gran quantità - “Non li ho inseriti io.”

“Li ha inseriti qualcuno che li conosce bene e li studia da tempo.” - mormorò il Dottore, sorpreso a suo modo, seguendo le pagine che si aprivano a ventaglio sotto i suoi occhi. E non ho dubbi sulla sua identità - “Del resto, delle tante ossessioni che Jack può avere, questa è la più comprensibile.”

Tosh si voltò verso di lui, interrogativa. Ma il Dottore non sembrò notarla. In piedi, assorto, le mani in tasca, i capelli scompigliati come se tendesse a tirarseli sempre verso l’alto, ragionando.

Quello strano essere sembrava conoscere bene il capitano Harkness, il loro personale uomo del mistero. E, forse…

“Jack mi ha detto che, tanto tempo fa, qualcuno gli ha salvato la vita. E che, da allora, è come se fosse stato tenuto per qualcosa.” - Si fermò, inorridita dalle proprie parole. Come se non avesse potuto controllarle, come se il pensiero si fosse rivelato più veloce di qualsiasi censura.

Il Dottore la fissava, senza rispondere. E Tosh, sotto quello sguardo, si sentiva come risucchiata.

“Scusami, non intendevo…”

“Sono stato io.” - replicò l’essere, senza sfumatura nella voce. Un’ammissione, senza bisogno di altra verità d’accompagnamento - “Io l’ho salvato. Prima da se stesso, poi dalla morte.”

 

Ma non so veramente a cosa sia destinato. Eppure la sua grandezza è già percepibile ora.

 

“Ti ha parlato di me. In maniera indiretta, forse.” - aggiunse, tornando a fissare gli occhi sul bozzetto di un Dalek degli anni trenta - “Ma era a me che si riferiva, senza ombra di dubbio.”

“Con gratitudine. E rimpianto.” - un sussurro, più che una frase - “Come se avessi cambiato la sua vita.”

“Non stento a crederlo. Ma non ho fatto tutto da solo.” - replicò, stringendo gli occhi, seguendo un diagramma, mentre la voce di Martha diveniva udibile, in lontananza.

“Ho analizzato le particelle sui vostri vestiti.” - spiegò, piombando tra loro, interrompendoli - “E nel sangue. Tutto nella norma, non siete contaminati da niente di preoccupante.”

“E il sangue di Jack? Avevi detto che era diverso…”

“Diverso per motivazioni umane e sanitarie.” - spiegò Martha, porgendogli i risultati, perché valutasse egli stesso - “Si tratta di scorie dell’esplosione.. scorie che…”

“Che spariranno non appena morirà.” - concluse il Dottore, continuando a sfogliare le cifre - “Il materiale B756 deve essere quello delle corazze Dalek, eppure è come se…”

“Se fossero fusi con la carne che di solito contengono.” - concluse Martha - “Sono mutati, passando dalla frattura in forma scomposta. Non si sono materializzati in maniera corretta, sono diversi…”

“Le radiazioni li hanno danneggiati.” - concordò Toshiko, lasciando scorrere i files di Jack sullo schermo e affiancandoli ai propri sulla radioattività della frattura - “Questo spiega il colore delle fiamme e la tossicità rilevata da Owen.”

“E’ possibile che stiano seminando scorie del genere nel loro spostamento.” - disse Martha, seguendo la simulazione, ancora attiva su uno dei monitor - “E’ possibile monitorare…”

 

Si interruppe. E si voltò.

 

All’improvviso, fu nitido a tutti loro un suono penetrante, acuto, agghiacciante.

Il suono di un macchinario che segnala la morte.

Il suono di un cuore fermo. E di un cervello senza pensieri.

 

Jack.

E poi fu silenzio.

 

***

 

Dalek. Così si chiamavano i loro attuali nemici. E andavano trovati, ma non affrontati. Particolare su cui Martha si era dimostrata inflessibile,

“Io li ho già visti, ho già combattuto contro di loro. E li credevamo distrutti.” - aveva detto, via radio ad entrambi, affannandosi in laboratorio, come visibile dalla webcam - “Non conoscono pietà, sanno solo uccidere. Restate alla larga, non fatevi notare. C’è qualcosa di strano…”

“Strano in che senso.” Aveva urlato Owen, continuando a guidare.

“Strano nella loro composizione. Ti farò sapere quando ci saranno novità.”

“Martha…” - Gwen aveva esitato, prima di interrompere il collegamento - “E Jack?”

“Stazionario.”

 

Stazionario. Cioè vivo. Una ben magra consolazione.

 

“Chissà cosa aspetta Ianto.” - borbottò Owen, saltando già dal mezzo - “Ci teneva tanto ad essere lui la mano con la falce…”

“Ci teneva che non fosse uno di noi.” - lo corresse Gwen, caricandosi la tracolla in spalla. L’aria era satura di polvere e fumo acre. Sarebbe stato meglio armarsi di mascherine - “Noi siamo più adatti all’azione sul campo. Non voleva che...”

“Cosa? Che ci distraessimo?”

“No, non voleva che ci sentissimo in colpa.” - come l’ultima volta, avrebbe voluto aggiungere. Ma si trattenne. Quella volta, solo Ianto non si era realmente schierato contro Jack, puntandogli addosso un’arma o riversando il proprio odio - “Ha ragione quando dice che abbiamo altro di cui occuparci al momento.”

“Certo.” - Owen le sfilò la sacca dalla spalla, portandola al suo posto - “Peccato che questa frase l’abbia detta quel fottuto che si fa chiamare Dottore.”

 

***

 

Martha scese precipitosamente le scale, seguita da Tosh. E il Dottore tornò a posare le braccia alla ringhiera metallica, affacciandosi come un divinità inavvicinabile sopra le miserie degli uomini.

Ianto stava spegnendo i macchinari, uno ad uno. I suoni penetranti della sconfitta scomparivano, premendo semplici interruttori. La siringa era nuovamente sul vassoio, a fianco di altri strumenti, in perfetto ordine. E anche Jack era composto, come se Ianto fosse avvezzo alla morte e ad un rispetto intrinseco per essa nella sua più terribile manifestazione. Il corpo vuoto, privo di tutto ciò che si è amato.

Martha era china su Jack, la mano stretta allo stetoscopio, le labbra in movimento, come se non potesse, dopotutto, accettare il risultato delle proprie scelte. Ma Ianto non sembrò notarla, continuando a sfilare le flebo, arrotolare le cannule, allontanare supporti ormai inutili.

Quando fu certo di aver compiuto ogni gesto, si sedette, in attesa, lo sguardo fisso al profilo e alle labbra dischiuse.

“Non credo che serva dichiararne il decesso.” - commentò, piatto. E nemmeno compilare il certificato di morte, aggiunse, per se stesso, pensando a quello già compilato, non tanto tempo prima - “Tosh, stai tranquilla. Lo hai già visto accadere.”

Toshiko non rispose, forse troppo sorpresa per quelle parole. Ma Ianto era così. Lontano e freddo solo in apparenza, eppure aperto a percezioni oltremodo sottili.

Come avrebbe potuto, se non conoscendola, pronunciare una frase del genere senza nemmeno vederla in viso. Come avrebbe potuto, proprio ora, in un momento del genere, manifestare comprensione per lei. E rassicurarla, senza muovere un muscolo…

La voce di Owen gracchiava di nuovo dalla radio. Tosh sapeva di dovergli rispondere, di doverlo informare. Si concesse un respiro, per calmarsi, preparandosi ad allontanarsi.

E il Dottore le posò una mano sulla spalla, fuggevolmente, prima di discendere nella conca, il passo solenne, le mani nelle tasche.

Si fermò, a fianco di Jack, fissandolo.

 

Eccoci da capo.

I Dalek e la morte.

La morte e la rigenerazione.

 

Rigenerati, Jack.

“Rigenerati, ora.” - sussurrò, immobile. E Martha sussultò, alle sue spalle, le dita alle labbra.

 

Forse il Dottore era lì, con loro. Forse era razionalmente certo sul fatto che Jack sarebbe tornato. Forse non provava nemmeno paura, esitazione ma…

Ma i suoi occhi erano rivolti a una pira in fiamme nell’oscurità e la sua mente alla solitudine infinita di chi perde la propria famiglia.

Jack, una sua responsabilità. Come Yana. Come Rose. Come Martha.

Ad ognuno di loro aveva offerto una parte di se stesso, senza riserve. Aveva offerto emozione e protezione, una nuova vita con cui ricominciare, un mondo oltre le stelle e oltre le piccolezze.

Eppure, per quanto li amasse e li proteggesse, prima o poi, tutti lo lasciavano, per sempre.

E il Dottore restava solo, innanzi al buio, circondato dai propri fantasmi, senza protezioni.

Martha avanzò di un passo. E insinuò una mano nella sua, in tasca. Un pugno stretto, difficile da slegare, in cui le sue dita scivolarono a fatica, scaldando e stringendo, con forza.

“Andrà tutto bene.” - sussurrò. E posò la tempia alla sua spalla - “Andrà tutto bene, questa volta…”

 

***

 

 “Ci siamo.” - esclamò Gwen, obbligando Owen a raggiungerla - “Qui c’è qualcosa.”

I macchinari che reggeva tra le mani emisero un lieve scampanellio, segnalando dati fuori della norma. Alta concentrazione di sostanze chimiche, non dissimili da quelle che Martha stava rilevando nello stesso momento, al Torchwood.

“Fatto.” - rispose Owen, chiudendo il contatto radio - “E’ morto.”

Gwen dimenticò ciò che stava per dire e si girò, di scatto. Owen la sovrastava, in piedi, il macchinario pulsante stretto in una mano.

“Solo morto, per il momento.” - specificò, piatto. E Gwen, d’istinto, lo abbracciò, stretto, non ricambiata.

“Per il momento.” - ripetè, con quella speranza che la rendeva unica e inimitabile, Gwen così tenace nelle sue certezze da quando era apparsa per la prima volta all’ingresso della base.

 

Mi dispiace averti perduta, pensò Owen, senza osare sfiorarla. Mi dispiace non averti amato di più.

 

“Si, forse hai ragione.” - ammise, quasi a malincuore. E si sforzò, in una smorfia simile a un sorriso.

“Ne sono certa.” - sorrise, ricambiando, annuendo e lasciandolo andare - “Occupiamoci dei Dalek. Abbiamo una traccia. È ora di seguirla.”

“Certo.” - Owen annuì. Ma quando Gwen si allontanò, si concesse un respiro di mal sopportazione.

“Proprio una brutta giornata…” - sbuffò, seguendola - “Brutta brutta giornata…”

 

***

 

Una brutta giornata. Poteva divenire una brutta giornata. E, nello scorrere dei minuti, Ianto non sapeva nemmeno se concedersi quell’angosciante impressione.

Lottava con tutte le sue forze, respirando a malapena, seduto su quel lettino che sapeva di disinfettante e sangue. Lottava, fermo come una statua, fissando un punto indistinto sul labbro superiore di Jack. Un punto in cui la pelle curvava in maniera più dolce, ammorbidendo la linea decisa e l’espressione eccessivamente tenace.

Un bacio, sull’angolo della bocca, pensò, parafrasando Barrie. Un bacio che nessuno riesce ad afferrare.

 

E i minuti continuavano a scorrere, troppo silenziosi.

 

Martha non osava toccarlo, cercare un battito infinitesimale per non dover affrontare la disperazione di non sentirlo, per non lasciare che la speranza che Ianto aveva negli occhi si animasse per poi finire disillusa per una, due, decine di volte.

Eppure non voleva andarsene. Restava, immobile, seduta sul gradino, in attesa.

E il Dottore, allo stesso modo, attendeva, appoggiato contro la parete, lo sguardo fisso altrove.

Solo Tosh lavorava, assiduamente, al computer. Il ticchettio della tastiera e la sua voce, in contatto con Gwen, erano rassicuranti, coloravano lo scenario di una forma di controllo che Martha non era certa di condividere del tutto.

Il Torchwood era in azione. E così avrebbe voluto il suo capitano, alla resa di conti.

Il Dottore sospirò e guardò l’orologio, un’altra volta. Minuti. Forse ore.

“I danni erano molti.” - commentò, con calma - “L’organismo comincia a riparare i peggiori, poi il cuore si riattiva, proseguendo…”

“Non mi serve una spiegazione.” - lo interruppe Ianto, senza guardarlo - “Voglio solo che si svegli.”

Nessuna urgenza in quella frase. Solo un’esigenza naturale e senza riserve, assoluta nella sua semplicità.

Qualcosa di simile al desiderio di un contatto umano in grado di scaldare e far sentire meno soli.

 

Jack deve amarti molto. A modo suo, forse. Ma con una tenacia di cui non sei consapevole, sei hai così paura che possa lasciarti. Jack non lascia mai le persone che ama. E se le perde, se le sente sfuggire, le insegue attraverso i decenni, senza cedere mai.

Credimi. Io lo so per certo.

 

“Tornerà. Non può morire.” - concluse, posando anche la nuca al muro.

“Lo so.”

 

Lo so. Ma ho lo stesso paura.

 

***

 

“Non capisco.” - mormorò ancora Toshiko, ricevendo i dati da Gwen - “Non combaciano con quelli in archivio.”

“Eppure non ci sono dubbi.” - insistette Gwen davanti alla carcassa annerita - “E’ in pezzi, ma è certamente un Dalek. Corrisponde alla descrizione e ai disegni che ci hai mandato.”

“E’ la composizione, Gwen! Non si tratta solo delle deformazioni provocate dalla frattura, è il materiale ad essere diverso. Perfino i tessuti interni hanno un dna differente. Assomiglia, ma non è…” - si interruppe, ottenendo i risultati dell’ennesimo confronto - “.. e non può trattarsi dell’esplosione, credimi.”

“Lavoraci ancora, Tosh.” - la voce di Owen si intromise, incoraggiante - “Noi cerchiamo gli altri relitti.”

“Ricevuto.” - Tosh staccò la comunicazione , dopo una breve esitazione, raggiunse il gruppo.

Non appena si affacciò dall’arco, Martha la vide. E le andò incontro, salendo rapida le scale.

“Tu ne sai certamente più di me.” - disse Tosh, dopo averle brevemente spiegato la situazione e dato le analisi - “E’ una mutazione, come avevamo previsto, ma su una scala di valori troppo vasta.”

“Potrebbero essersi rimontati a caso.” - azzardò Martha sfogliandoli e afferrando i propri risultati dalla postazione - “Abbiamo preventivato anche questa soluzione, prima.”

“Non sono convinta, Martha. Io ho un’altra teoria a riguardo.”

“Allora esponimela.” - commentò il Dottore. Aveva la pessima abitudine di apparirle alle spalle, aprendo ogni loro conversazione in maniera disorientante - “Sono favorevole a ogni teoria.”

“Sono riproduzioni sintetiche.” - rispose Tosh, senza attendere oltre - “Cloni.”

 

E seppe con certezza di aver catturato la sua attenzione. E, soprattutto, di averlo lasciato senza parole.

 

***

 

“Stanno rientrando.” - disse Martha, poco dopo, premendo sul piccolo interruttore e ruotando lo sgabello per parlargli - “Ne hanno trovato uno. È in pessime condizioni, ma potremo analizzarlo comunque. O almeno tentare.”

“Certo.” - il Dottore annuì, massaggiandosi un punto del torace, senza smettere di fissare gli stampati. Li aveva schierati su un tavolo sgombro e li studiava, passando lo sguardo da uno all’altro ormai da tempo.

“Le costole ti danno fastidio?”

“Non tanto, no… ma questo valore è assurdo!” - esclamò, perdendo di nuovo il filo del discorso - “Non ho mai visto niente del genere in un Dalek!”

“Lo hai già detto.” - Sottolineò, stancamente, restando appoggiata con un braccio allo schienale e dondolando un piede - “E, infatti, siamo pressochè sicuri che Toshiko abbia ragione, no?”

“Certo, certo.” - posò un foglio, ne sollevò un altro - “Certo…”

 

Di nuovo persa la sua attenzione, constatò Martha. Poi scattò in piedi, afferrandolo al volo.

 

“Dottore!” - esclamò. E con tono abbastanza allarmato da far apparire Tosh da sotto l’arco. E con un paio di secondi di distanza, persino Ianto.

“Non è nulla.” - ansimò l’uomo, sedendosi a terra, la schiena contro il tavolo, alcune fotocopie in volo sopra la loro testa - “Nulla di importante.”

“Ma davvero!” - Martha non era in vena di eroismi, e nemmeno di discussioni. E gli stava già aprendo il panciotto - “E da quanto va avanti, questo nulla di importante?”

“Non lo consideravo, prima che divenisse… così… forte…”

“Interessante approccio al problema.” - commentò la ragazza - “Scopro da sola quale cuore stia collassando?”

“Non è quello che pensi.” - chiuse gli occhi, modulando la propria respirazione. E potè sentirlo realmente. Nitido, deciso anche se ancora molto debole, quasi lontano.

 

Era ora… ce ne hai messo di tempo...

 

“No?”

“No.” - scosse la testa, riaprendo gli occhi, guardandola. E sorrise, enigmatico - “Non è il cuore numero due in sciopero… è il cuore numero tre che batte.”

 

Martha lo fissò, senza capire. Ianto fu stranamente più pronto.

 

“I tamburi.” - disse soltanto, voltando loro le spalle e precipitandosi  verso l’infermeria.

“Quel ragazzo è una fonte cronica di verità e frasi storiche.” - sussultò il Dottore, cercando di districarsi dalle mani della ragazza - “Davvero, non mi sorprende che Jack lo apprezzi tanto.”

 

Martha non lo stava ascoltando. Rimuginava sulla questione del cuore numero tre, tenendolo saldamente fermo, nonostante le proteste. E iniziava, del resto, a sentire l’isteria avanzare.

Perché non capiva.

Perché era preoccupata.

Perché, come al solito, non riusciva a convincerlo a darsi una calmata.

E a farsi aiutare.

O, almeno, a spiegarsi senza indovinelli.

“Che cosa?” - esplose, infine, spalancando bene la bocca - “Ma di che diamine stai parlando!”

E il Dottore sorrise maggiormente, con gli occhi brillanti.

“Non è solo Jack che sente il ronzio per me..” - spiegò richiudendo i bottoni slacciati del gilet - “Stai visitando il paziente sbagliato, Martha… e stai perdendo tempo prezioso…”

“Io non…” - si interruppe. Comprese. Poi sentì il sollievo investirla, come un’onda - “Tu sei... insomma… Sei sicuro di…”

“Vai a verificare.” - tagliò corto il Dottore, puntando un piede per rialzarsi e indicandole Toshiko, ancora alle sue spalle - “E portati dietro Tosh... Owen vorrà dei testimoni attendibili quando gli dirai che avevo ragione.”

 

***

 

Owen e Gwen posarono ciò che restava del Dalek su uno dei tavoli del laboratorio, imprecando per l’ennesima esalazione fastidiosa che ne uscì, un misto di carne bruciata e circuiti fusi, nauseante.

E Gwen, per l’ennesima volta, accompagnò le parole al pulirsi le mani contro i jeans.

“Mai più senza guanti.” - si ripromise, invidiano profondamente la coppia in lattice di Owen - “Mai più, giuro.”

“Lo dici sempre. E mai che tu riesca a ricordarteli.” - la sbeffeggiò lui, togliendosi i suoi con uno schiocco - “Tosh? Martha?”

“Non chiami anche il Dottore?”

“E perché? Per quello che so di lui potrebbe essersene andato.”

“Spiacente.” - commentò l’interessato,  nella sua canonica apparizione indesiderata. Camminava perfettamente saldo sulle proprie gambe e decisamente allegro, facendo roteare uno stetoscopio - “Dottor Harper…”

“Dottore…” - salutò, nel miglior accezione dispregiativa - “Novità?”

“Nulla di che.” - alzò le spalle, incurante. E, con un gioco di polso, avvolse lo stetoscopio e glielo porse - “Ha un paziente da visitare… non lo faccia aspettare.”

Owen lo fissò, senza capire, l’aria vagamente stranita. Poi, con un sorriso di sollievo di cui si sarebbe vergognato per il resto della sua vita, strappò lo strumento dalle mani del Dottore e corse, inseguito da Gwen, fino alla propria infermeria.

 

Da Jack. Dal suo capitano redivivo.

 

“Non viziatelo troppo.” - urlò il Dottore, voltando la testa verso i due corridori - “Sa essere molto capriccioso se solo ha l’occasione…”

Non lo sentirono. O, se lo  udirono, non pensarono di rispondergli.

Ma cosa importava, dopotutto. Jack era vivo.

Malconcio, ancora privo di sensi, tappezzato di ferite in via di guarigione dentro e fuori. Ma nuovamente vivo. E, come aveva abilmente parafrasato Toshiko, con il sistema in fase di ripristino. Un processo che sarebbe stato più lungo e laborioso della morte, ad essere sinceri, ma pur sempre di risultato certo e con molto meno dolore rispetto all’altra opzione.

Sospirò, massaggiandosi di nuovo lo sterno. Il ronzio della presenza di Jack era indubbiamente più piacevole del vuoto lasciato nell’ultima ora. Un vuoto da cui il Dottore aveva sentito passare tutto il gelo del cosmo, senza riuscire a porre un freno.

Una volta aveva accusato Jack di essere uno sbaglio di natura, un punto fermo nel tempo e nello spazio. E, nelle ultime ore, aveva avuto modo di rimpiangere di non avergli detto quanto fosse importante per lui, così pieno di pregiudizi, avere un punto fermo del genere.

Qualcuno che non sarebbe mai morto, unico esemplare di una specie mai esistita, figlio esule di un tempo lontano e mai più ritrovato.

Amico leale.

Amico in eterno.

Annuì, percorrendo la sala con una falcata chilometrica e rilassata. Inforcò gli occhiali, avvicinandosi al tavolo e si appoggiò, con entrambi i palmi, fissando ciò che restava del Dalek.

Anche ora le differenze erano visibili. Ed era stato uno sciocco, poche ore prima, a non riconoscerle prontamente. Non importava che oltre il settanta per cento dell’essere fosse carbonizzato, il Dottore poteva sentire chiaramente la falsità di quelle forme, le differenze infinitesimali che, dalla struttura molecolare, plasmavano il resto dell’opera.

Un tutt’uno, aveva detto Martha, tra macchina ed essere fatto di carne.

I Dalek clonati, mutati dalle radiazioni e dalla fessura di Cardiff, non spontaneamente emersi ma spinti fuori da essa. Mandati lì perché lì sarebbe stato il Dottore, a ricaricarsi, dopo un viaggio durato un trilione di anni.

 

Solo che, chiunque fosse il mandante, aveva fatto male i conti.

Ad attenderli non c’era stato solo il Dottore. Ma soprattutto il capitano Harkness, assolutamente incapace di tenere il naso fuori dai guai.

 

***

 

“Torchwood.” - borbottò soltanto, riprendendo a camminare - “Quanto non vi tollero…”

“Sapessi invece quanto siamo bravi.” - protestò Jack, tampinandolo per il viale a caccia di un ristorante che non fosse affondato nel frattempo - “Proteggiamo il mondo, difendiamo la terra…”

“… perché nel ventunesimo secolo cambierà tutto… si, l’ho sentito dire. Credo in televisione. Da un telefilm di serie B.”

“Spiritoso…”

“Sono un uomo di humour sottile.” - ribattè, modesto, affacciandosi dal pontile, un piede contro la ringhiera, le mani intrecciate nel vuoto - “Allora, Jack… Martha come sta?”

“Cosa ti fa credere che io l’abbia vista?”

“Bhe, il lavoro che fa dovrebbe permetterle di venirti a dare ordini.”

“Io non prendo ordini da nessuno.” - ribattè Jack, appoggiandosi  nella stessa posa, al suo fianco.

“Errato.” - si voltò, i gomiti alla balaustra e sorridendo, smagliante - “Tu li prendi da me e, ora, pure dall’ufficiale medico Jones. Sempre grazie a me.”

“Ah! Lo sapevo che eri stato tu!”

“Le dovevo qualcosa, non credi?”

“Penso di si. Anzi. Penso che tutti le debbano qualcosa.” - specificò, serio - “Come a te.”

Il Dottore non rispose. Ma, per Jack, non fu una sorpresa. Schivava le verità di riconoscenza e ammirazione come se fossero pallottole, se non trovava un modo per ironizzare.

 

Ironia, ancora di salvezza degli animi riservati…

 

“Toglimi una curiosità.” - domandò infatti il Dottore, con aria assente - “Prendi ordini anche dal soldato Jones?”

 

E Jack, dopo un attimo di sbandamento, pensò che l’unica fosse inseguirlo lungo il molo e cercare di gettarlo in acqua.

 

***

 

Di corsa in corsa, avevano rinunciato al ristorante. Ed erano approdati ad un chiosco dove, secondo le informazioni interplanetarie di Jack, si mangiava il miglior cibo venusiano mai cucinato.

Inutile domandarsi come il cuoco conoscesse le ricette e con cosa sostituisse l’arrosto di Fwemelà.

“Quarantotto ore filate di amnesia…” - ripetè il Dottore, ragionando - “Non mi sembrano poche…”

“Mi sembrano pochi i danni a posteriori.” - replicò Jack, bevendo la propria birra - “E c’è qualcosa che continua a sfuggirmi che so importante. Del resto, se davvero ci siamo provocati l’amnesia, teoria più che plausibile, posso sforzarmi finchè voglio ma…”

“Io potrei.”

“Lo so. Ma qualcosa mi dice che non è il momento.” - Jack scosse la testa. Ma i suoi occhi, inconsciamente, sembrarono velarsi di un’emozione contrastante - “Ti farò sapere, quando dovrò cercare qualcuno che mi frughi nel lobo temporale.”

“Per me sarà un piacere.”

“Per me no. Troppi ci hanno messo le mani, dopotutto.” - si zittì e bevve un altro sorso di birra - “Solo mani conosciute, se posso.”

“Bene. Intanto tu hai un’ossessione per le mie mani. Ne tenevi persino una di ricordo.”

“Si. Mi piacciono le tue dita. Sono da pianista e le usi veramente bene.”

“Jack, stai flirtando di nuovo con me.”

“Lo faccio solo per tenermi in allenamento. E perché siamo al dolce.” - allungò le gambe, beffardo - “Aggiungo che, prima o poi, dovrai rassegnarti al fatto che senza di me non puoi vivere.”

Il Dottore, rise, strofinandosi un occhio, come sempre.

“Si, certo.” - rispose, cercando di condire le parole con un cero sarcasmo. Ma qualcosa lo distasse, innervosendolo.

“Lo senti?” - domandò Jack, raddrizzandosi e premendo alcuni tasti della polsiera. Il terreno sotto i loro piedi stava vibrando, con uno scricchiolio appena udibile - “E’ la frattura.”

“No, è qualcosa di più.” - replicò il Dottore, piegandosi e analizzando il marciapiede con il cacciavite sonico - “La temperatura è scesa di qualche grado e senza motivazioni. Non è solo la frattura. Si sta aprendo qualcos’altro… e, dove si apre una porta…”

“Entra sempre qualcuno.” - concluse Jack, alzandosi - “Andiamo.”

Si mossero, seguendo la vibrazioni e i segnali inequivocabili del cacciavite. Poi, di improvviso, accadde. Impazzirono i sensori ed entrambi, in maniera nitida, sentirono l’aria riempirsi di api nere, sferiche, in fitti sciami.

Jack imprecò, a denti stretti quando le orde, con movimento sinuoso, cominciarono a convergere verso di loro. Particelle scure, troppo fitte per essere sempre distinguibili, come inchiostro su una superficie trasparente, scivolando vischiose e mischiandosi.

Fino ad accelerare e separarsi, circondandoli, in cinque agglomerati.

Cinque…

“Dalek.” - disse soltanto Jack. Ed estrasse la pistola, puntandola istintivamente contro uno degli esseri. Schiena contro schiena con il Dottore, nel disperato tentativo di non perderli di vista - “Credevo fossero tutti morti.”

“Credevo ne fosse sopravvissuto uno soltanto.” - ribattè il Dottore, puntando a sua volta il cacciavite - “E’ impossibile.”

“A quanto pare no. Proposte?”

“Certo.” - sterminare - “Leviamoci da questo guaio.”

Avevano combattuto, con mezzi di fortuna. Avevano corso, allontanandosi nel limite del possibile dalle zone più affollate. Ma i Dalek, in perfetto silenzio, li aveva inseguiti, feriti, obbligati a cercare rifugio.

E, infine, Jack aveva preso una decisione radicale.

“So che non ami i miei metodi.” - aveva urlato, mentre i quattro Dalek ancora vivi irrompevano nel locale in cui si erano rifugiati - “Ma capirai che è la situazione…”

Non si era premurato di finire la frase, aveva solo agito.

“Jack, no!” - aveva urlato il Dottore, mentre il capitano incendiava alcune bottiglie e apriva i condotti del gas, spezzandoli.

“Corri!” - aveva risposto Jack, ridendo.

 

Le fiamme li avevano incorniciati, dapprima rosse, poi di una tonalità assurda, salendo fino al cielo. I Dalek erano stati sbalzati via, compressi contro le pareti di cemento della sala, in un groviglio di metalli incandescente. E loro due erano volati per strada, atterrando scompostamente a qualche metro di distanza.

“Mica male, eh?” - aveva riso Jack, in uno scricchiolio di articolazioni , porgendogli una mano per rialzarsi. Soddisfatto del risultato, di se stesso e della dipartita di quegli esseri che gli avevano portato via tutto già una volta, la vita, Rose e il Dottore.

E il Dottore si era sentito cogliere da quell’incontrollata voglia di vivere e di combattere di Jack. Nell’afferrargli le dita aveva solo accettato il sapere che non sarebbero ripartiti assieme, che Jack lo avrebbe lasciato andare, seppur con rimpianto.

Perché Jack aveva trovato una casa. E una famiglia da proteggere.

E le stelle, le sue stelle senza fine, non gli mancavano più come un tempo. Nemmeno se tra loro viaggiava libero e indisturbato un Signore del Tempo con il suo Tardis.

 

“Capitano, sei impossibile.” - rise, scotendo la testa ritrovandosi in piedi, faccia  a faccia con tutti quei denti dritti e quegli occhi azzurri incredibili - “Fuori di testa, del tutto.”

“Ai suoi ordini, signore.” - Lo sbeffeggiò, con il saluto militare, mentre tutto attorno l’aria diveniva rovente - “Leviamoci da qui o dovremo rispondere a troppe domande. Alla base ci occuperemo del come siano giunti.”

“Oh, certo, questo è sicuro!” - replicò, deciso. Non esisteva Dalek in grado di scampare alla sua ira.

Troppo era stato sacrificato per quella razza senza scrupoli, troppo di assoluto e di personale. E Jack lo comprese dal suo sguardo rivolto alle fiamme ormai smeraldo. Si voltò, fissando lo stesso punto.

“Ce ne occuperemo insieme.” - disse soltanto, sotto il bagliore sempre più intenso - “Tu ed io. insieme.”

“Come sempre.” - replicò il Dottore, senza guardarlo.

“Si, come sempre.” - ripetè Jack, in un sorriso.

Una frazione di secondo dopo, mentre un’ ombra emergeva da quel rogo, il Dottore sentì il braccio di Jack afferrarlo. E il suo corpo avvolgerlo, proteggendolo, nascondendolo.

Sterminare.

“No, non lo avrete mai.” - gli sembrò di sentire, una frase che si tramutò in urlo, prima di svanire.

Il calore tra i loro corpi divenne un fiotto rosso, appiccicoso. Rosso, come sarebbero dovute essere le fiamme. Rosso, come il sangue.

 

Mai.

Non lo avrete mai.

Mai.

 

Dopo, era stato solo un incubo. E il Dottore, in piedi con le mani contro il tavolo e gli occhi socchiusi, non volle ricordarlo.

Non lo avrete mai. Mai, finchè vivrò. Per sempre.

 

***

 

Aveva di nuovo una flebo. Due, tre. E gli elettrodi.

“Fingiamo di averlo curato.” - aveva scherzato Owen, nel visitarlo - “Non gli diciamo che tu lo hai ucciso. Magari è suscettibile a riguardo.”

“Solo in base alla modalità di uccisione.” - aveva replicato Ianto, restando in piedi a debita distanza. Intanto non mi importa nulla. Solo che sia tornato.

Si voltò, lasciando Jack alle mani di Owen, e percorse la base fino al laboratorio.

“Dottore…” - mormorò, porgendogli una tazza di caffè e affiancandolo - “Gradisce?”

“Grazie, Ianto.” - gli prelevò la tazza dalle mani, continuando ad analizzare il frammento - “Hai un modo interessante di dire Dottore… come se stessi dicendo Signore…”

“Deformazione personale.”

“Immagino.” - aveva occhi mobili, dietro le lenti. Come se il suo cervello captasse e scomponesse in dati immagazzinabili. Difficile afferrare la deduzione conclusiva - “E devi essere un tipo pieno di segreti.”

“Parlare poco non significa inscindibili misteri…” - replicò, seguendo la procedura di smontaggio. “Minimizzare non significa essere semplici….” - fece eco il Dottore, con lo stesso tono assente, gettandogli un’occhiata storta. In piedi, eretto, la mano sul fianco, la testa solo signorilmente piegata. E gli occhi grigioazzurri, come vetro.

“… tacere non significa non avere niente da dire…” - aggiunse, scandendo le lettere con morbidezza. E Toshiko, dall’altro lato del tavolo, captò la lieve inflessione gallese, voluta, garbatamente imitata - “…Ianto.”

 

Ianto… come signore. O Dottore.

 

Uno scherzo, ma a caccia di qualcosa.

Ianto, in risposta, accennò un sorriso, lieve, a lato della bocca. E dentro agli occhi. Silenzioso.

 

“Bene.” - esclamò il Dottore, interrompendo quell’occhiata con cui si erano soppesati - “Toshiko, stupiscimi ancora!”

“Tosh.” - gracchiò l’interfono - “E’ sveglio.”

Tosh si fermò, fissando il Dottore, bloccata tra l’invito a parlare e la voce di Owen.

“Vai.” - disse il Dottore, con gesto della mano, sottraendole i dati - “Reclamo questa mia zona ad uso personale, corri dal tuo capitano.”

 

Detto e fatto. I sandali di Toshiko ticchettarono lungo le pavimentazioni metalliche, rapide, impazienti.

 

Ma Ianto non si mosse. E non disse nulla.

“Non pensi che vorrà parlarti?” - chiese il Dottore, alzando la spettroscopia in alto e studiandola - “Presso certe culture è normale sviluppare una forma di riconoscenza per il proprio carnefice… mi dicono…”

“Tra noi io sono la preda.” - replicò Ianto, senza sfumature - “Non il carnefice… signore.”

“Interessante affermazione.” - ammise il Dottore, con un sorriso bieco. E gli porse due pagine di dati fitti come formiche - “In tal caso, permettimi di abusare del tuo tempo libero.”

 

***

 

Dalek. O non Dalek?

 

“Un rompicapo con le fattezze di un incubo dentro una struttura sintetica sotto la superficie dell’inaspettato.” - cantilenò il Dottore, facendo saltare una nuova giuntura carbonizzata e procedendo verso il nucleo. Strato dopo strato, con asettica razionalità.

“Li ha affrontati molte volte?” - domandò Gwen, reggendo un pezzo, finalmente con un paio di guanti - “Questi Dalek…”

“Non questi. Ho affrontato quelli veri.” - replicò, seduto sullo sgabello, quel suo solito cacciavite inspiegabile tra le mani - “E un po’ troppe volte, dopo la battaglia finale.”

“C’è stata una battaglia finale?”

“Credevo di si, molto tempo fa. Mi sono sbagliato.” - ci siamo sbagliati tutti. Ma solo io vivo ancora per saperlo - “Prima o poi rimedierò.”

“Non dubito.”

Gwen aveva l’espressione decisa, ma un sorriso ad acquarello stranamente femminile, in barba al modo in cui impugnava un’arma e si muoveva. E, al Dottore, ricordava qualcuno. Una ragazza dolce, ma tanto coraggiosa, conosciuta proprio a Cardiff, tanto tempo prima. Una ragazza con una connessione tale con la frattura da…

 

Bah, semplice casualità!

 

“Gwen, mi servirebbe…” - un attrezzo gli venne posto in mano, mentre ancora cercava le parole adatte - “Grazie.”

“Conosci Jack da tempo?”

“Conosco Jack da tempo.” - confermò, forzando un bullone fuso con la propria guida - “Amici di vecchia data.”

“E hai a che fare con la fessura?” - aggiunse, lievemente indagatoria. Umanamente curiosa, valutò il Dottore, soppesando la domanda. Piacevole.

“Non direttamente.” - meno di te, del resto, se si crede alle reincarnazioni.

“Si è aperta, non molto tempo fa. L’abbiamo aperta noi.”

Il Dottore interruppe il proprio lavoro e si voltò.

“Torchwood.” - commentò, caustico - “Siete portati a compiere sciocchezze di scala universale.”

“Jack era contrario. Lo abbiamo fatto senza il suo permesso, ammutinandoci. E lui ha rimediato, rischiando il tutto e per tutto.”

 

Con la vita, per salvare tutti noi. Come con te.

 

Il Dottore non rispose, non giudicando il loro tradimento. Emise solo un piccolo suono, forse di apprezzamento nei confronti dell’eroismo di Jack, tornando al proprio lavoro come se niente fosse. E Gwen decise di andare fino in fondo.

“Fummo tentati con delle visioni, di persone care, che amavamo. Ma a Jack non accadde, non vide nessuno.” - mormorò - “E, quando ne parlammo mi disse che esisteva una sola visione che avrebbe potuto convincerlo: un buon Dottore.”

 

Solo un buon Dottore, in mezzo al nulla.

 

L’uomo aveva smesso di lavorare. Ma le dava le spalle. E Gwen girò attorno al tavolo, per fronteggiarlo.

“Solo un buon Dottore.” - ripetè, sfidandolo, quasi - “Non c’era nulla per Jack, che la fessura potesse offrirgli, se non un buon Dottore.”

Il Dottore la guardava, impassibile. E Gwen si ritrovò, per la prima volta a fissarlo bene in viso, il naso sottile, i lineamenti mal assortiti sotto un ciuffo ribelle. Un ragazzino allampanato con un’autorità tale da smuovere il mondo, considerò, con una leggera tensione.

Freddo. Come le sue risposte.

“Interessante.”

“Interessante? Io direi molto di più.” - Gwen sorrise, spalancando gli occhi - “Io credo che sia ben di più, detto soprattutto da uno come Jack che non si concede mai molto.”

Il Dottore si pulì le mani in uno straccio, gli occhi fissi sull’ultimo resto analizzabile del Dalek. E alzò gli occhi.

“Cosa ti aspetti che dica, agente Cooper?” - chiese, con molta educazione - “I segreti di Jack appartengono a Jack.”

“Io voglio sapere dove è stato quando è sparito.” - rispose la ragazza, posando i palmi aperti sul ripiano - “Perché è svanito nel nulla, abbandonandoci e, quando è tornato ha solo detto… ha solo detto di aver trovato il suo Dottore.”

 

Lo ha fatto con un sorriso senza eguali, un sorriso che faceva male.

E oggi, per te, ha rischiato di lasciarci tutti, un’altra volta, in maniera definitiva.

Ma io non so vivere con questa incertezza. Non ne sono capace.

 

“Non ho dubbi su chi sia il suo Dottore.” - aggiunse, sfidandolo, con rabbia mal repressa.

“Non mi risulta che ne abbia un altro.” - ammise il Dottore, allineando alcuni pezzi. E imitando la sua posa, le mani sul tavolo, per fronteggiarla - “Solo che non ha detto così, tornando. Io potrei scommetterci.”

“Cosa?”

“Io lo conosco bene, Gwen. Davvero bene.” - scandì, stringendo gli occhi e fissandola, fino ad intimorirla - “E se Jack non è voluto partire con me per tornare da voi, non dubito che lo avrà anche chiaramente detto. Con queste esatte parole: Sono tornato. Sono tornato per tutti voi.”

 

Sono tornato. Per voi. Per tutti voi.

“No, Gwen? Pensaci bene.” - aveva di nuovo lo straccio tra le mani e un campione metallico da strofinare. Come se nulla di quelle mal velate accuse potesse colpirlo - “Fai con calma. Io non vado da nessuna parte.”

“Ma prima o poi te ne andrai. E lui? Verrà con te?”

“Chiedilo a Jack.”

“Io non…”

“Esattamente ciò che ho detto.” - quegli occhi scuri la stavano perforando, senza farle male - “Lo chiederai a Jack se vorrai una risposta.”

Fine della discussione. E Gwen pensò che fosse opportuno levare il disturbo.

E lo avrebbe fatto e basta, se il Dottore non l’avesse richiamata.

“Se vuoi proprio un consiglio...” - disse il Dottore, affacciandosi dalla porta del laboratorio, la spalla contro lo stipite - “Chiedigli di essere più specifico, riguardo il nulla che ha visto… perché l’assenza delle visioni non era sinonimo di assenza d’amore… ma del fatto che le persone che amava erano tutte innanzi a lui, in carne e ossa. E si stavano ammutinando senza ascoltarlo.”

E nemmeno quando si voltò, Gwen osò muoversi.

 

***

 

Era ormai notte fonda, ma la caccia non era stata ancora sospesa. Jack dormiva nel suo letto e, a turno, uno di loro si affacciava, controllando che tutto fosse a posto o se, almeno, si fosse deciso ad aprire gli occhi e renderli partecipi.

Ma Jack aveva deciso di prendersela comoda e nessuno di loro, alla resa dei conti, sembrava poter obbiettare. Dopotutto, era vivo, vegeto e meno fratturato di prima. Si accontentavano, chiacchierandone come se niente fosse, ricapitolando il caso clinico con cui aveva stigmatizzato Owen. E teorizzare il miracolo, ora, a posteriori, non implicava più il parlare della sua resurrezione ma del come, dopo l’esplosione, fosse riuscito a tornare alla base sulle proprie gambe e mantenendo una parvenza umana.

“La forza di  volontà smuove le montagne.” - aveva scherzato Martha, con un sorriso - “Basta concentrarsi su ciò che si vuole. Certe volte basta pensare. Solo pensare. Vero, Dottore?”

“Si...” - aveva sospirato, restando appoggiato allo stipite della camera, le mani nelle tasche - “Qualcosa del genere.”

Si era voltato, guardandola.

“Gli hai parlato?”

Martha aveva scosso la testa, tornando seria.

“Era debole. E gli altri avevano più motivi per volerlo vedere. Io posso aspettare.”

“Già.” - e io come te, alla resa dei conti. Posso aspettare, dato che lo sento respirare - “Prima i Dalek. Poi gli porterò arance e fiori.”

“Le arance? Ma non è in galera.”

“A Jack piacciono le arance. E credo che sostituirò i fiori con olive e martini. Mi amerà, ne sono sicuro.”

 

E, in quel momento, Tosh li aveva chiamati.

 

***

 

“Ci siamo.” - urlò Toshiko,  accendendo gli schermi in sala riunioni mentre, da ogni parte accorrevano, per ascoltarla - “Sappiamo dove si trovano.”

Premette l’attivazione e una mappa tridimensionale si srotolò, inframmezzata da bande multicolori che indicavano una lenta dispersione radioattiva dovuta allo spostamento dei Dalek.

“Sono danneggiati.” - spiegò, rapida - “E non più di due. Uno è stato rinvenuto poco fa, in un campo, siamo stati avvertiti dall’esercito.”

“Mi occuperò del recupero.” - rispose Owen, avviando la chiamata su una linea protetta. Gwen, in piedi, a braccia conserte, studiava  la planimetria.

“Come dobbiamo prenderli? Vivi o …”

“Vivi.” - rispose il Dottore, affiancandola. Non aveva fatto parola del loro scontro e non aveva cambiato di una virgola il suo atteggiamento composto ma autoritario - “Devo scoprire da dove provengono.”

“Possiamo tentare. Ma non è garantito.”

“Allora farete l’impossibile.” - replicò, tranquillo - “Devo parlare almeno con uno di loro. E non amo le autopsie.”

“E chi le ama. Ma ci servono comunque le armi.” - commentò Martha, con un’alzata di spalle, voltandosi poi verso Tosh - “Abbiamo armi a raggi V-Delta in armeria?”

“Si.” - Ianto le rispose, calcando la risposta - “Le abbiamo.”

 

Noi, Martha? Noi?

 

Martha sorrise stando al gioco, senza imbarazzo.

“Si.” - replicò, enigmatica - “Amo le sperimentazioni…”

E Ianto non si voltò nemmeno. Ma anche nel suo profilo, Martha vide l’ombra di un sorriso divertito.

“Sono certo…” - rispose, tornando impassibile - “Che le troverai… innovative…”

 

***

 

“Tosh resta.” - disse, poco dopo, Gwen, mentre si distribuivano le armi - “E anche Ianto. Qualcuno deve occuparsi di Jack e ci serve una connessione stabile con i satelliti, nel caso li perdessimo. Martha?”

“Sono con voi.” - disse, facendo scattare l’arma e familiarizzando con il suo peso - “Dottore?”

“Prendiamo la vostra macchina o viaggiamo con la mia?” - chiese il Dottore, finendo di vestirsi. Meno di un’ora prima, Martha era sparita con un mazzo di chiavi ed era riapparsa portandogli vestiti che, indubbiamente, gli donavano più di quelli di Ianto, delle scarpe di Jack e della giacca di Owen.

E, vestito di tutto punto, con un cappotto non dissimile al primo, appariva determinato e impeccabile. Impeccabile ad esclusione dell’abrasione sul collo che il colletto non mascherava del tutto. Sembrava sano come un pesce, in effetti, come se le sue capacità di recupero fossero superiori alla media.

Ma chi era? Owen lo squadrò ancora una volta, cercando la propria giacca di pelle. Due cuori, analisi del sangue che Martha non gli aveva lasciato leggere, rigenerazione cellulare e competenze mediche tali da poter visitare se stesso e Jack senza battere ciglio.

 

Condottiero, scienziato, viaggiatore del tempo… Dottore, semplicemente.

 

“Guido io.” - rispose, per non lasciare dubbi su chi tenesse in pugno la questione. E il Dottore, per il divertimento di Martha, alzò gli occhi al cielo.

Owen Harper poteva anche essere pieno di doti, ma gli ricordava la carta vetrata… e il desiderio di strofinarlo contro un muro diveniva irresistibile, col passare delle ore.

Ianto li fissava, senza obbiettare sull’ordine di Gwen. Ma il Dottore lo sorprese, avvicinandosi.

“Ianto.” - disse, con calma - “Se le cose non vanno come devono andare, devi dire a Jack di occuparsi del Tardis.”

“Tardis?” - ripetè, senza scomporsi.

“Lui saprà. Non deve cadere nelle mani del Torchwood.” - aggiunse, con calma. E Ianto lo fissò negli occhi, freddo.

“Io sono del Torchwood.” - rispose. La mia fedeltà va al Torchwood, fino alla fine. E oltre.

“Ne sono consapevole. Ma Jack…” - il Dottore piegò la bocca, in un sorriso enigmatico - “Per quanto megalomane, Jack tiene conto delle cose più grandi di lui. E saprà cosa fare.”

“Non ne dubito.” - Ianto gli tese la mano - “A dopo, signore.”

 

***

 

Owen guidò senza dire una parola, con il Dottore seduto a fianco e le ragazze una a fianco dell’altra sul sedile posteriore.

Di male in peggio. Non solo se lo erano portato appresso, fungendo quasi da gruppo spalla… ma il Dottore si era pure appropriato del posto di Jack, senza dire una parola. Ed era già qualcosa che non avesse preteso di guidare!

Perlomeno aveva la decenza di tacere e fissare soltanto la strada. Del resto, se Jack lo aveva salvato… e tenendo presente che aveva non assomigliava per niente a John Hart

“Sei un agente del tempo?” - domandò, di colpo, aprendo una conversazione inaspettata per tutti i presenti.

“Una specie.” - fu la risposta.

 

Fine delle comunicazioni. Non abbastanza per Owen.

 

“Una specie? E che specie?”

“La versione deluxe.” - specificò il Dottore, continuando a fissare la strada - “Svolta a destra, alla prossima.”

“Lo so.” - borbottò, in risposta, Owen - “Dunque Jack non è una versione deluxe degli agenti del tempo?”

“Non lo so.”

“Non lo sai?”

“Non gli ho mai chiesto del suo passato.” - tagliò corto il Dottore, girando la testa - “E tu?”

“Ci ho provato.” - ribattè Owen, in uno slancio di schiettezza - “Non ho ottenuto niente.”

“Come me.” - disse la voce di Tosh, dalla radio, prendendo parte alla conversazione.

“O come me.” - fece eco Gwen, tamburellando con le unghie sulle ginocchia accavallate.

“Tipico dei viaggiatori del tempo.” - sospirò Martha, con aria saggia - “Più cose hanno visto, meno scopri di loro.”

“Non è vero!” - il Dottore si voltò, sporgendosi tra i due sedili - “Io ti ho raccontato un sacco di cose di me stesso!”

“Oh, certo.” - Martha annuì, spalancando bene occhi e bocca per sottolineare il concetto - “E quante ne hai omesse?”

“Solo quelle… quelle troppo complesse da spiegare!”

“Perché abbiamo sempre parlato solo di cose semplici, vero?” - le era mancato. Le era mancato il discutere e discutere e discutere infinito. E quel concludere ogni discussione fissando i suoi occhi brillanti per troppa vitalità. Il Dottore adorava spiegare le cose, traeva un piacere infinito dalle proprie parole. E dietro ad ognuna, nascondeva con attenzione se stesso.

“E dimmi…” - aggiunse, provocandolo - “Era troppo complesso anche spiegarmi perché Jack avesse una tua mano?”

“Ma non lo sapevo. Te l’ho detto, l’ho persa durante un combattimento!”

“Jack aveva…” - Owen si voltò di scatto, inorridito - “La mano! La mano che tenevamo alla base!”

“Ma tu ne hai due!” - si intromise Gwen, scattando a sedere. E il Dottore, per la gioia perversa d Martha, alzò gli occhi al cielo.

“Ciao.” - salutò, mostrando bene prima una e poi l’altra mano - “E’ una storia complicata e non so come Jack abbia…”

“A Natale, durante le perlustrazioni per il relitto dell’astronave… tu eri là sopra?”

“Lui era il nostro campione.” - sottolineò Martha, orgogliosa di averlo scoperto - “Era lui che il primo ministro invocava, in televisione.”

“Tu... tu sei quel Dottore?”

“Non ne esiste un altro.” - spiegò per l’ennesima volta, quasi stufo - “Solo perché voi uomini mettete spesso questo titolo davanti al nome, non significa che tanti lo portino con lo stile che ho io.”

“Vero.” - dovette concordare Owen, per una volta - “O come lo porto io.”

“Si, tu non sei male.”

“Grazie, Dottore.”

“Prego, Dottore.”

“Sul serio eri sull’astronave e hai combattuto per noi?” - insistette Gwen, senza perdere la presa sull’argomento - “Hai combattuto per l’umanità, prima che il Torchwood intervenisse?”

“Si. In pigiama e vestaglia.” - borbottò, sprofondando nel sedile. Complimenti Martha Jones, bell’idea - “Con due mandarini in tasca dopo essere stato resuscitato con una tazza di the verde.”

Seguì un silenzio imbarazzato e rimuginante.

Poi Gwen si fece interprete del pensiero generale. Martha compresa.

“Stavi scherzando.” - sospirò, rilassandosi, con un sorriso - “E io che ti avevo preso sul serio…”

 

***

 

“Ianto?”

Ianto si voltò, tornando vicino al letto.

“Sei sveglio, allora.” - commentò, guardandolo.

“Non abbastanza.” - Jack sbattè le palpebre, senza riuscire a vederlo chiaramente - “Che ore sono…”

“E’ quasi mezzanotte.” - rispose, riponendo l’orologio nel taschino. L’orologio di Jack, sequestrato dall’infermeria in attesa che il suo proprietario venisse a reclamarlo - “Come ti senti…”

“Male.” - sorrise, divertito della propria affermazioni, con gli occhi chiusi - “A che ora sono morto?”

Ianto sospirò, piano. E si sedette, sul bordo del letto.

“Alle cinque e diciotto minuti, oggi.” - rispose, con calma - “E, se permetti, sei risorto alle sette e quarantadue minuti.”

 

Mentre già credevamo che non l’ avresti fatto. Mentre io credevo che non saresti più tornato.

 

“Mi hai cronometrato?” - domandò Jack, aprendo a malapena gli occhi. Aveva la vaga percezione di essere nel proprio letto e di avere un corpo pieno di dolori e traumi… e ancora meno, ricordava come se li fosse procurati.

“No, ho solo aspettato.” - Ianto lisciò una piega sulla coperta, gli occhi fissi sulle proprie dita - “Ti ho ucciso, Jack. Non sei morto e basta.”

“Calcolando come mi sento…” - mormorò Jack, dopo un lungo istante di silenzio - “Credo che, per questa volta, tu abbia fatto bene.”

 

Non voglio pensare come fosse, quando ero ancora vivo… prima…

 

Detto questo, lo sbirciò, gli occhi brillanti sotto le palpebre socchiuse.

“Puoi farti perdonare con un bacio, se proprio ci tieni…” - aggiunse, impertinente.

E Ianto si piegò, verso di lui.

“Agli ordini… signore…”

 

***

 

“Sterminare… sterminare…”

“Di qui!” - urlò Martha, sollevando il fucile sopra la testa - “Dottore, è qui.”

Avevano combattuto, ininterrottamente. I Dalek, i due rimasti, erano compromessi dall’esplosione ma ugualmente tenaci nel difendersi. Avevano attaccato, cercato di polverizzare i quattro uomini che li avevano aggrediti. E, infine, uno dei due si era semplicemente scomposto, sotto i colpi ripetuti, mente l’ultimo, il superstite, svaniva nelle profondità di un magazzino a cielo aperto.

Tra le casse, sotto le stelle, correndo, lo avevano cercato ad oltranza.

Fino all’urlo decisivo di Martha, che li aveva nuovamente radunati.

L’ultimo Dalek attendeva, in un angolo. E per quanto ripetesse ancora la sua frase tipo, non avrebbe più potuto mettere in atto la minaccia. Troppo seriamente danneggiato, scuoteva il moncone di un fucile che non avrebbe ucciso più nemmeno un moscerino innanzi al Dottore che si avvicinava.

“Sai chi sono?” - domandò il Dottore, fermandosi, le mani nelle tasche, il cappotto spinto indietro. Sembrava un lord annoiato innanzi alle miserie dell’esistenza.

“Sterminare…”

“Hai memoria della storia della tua razza?”

“Sterminare…”

“Rispondi, Dalek.” -  intimò il Dottore, guardandolo,in un misto di pietà e rabbia - “Sempre se tu così ti definisca.”

“Dalek, sterminare.”

“Allora stermina.” - allargò le braccia, come Martha gli aveva visto fare migliaia di volte. Non per provocare, solo per porre fine alle proprie sofferenze. Ucciso da un Dalek, come ogni altro della sua razza. Non più solo, almeno nella morte - “Io ho ucciso la tua razza. Uccidimi.”

 

Uccidimi.

 

“Il Dottore… uccidi il Dottore…”

“Esatto.” - annuì, senza arretrare di un passo. Uccidi me e nessun altro. Nessuno tra te e me, adesso.

 

Basta sofferenze. Basta.

 

Stermin…” - la voce si spense, in un roco sussulto.

“Sta morendo.” - mormorò Gwen. E il Dottore scattò, in ginocchio, innanzi al Dalek.

“Non prima che io abbia avuto le risposte.” - ringhiò, cominciando a forzarlo con il laser del cacciavite - “Chi sia, cosa sia, chi lo abbia creato, a costo.. a costo di salvargli la vita.”

“Dottore.” - Martha passò il proprio fucile a Owen, avvicinandosi.

“No.” - si era voltato, sbarrandole il passo con un semplice gesto secco della mano - “No, Martha. Non ti immischiare!”

Posò le mani sulla corazza annerita, piantando le unghie nelle scanalature e forzando, fino a sentire ogni ferita incendiarsi per lo sforzo.

“Vi siete presi la mia razza, la mia terra…” - sibilò, a denti stretti - “Avete provocato sofferenza, cercato di uccidere Rose, massacrato gente innocente, tutto in nome della vostra conquista e del vostro dominio.”

 

La placca, sradicata, portò con sé parte dell’essere al suo interno, in un gemito straziante.

 

“E oggi, vi siete quasi presi Jack, un’altra volta.” - concluse, inserendo la mano nella cavità - “E io sono stanco di coloro che se ne vanno per non tornare mai e di voi che in un modo o nell’altro, mutati o no, tornate sempre.”

Nessuno osava muoversi. La rabbia e la furia non conoscevano confini in quell’uomo in apparenza così assente.

Eppure c’era dell’altro, qualcosa che andava oltre la collera e la brutalità. Era solitudine, una solitudine tanto vasta da non essere spiegabile o comprensibile.

La solitudine che credeva di aver visto in Jack era un riflesso di questa. Un pallido riflesso, in un uomo che percorreva solo le strade del tempo a caccia di se stesso, del suo scopo.

Ma il Dottore... il Dottore aveva uno scopo e una consapevolezza nello sguardo. Anche ora, senza controllo, nell’ estrarre con entrambe le mani la carcassa di un alieno morente da un involucro di metallo.

“Dalek…” - sibilò l’essere penoso, inerte tra le dita del Dottore - “Dalek Promesso…”

“Promesso? Cosa intendi con Promesso.”

“Dalek Promesso… promessa di una nuova rinascita.” - sussultò, parlando con voce metallica. Comprensibile senza traduzione, pensò Owen, come se qualcosa lo amplificasse e lo distorcesse per adattarlo alle loro percezioni.

“Spiegati.” - ordinò il Dottore, senza stringere quell’ammasso cedevole di tessuti compromessi - “Da dove provieni, chi ti ha creato, rispondi.”

“Dalek…”

“Rispondi, maledizione!” - strinse, senza ottenere altro che un sibilo, una parola distorta - “Devo sapere, rispondi!”

 

Devo sapere come mi hai trovato.

 

“Dottore.” - Martha gli posò una mano sulla spalla - “Lascialo andare.”

“Io ho bisogno risposte…”

“Lo so. Ma tu sei migliore di lui.” - sussurrò, mentre alzava la testa verso di lei - “Lascialo morire in pace.”

“Non è un vero Dalek. Si illude di esserlo, vive di un sogno che non esiste…” - sussurrò Gwen, avvicinandosi - “Una promessa… è solo una promessa…”

“Ha ragione.” - anche Owen era vicino. e, per una volta tanto, senza astio nella voce - “Non è stata la fessura a danneggiarlo… e nemmeno l’esplosione. È un essere fragile, senza futuro. Un’illusione.”

“Un’illusione.” - il Dottore alzò gli occhi alle stelle, al cielo sopra le loro teste - “L’illusione di un essere rimasto solo.. solo in tutto l’universo.”

Non sorrise di quella consapevolezza. Si sentì solo stanco, schiacciato dal dolore, dall’essere che ancora teneva tra le mani. Una promessa infranta, il disperato tentativo di un Dalek, ultimo della sua razza e ormai non più sicuro nemmeno di se stesso.

Posò il corpo a terra e puntò il cacciavite verso l’interno della corazza.

“Dalek Caan.” - mormorò, con il tono di sempre - “Io credo che tu possa sentirmi. Rispondimi.”

 

***

 

“Ciao, Jack.” - Toshiko era ai piedi del letto, quel sorriso di irresistibile timidezza sulle labbra - “Posso?”

“Tutte le volte che vuoi, Tosh.” - replicò Jack, depurando in extremis la frase di ogni allusione sessuale. Toshiko non avrebbe apprezzato e avrebbe provato imbarazzo.

“Mi fa piacere vedere che stai meglio.” - rispose la ragazza, sedendosi sul lato del letto. Era felice, davvero, sincera nelle sue affermazioni - “Ci hai fatto prendere un bello spavento, questa volta.”

“Andiamo Tosh, non è stata così brutta.” - sorrise, piegando la testa per ricambiare il sorriso - “Questa volta ero ancora sul tavolo di Owen… l’altra volta ero già per metà nel loculo…”

Tosh rise, istericamente, coprendo la bocca con una mano. E Jack le afferrò le dita, quando vide una lacrima scivolarle sulla guancia.

“Sto bene, Tosh. Davvero.” - le disse, posandole un bacio sulla mano, senza lasciarla andare - “Sono solo un po’ ammaccato.”

“Ma ancora molto affascinante.” - sorrise lei, cercando di calmarsi.

“Certo. Io sono sempre affascinante.” - la guardò con tenerezza - “Allora, hai lavorato con il Dottore?”

“Si.” - annuì - “E ho usato i tuoi files sui Dalek. Mi sono stati molto utili.”

“Mi fa piacere.”

“Quando hai trovato tempo di... insomma…”

“Leggo molto, quando non dormo.” - rispose, con semplicità - “E non credo che ti sorprenderei se ti dicessi che la rete si allarga nel tempo e non solo nello spazio.”

“Lo immaginavo. Ho trovato qualche articolo a riguardo ma…” - si interruppe, guardandolo - “Ti sto annoiando, vero? Dovresti riposare…”

“Tu non mi annoi mai, Toshiko, davvero.” - sospirò Jack. Poi la fissò, l’espressione mutata negli occhi chiari - “Hai letto tutti i files sui Dalek?”

Toshiko esitò, prima di rispondere.

“Tutti quelli che erano accessibili. E quelli criptati…” - si fermò. E respirò a fondo - “Solo un paio. Ma, dopo quelli, ho capito che non avrei dovuto decodificare gli altri.”

Abbassò gli occhi, posando anche la seconda mano sulle loro ancora strette.

“Certi segreti devono restare segreti.” - mormorò. E Jack, con uno sforzo, si allungò, carezzandole una guancia.

“Grazie.” - disse soltanto, lasciandosi andare di nuovo sui cuscini - “A nome mio… e del Dottore.”

 

***

 

“Uccidere il Dottore… devi uccidere…”

La voce veniva da lontano e rimbombava nello spazio ormai vuoto lasciato dal Dalek. Come un’ossessione, come un comando subliminale sussurrato ad oltranza nel cervello di una creatura fragile e influenzabile.

“Non ci sono riusciti. Non potevano.” - rispose il Dottore, senza alzare la voce, senza accusa - “Non sono come te, Dalek Caan. Sono solo gusci e carne, fatti di comune materia, assemblati ad arte. Ma falsi. Non cambieranno la realtà... e non mi uccideranno.”

“Sterminare.”

“No.” - scosse la testa, con tristezza - “Non accadrà. Siamo rimasti solo tu ed io. E così sarà, per sempre. La Guerra del Tempo è finita, Caan. E nessuno di coloro che amavamo tornerà.”

“A… mare…”

“Forse un tempo non avresti compreso. Ma ora lo sai, sai come ci si senta.” - alzò gli occhi, fissando il cielo - “Tutte quelle stelle e nessuna che ci appartenga. Nessuna che attenda il nostro ritorno… e tutto è freddo e lontano, in questo vagare…”

 

Freddo. E solitario.

 

“Abbiamo abbandonato le persone che amavamo. Le abbiamo perdute, non abbiamo saputo proteggerle abbastanza. I nostri simili sono cenere e noi… noi siamo uguali. Dopo guerre, dopo infinite battaglie e morte, siamo uguali. Soli, abbandonati, desiderosi di vendetta. E di speranza.”

 

Speranza…”

 

Gwen fissava la macchina come ipnotizzata. La voce ripeteva le parole come se per lui non significassero nulla, come se il suo cervello non sapesse associarle ad un’emozione, ad una reazione. E il Dottore sembrò intuirlo, stranamente.

“I Dalek non provano emozioni.” - mormorò, parlando a lei come all’essere - “Amore, speranza, comprensione… non esistono cose del genere. La musica è rumore, la bellezza è qualcosa che non sapete cogliere, eppure… eppure tu hai chiamato questo Clone Promesso. Cos’è una promessa, per un Dalek?”

 

Nessuna risposta.

 

“Stai mutando. E lo sai. La solitudine ti sta facendo impazzire, snaturando.” - aggiunse, come se non esistesse altra spiegazione. E Gwen rabbrividì, per la freddezza con cui pronunciò la condanna, alzandosi - “Rassegnati, Caan. Non avrai mai la mia vita. E non avrai mai più un compagno. Addio.”

 

Ti condanno a una vita come la mia, senza promesse. E senza profezie.

Addio, mio nemico. Addio.

 

***

 

“Tosh, se vuoi puoi provare a farmi quella domanda.”

“Domanda?”

“Una di quelle che hai scritte in faccia al momento.” - Jack era pallido. Ma era il Jack di sempre, capace di essere ironico eppure gentile, con lei come con nessun altro. Gentile, quasi fraterno - “Non è certo che io ti risponda ma… se vuoi tentare…”

“Lui ti ha reso… immortale, vero?”

“Non lui. Il potere che custodisce.” - replicò Jack, con lentezza. Il dolore al torace era di nuovo forte, penetrante - “Il Vortice del Tempo mi ha reso tale, attraverso una ragazza… una ragazza meravigliosa di nome Rose.”

Sorrise, mentre la vista si sfuocava, ancora.

“Una ragazza che sapeva portare la luce. E la vita.” - aggiunse, con l’impressione di vederla, con la sua assurda maglietta dalla bandiera britannica - “Una ragazza con un sorriso bellissimo e tanto coraggio… voleva solo che vivessi, anche se ero un farabutto senza speranza…”

“Tu l’amavi…”

“Non quanto l’amava il Dottore. E io... io non avrei mai potuto portargliela via…” - le palpebre vibrarono, chiudendosi - “Rose era tutto per lui… tutto. Nessuno, nemmeno Martha, nemmeno io.. nessuno arginerà mai il suo dolore.”

“Il Dottore crede in te… Crede in te, Jack.”

 

Può sentirti… può sentire il tuo cuore dentro al petto.

 

“Lui sa arginare il mio dolore…” - poco più di un sussurro, un leggero movimento delle labbra - “Perché è la mia speranza…”

“E tu daresti la tua vita…” - mormorò Tosh, lasciando che scivolasse verso l’incoscienza - “.. per la sua.”

“No.” - la bocca di Jack si inarcò, in un ultimo sorriso - “Quella l’ho già data… tanto tempo fa…”

 

E ora... ora gli offro solo la mia immortalità… fino alle fine dei tempi… e oltre.

 

***

 

Il Dottore aveva interrotto il collegamento, senza attendere risposta.

“Andiamo.” - aveva detto, con un’ultima indecifrabile occhiata a ciò che restava del Dalek - “Qui non c’è più nulla da fare.”

E, quando Martha gli sbarrò il passo, semplicemente la schivò e proseguì, sparendo tra i container e le casse. Lasciandola sola, mortificata, come tante altre volte in cui non aveva saputo vederla.

“Di cosa stava parlando.” - mormorò Gwen, affiancandola - “Ha parlato di Guerra del Tempo…”

“La sua razza ha affrontato i Dalek. E si è estinta per distruggerli.” - disse Martha, fissando il punto in cui era sparito, con la propria disperazione - “Il Dottore è l’ultimo Signore del Tempo, l’unico, senza un pianeta a cui tornare. E i Dalek sono sopravvissuti comunque, anche se ora…”

“Uno solo, come lui.” - completò Owen, essenziale.

“Si. Uno solo, tra le stelle, come il Dottore.” - alzò la testa, verso l’infinità del cosmo - “Io sono stata lassù. E’ terribile, magnifico, ma… è così freddo… e vuoto…”

“Non può fermarsi, non avrà mai nessuno come lui…” - Gwen avrebbe voluto seguirlo, ma sapeva di non potere. Lo sapeva - “Non c’è nulla, per lui.. nessuna visione che possa tentarlo… nulla…”

Deve solo vivere. Vivere per sempre. E ricordare anche ciò che vorrebbe dimenticare.

Martha abbassò gli occhi. E si concesse un bel respiro, per ricomporsi.

“Smettiamola con questi discorsi, non servono a nulla.” - disse, risoluta, afferrando il proprio fucile  e precedendoli per il passaggio - “Ripuliamo la zona e andiamocene.

Non lasciamolo aspettare. Almeno questo. Non lasciamolo aspettare da solo.

 

***

 

Erano tornati prima dell’alba e si erano separati, anche se con l’intenzione di restare tutti alla base, almeno per il momento.

Owen non aveva parlato con nessuno. Era entrato, abbandonando la giacca e l’attrezzatura ed aveva marciato deciso fino alla camera di Jack, lasciando agli altri il resoconto e la routine. Ianto aveva preso in carico le scorie e i corpi da smaltire, mentre Martha e Gwen si rifugiavano con Tosh nella zona computer, ed era disceso all’obitorio. I passi lo avevano seguito, non accompagnati da nessuna frase storica. E Ianto non aveva ritenuto di dover spezzare il silenzio.

Aveva radunato i componenti, scattato alcune foto e compilato parte del verbale. Il Dottore aveva semplicemente osservato, appoggiato ad uno dei pilastri, immobile anche nello sguardo, tanto da fargli pensare che fosse completamente assente.

Aveva dovuto ricredersi, quando si era accinto a chiudere il catafalco.

Perché, all’improvviso, se lo era trovato a fianco, con lo sguardo fisso sul contenuto della cassa.

“Gelo o fuoco?” - domandò.

“La procedura dice gelo.” - rispose Ianto, sollevando la cartelletta con i documenti - “Ma io non ho ancora barrato la casella.”

“Allora non barrarla.”

“Torchwood, ricordi?” - replicò Ianto, voltando la testa e fissandolo, inespressivo - “Le regole sono regole.”

“E tu le rispetti tutte?”

“No.” - pulito, semplice, nello scuotere la testa e nel confermare la procedura di cremazione - “Dicono di no.”

“Davvero?” - il Dottore si concesse un sorrisetto divertito - “Stento a crederlo.”

“Sono un insospettabile.” - replico Ianto, modesto, abbassando lo sguardo verso la documentazione, e mascherandolo con le ciglia.

“Già. Grazie, Ianto.” - gli tese una mano - “E’ stato un piacere conoscerti.”

“Sta partendo?” - domandò, ricambiando la stretta.

“Tra non molto. Jack potrebbe offendersi non lo salutassi.” - sorrise, lasciando che alcune linee gli segnassero i lineamenti. Un sorriso antico, con occhi inespugnabili - “Ah, dimenticavo… burro di noccioline.”

Ianto sbattè le palpebre, sorpreso.

“Come?”

“Burro di noccioline.” - ripetè, allegramente - “Jack ne va pazzo. Comprane, ti divertirai.”

Ianto rise, piano, una risata difficile da sentirsi, calda e intensa. E il Dottore sorrise, guardandolo.

 

Non te lo dirà mai. Ma ti ha portato con sé, fino alla fine del mondo.

 

“E’ ora che vada.” - concluse. E si voltò.

“Dottore.” - lo chiamò Ianto, quando fu a metà della passerella, obbligandolo a voltarsi - “Probabilmente non si ricorda ma… io ero a Canary Wharf.”

Il Dottore lo fissò, senza muovere un muscolo. E Ianto, con lentezza, chiuse il catafalco e vi posò sopra i documenti.

“Ho visto i Cyborg, ho visto i Dalek, ho visto morire e modificare i miei amici.” - spiegò, con voce piatta - “E ho visto lei, che si opponeva al turno fantasma… ero presente anche quando ha fatto crollare la vetrata.”

 

Buon dio, Ianto. Tu sapevi chi ero e non hai detto nulla.

 

“Jack lo sa? Sa che eri a Londra?” - domandò, immobile. Ianto, l’uomo dei segreti.

“Jack lo ha scoperto.” - corresse, senza imbarazzo.

“Certo…” - ora si fronteggiavano quasi speculari, con le mani nelle tasche, la stessa indecifrabile espressione - “E sei sopravvissuto.”

“Fortuna. O paura. Quando è scoppiato l’inferno, me ne sono andato. Dovevo cercare la mia ragazza, Lisa.” - disse, infilando le mani in tasca e movendo un passo, per poi fermarsi - “E c’è dell’altro. L’ho conosciuta. Conoscevo Rose.”

 

E’ stato un attimo. Ma lei mi ha sorriso, inspiegabilmente, correndole incontro, insieme a un ragazzo di colore. Ed ogni notte che Jack ha sussurrato il suo nome nel sonno, io l’ho rivista. E ricordata.

 

“Come sai di lei…”

“Jack parla nel sonno. E lascia sempre in giro il suo diario.”

“Tu leggi il suo diario?”

“E’ vendetta. Lui legge il mio.”

“Ianto, se tu sei la preda, non voglio sapere cosa faccia Jack per essere il carnefice.”

“Non si preoccupi. Non intendo dirglielo.”

Aveva sorriso, pigramente. E il Dottore aveva ricambiato. Il Torchwood di Jack era un pozzo di oscurità, ma i suoi componenti erano unici e brillavano, come le stelle alle porte dell’universo.

“Voglio solo che sappia che mi dispiace.” - concluse Ianto, con semplicità - “Mi spiace per la sua perdita.”

“Grazie.” - Esitò. Ma l’istinto non lo tradiva, ne era certo - “E a me dispiace per la tua, Ianto.”

 

Se la tua ragazza era a Canary Wharf… allora so come è andata a finire.

 

“Credo che sia ora che vada.” - commentò Ianto, guardando l’orologio e riponendolo nel taschino - “Le conviene partire prima che sorga il sole. Sa, il Tardis è parcheggiato in bella vista. Difficile non notarlo mentre sparisce…”

 

***

 

“Sto bene.” - protestò ancora una volta Jack. E quando Owen, fregandosene delle sue lamentele, allungò di nuovo le mani verso il suo torace, semplicemente lo picchiò, sulle dita.

“Toccami di nuovo un capezzolo e io…” - si interruppe, fissando le ragazze - “Sorry, non davanti alle signore.”

Owen gli gettò un’occhiata storta. Jack aveva l’espressione di chi si sta censurando per amore di dignità. Del resto, trattandosi di Jack, poteva anche capirlo. Era nel suo letto, impossibilitato a veri movimenti e circondato da un sacco di ragazze desiderose di fargli da medico o infermiera senza risvolti sessuali. Frustrante, come minimo, per cotanta perfezione erotica.

Jack sorrise fissando tutti i presenti, chi in piedi, chi seduto. E, infine, Martha, impegnata a controllare l’orologio.

“Sta per partire, vero?” - chiese, serio. Ansioso, pensò Gwen, con una punta di agitazione.

Martha annuì, senza dire nulla. Aveva gli occhi tristi, spersi.

“Era ora.” - commentò Owen, ritirando i suoi strumenti e rinunciando a controllare ancora la pressione di Jack - “Ingombrante e faticoso, come tutti gli amici del tuo passato.”

Jack mosse gli occhi, fissandolo storto.

“Problemi di compatibilità, dottor Harper?” - lo provocò.

“Problemi testosteronici.” - ribattè Gwen, beccandosi un’occhiata inceneritrice - “Mi creda, capitano. Solo problemi testosteronici con la potente personalità del Dottore.”

“E’ il Dottore per antonomasia, Owen.” - rise Jack, fissandolo - “Non puoi competere.”

“Possibile.” - ribattè, asciutto, alzandosi - Ma non sono costretto ad apprezzarlo.”

“Invece sei proprio costretto.”

“Perché? Perché se non lo adoro turbo l’equilibrio cosmico basato sulla sua onniscienza?”

“No.” - Jack scosse la testa, cercando di incrociare le braccia. E dovendo rinunciare per fitte sparse tra il collo e l’inguine - “Perché la parola Torchwood è l’anagramma di Doctor Who, frase con cui la stessa regina Vittoria lo ha apostrofato al primo incontro decidendo poi di fondare il nucleo operativo originale.”

 

La mascella di Owen cadde con schianto. E senza possibilità di recupero.

 

“Stai scherzando.” - boccheggiò, in coro con gli altri presenti. Tutti, in varie sfumature di sorpresa.

“Non credo proprio.” - serio nello scuotere la testa. Ma a fatica. Veramente a fatica.

“Allora mi dimetto.”

“Owen…”

“No, no. Credevo di lavorare per una fondazione esterna al governo e ora scopro che siamo una setta. Non se ne parla. Me ne vado.”

“Owen, per cortesia.” - Jack indicò se stesso, bende e espressione sofferente annessa - “Al momento non posso correrti dietro.”

“Jack, ti giuro…” - gli aveva puntato un dito contro - “Ho avuto giornate di tutti i generi da quando sono qui. Ma questa è stata… è stata…”

“Paradossale?” - lo aiutò il capitano.

“Che ti dicevo?” - fece eco Gwen, trionfante.

“Ma non era la parola che non dovevamo usare di fronte a te?”

“Tosh, credimi, paradosso è una parola che sta benissimo a fianco di Dottore.”

“Se pensi di cominciare a chiamarmi Dottor Paradosso, Martha Jones.” - commentò l’interessato, dalla porta della camera - “Io farò finta di non conoscerti.”

Jack alzò gli occhi, fissandolo. Eccolo finalmente. Un mezzo sorriso, gli occhi brillanti ma scuri senza sfumature, vestito come sempre e senza un segno visibile di quelle ore.

Nessuno. Eppure Jack aveva intuito, captato stralci di conversazione, parole. E compreso molte cose persino dai silenzi creatisi nello scorrere delle ore.

Lo fissò, mentre varcava la soglia ed entrava, il cappotto già addosso, le mani nelle tasche, le converse nei piedi.

“Capitano…”

“Dottore…” - sorrise - “Ti sei deciso a venire a trovarmi, allora…”

“Ti ho persino portato un regalo.” - replicò, sfilando dalla tasca un’arancia. E, dall’altra, una margherita di stoffa rinvenuta nel portapenne di Toshiko.

“Era meglio un martini.” - rise Jack - “Ma grazie comunque.”

 

***

 

Quando poi il Dottore fece qualcosa di inaspettato come sorridere e togliersi il cappotto, tutti i presenti compresero al volo di doversi levare di torno. E, mentre Owen gli passava a fianco borbottando su dimissioni e adepti, il Dottore gli sfilò lo stetoscopio e lo ringraziò con una pacca sulla spalla, ovviamente poco apprezzata.

 “Che intenzioni hai?” - domandò Jack, fissandolo sospettoso, mentre posava il giaccone sulla poltrona e impugnava lo strumento, inforcando gli occhiali.

“Gioco al Dottore.” - ribattè l’altro, sedendosi sul letto, con un ginocchio piegato e sporgendosi, fino ad aprirgli la camicia - “Quando ti ho visto prima di uscire, eri seminudo e molto comodo da visitare. Perché tutti questi strati, adesso?”

“Ho una reputazione da mantenere.”

“E hai deciso di mantenerla vestito? Sarebbe una novità.” - replicò gettandogli un’occhiata distratta e ascoltandogli il battito, con aria concentrata. Troppo concentrata per accorgersi immediatamente della mano di Jack sul collo, impegnata ad abbassargli il colletto.

“Jack, non sei in condizione. E io non sono in vena.”

“Tu visiti me, io visito te.” - ribattè, pronto, lasciandolo comunque andare - “Eri ferito. Come stai?”

“Sto bene. Due battiti cardiaci perfetti, migliori del tuo.” - replicò, posandogli le dita su una vena pulsante del collo. E Jack inarcò la testa, fino a posarla contro il letto.

“Sto bene.” - mormorò.

Shhh..” - ribattè il Dottore, spostando le dita e trovando il punto propizio.

“Non faresti prima con il cacciavite?”

“So farlo anche con tecniche primitive. Basta che stai zitto.”

“Ma con il cacciavite puoi contarmi anche i globuli rossi e le piastrine… ti darebbe più sicurezza.”

“Jack… taci.”

“Non ti piace il suono della mia voce?”

“D’accordo.” - Tolse la mano e frugò la tasca interna della giacca, a caccia del cacciavite - “Hai vinto.”

“Ecco.”

“Ecco cosa?”

“Adesso mi manca la tua mano, qui. Ti spiace continuare con la tecnica primitiva?”

Il Dottore lo fissò, lievemente esasperato. E Jack gli sorrise, divertito dall’espressione.

“Sono vivo e starò bene. Lo sappiamo sia tu che io ma…”  - il sorriso svanì, lentamente - “.. questa volta, a quanto pare, hai dubitato delle mie capacità di ripresa.”

“Ero quasi sicuro. Ma c’era un margine di incertezza che…” - alzò gli occhi, cercando di quantificare la percentuale del dubbio. E rinunciando - “Diciamo che c’erano troppi medici che si occupavano di te e nessun Dottore. Mi sono preoccupato.”

“Immagino.” - le sopracciglia di Jack sfioravano l’attaccatura dei capelli. Insopportabile. E il Dottore, quindi, tese la mano, tornando a posagli le dita sulla giugulare.

“Solo perché ti devo la vita.” - specificò, mentre il capitano lo fissava trionfante - “E perché voglio che tu mi prometta che non rifarai mai più una cosa del genere.”

“Ti prometto che lo rifarò ogni volta che ne avrò l’occasione.” - ribattè, fissandolo dritto negli occhi - “E risparmia ogni forma di arringa, sarebbe tempo sprecato.”

 

***

 

Il Dottore non rispose. Lo soppesò con un’occhiata, come suo solito. E Jack lo lasciò fare, immobile, un po’ per scelta un po’ per necessità. Perchè, dopotutto, gli era mancata la sensazione che gli provocava quello sguardo.

Quando mi fissi così, io sento i pensieri filtrare nei tuoi occhi…

 

“Saresti stato più utile con la tua squadra.”

“La mia squadra sa cavarsela alla grande anche senza di me. E forse persino meglio, perchè io complico ogni faccenda. Ma non avrebbe potuto far nulla, se tu fossi morto ammazzato dai Dalek sulla passeggiata di Cardiff.”

“Non erano Dalek. Lo sembravano soltanto.”

“Lo so. Me lo ha detto Tosh. E Owen mi ha sintetizzato il resto.”

“Immagino che quadro lusinghiero di me che debba essere emerso…”

“Non mi serve il resoconto di Owen per sapere come sei. E, comunque, non lo sottovalutare. Magari non ti ubbidirà mai, ma hai il suo rispetto.”

“E’ più di quanto mi aspetti. Ma ha un carattere così ignobile che potrebbe domare i Weavill con la forza del pensiero.”

“Bhe, si, ha molte doti uniche…”

“Immagino. Jack, tra parentesi, la tua squadra è un branco di doppiogiochisti senza etica. Lo sai, vero?”

“Eccome.” - un sorriso pieno di orgoglio - “Scommetto che ti hanno stigmatizzato.”

“Ci hanno provato.” - rise il Dottore, strofinandosi un occhio - “E ne esce un quadro delizioso: il tuo medico mi vuole morto, la tua esperta di computer mi crede il tuo Messia, il tuo comandante in seconda mi tratta come se stessi per rubarle il fidanzato e il tuo maggiordomo era presente a Canary Wharf ad una delle mie migliori performance teatrali.”

Jack rise, sussultando per il dolore alle costole, ma senza riuscire a smettere.

“Si salva solo Martha.”

“Si salva sempre solo Martha.” - puntualizzò il Dottore - “Ma, del resto, Martha Jones è il mio team, non il tuo.”

“Oh, certo! E questo è un marchio di garanzia.”

“Ovvio. Guardati.”

“Io ero splendido anche prima di conoscerti.”

“Ho i miei dubbi. Ma è lo stesso. E non voglio ricominciare questa discussione, un’altra volta.”

“Sono della tua stessa opinione.”

“Bene.” - il Dottore annuì, alzando gli occhi verso l’orologio sul comodino - “Sarà ora che vada, il Tardis mi attende.”

“Ti accompagno.” - rispose Jack, raddrizzandosi. E le mani del Dottore lo fermarono.

“Jack, resta dove sei. Ci sono volute ore per farti ammazzare. Non posso chiederlo una seconda volta solo perché tu vuoi attraversare una piazza sulle tue gambe. Non hanno ancora cancellato la scia di sangue che hai lasciato oggi.”

“Disservizi comunali. Mai più avuto un buon sindaco dopo Miss Slitheen, lo dicono tutti…”

“Jack, per piacere.”

Jack si lasciò andare contro i cuscini. E con aria visibilmente seccata.

“Mi rifiuto di restare a letto.” - comunicò, lapidario, osservandolo alzarsi e prendere il cappotto - “Non puoi partire con questa immagine deviata di me.”

“Ma eri così primadonna anche quando viaggiavi sul Tardis?”

“No. Ma adesso sono il capo.”

“E hai una reputazione da difendere.” - sospirò, aggiustandosi il collo del cappotto - “Ah, dimenticavo. Il bel tenebroso di poche parole legge il tuo diario.”

“Chi, Ianto? Si, lo so. Io leggo il suo.”

“Ma il concetto di privacy?”

“Troppo da gente normale.”

“O civilizzata.”

“E’ lo stesso. Dottore… è vero che il Dalek si chiamava Promessa?”

“Così diceva.” - rispose, senza dare l’impressione che il discorso lo colpisse particolarmente.

Un gran commediante, lo applaudì Jack, dentro al proprio cervello.

“Ma, se fosse vero…” - insistette, con garbo

“Sarebbe folle. Esattamente. Può succedere a chi resta solo a lungo.” - ammise il Dottore, restando in piedi a fianco del letto - “Cominci a desiderare un po’ di compagnia e, non potendo averne, speri. Cerchi un segno, qualcosa in cui credere. O, se non riesci a trovarlo, ne costruisci uno, a tuo uso e consumo.”

“Una promessa per il futuro, quindi.”

“O, semplicemente, una promessa.” - lo corresse - “Grande o piccola, non ha nessuna importanza. Solo una promessa. La società Dalek, in fondo, si basava sulla moltitudine. Non mi sorprende che Dalek Caan non sappia vivere solo e, come ogni mente deviata, stia cercando una soluzione.”

“Credi che otterrà un risultato, prima o poi?”

“Chi può dirlo. E che importa. Tra me e i Dalek non è mai stata una partita alla pari. Eppure, finora, ho comunque vinto.”

Jack annuì, senza trovare nulla da aggiungere. Se non una singola domanda.

“E tu? Non desideri una promessa?” - chiese.

Il Dottore lo scrutò, per un lunghissimo istante. Troppo lungo, persino per lui.

“Perché non una profezia, allora…” - rispose, criptico.

“Non sono tipo da profezie. Ma posso farti una promessa, se vuoi, perché so mantenerle.” - replicò Jack, serio - “Non sarai mai solo, Dottore. Io resterò.”

 

Non sarai mai solo.

 

Sei sincero. E sei di parola. Lo sarai, secolo dopo secolo. E il giorno in cui non potrai più portare avanti la promessa, proverai a donarmi la speranza.

 

Tu non sei solo.

 

La speranza dentro una profezia. Oh, Jack… mio insopportabile…

 

“Lo so. Ti conosco.” - replicò, guardandolo e sorridendogli, cancellando il dolore sordo, come un nodo, alla gola - “Capitano Jack Harkness, un tempo agente del tempo, immortale, signore del Torchwood, eroe alla fine dell’universo e… Faccia di Boe.”

 

Il mio amico. Il mio amico fino alla fine dei tempi.

 

“Per la gioia di splendide fanciulle.” - sorrise Jack, passandosi una mano sulle guance con aria falsamente modesta. Innocente, per una volta, pensò il Dottore, guardandolo. innocente e troppo giovane.

 

Saremo sempre destinati a incontrarci, in punti diversi della nostra esistenza, in incroci affollati tra le strade che ci sceglieremo. Eppure, non so perché, mai nulla sarà come ora, con questi volti, queste parole, queste persone e questo mondo.

Non ameremo mai nulla più di quanto amiamo tutto questo. Nulla.

 

“Tornerò, Jack.” - rispose, tendendogli una mano - “Te lo prometto.”

 

Perché anche tu vaghi nel tempo in cerca di una meta. Ed anche tu, talvolta, desideri speranza per te stesso.

 

“A presto, allora.”

“Contaci.”

 

E, con un sorriso, se ne andò.

Ma non era ancora in fondo al corridoio quando Jack posò un piede nudo a terra e si sporse, a caccia della propria polsiera.

“Ianto.” - sussurrò - “Mi servi subito. E non farti vedere.”

 

***

 

Il team del Torchwood aveva deciso di confidare in una buona colazione e iniziare una nuova giornata. E così li sorprese il Dottore, raggiungendoli in sala conferenze, dove il tavolo risultava stracarico di tazze vuote e molteplici tipologie di dolciumi.

Martha sedeva con gli altri, chiacchierando e ridendo. Ianto, silenzioso come suo solito, andava e veniva, senza lasciarsi coinvolgere dalle conversazioni.

“Signori, signore…” - comunicò il Dottore, cerimonioso, fermandosi a capotavola - “Vi ringrazio dell’ospitalità e levo il disturbo.”

“Dottore.” - Owen fu il primo ad alzarsi, una mano tesa nella sua direzione. E, contrariamente a quello che si aspettavano i suoi commensali, più per rispetto che per trionfo personale.

“E’ stato un piacere conoscerti, Owen.”

“Reciproco.”

“Nessun rancore?”

“Nessuno.” - replicò, deciso, ricambiando la stretta - “Ti auguro buon viaggio.”

“Grazie.” - e alzò la testa, verso la ragazza alle spalle di Owen - “Toshiko, sei magnifica. Credimi. In tutto l’universo ne avrò conosciute a dir tanto dieci della tua intelligenza.”

Toshiko non trovò una risposta in tempi brevi. E, per sopperire al silenzio imbarazzante che sarebbe potuto crescere all’infinito, girò attorno a Owen e buttò le braccia al collo del Dottore.

“Non è stato solo un onore.” - sussurrò, sentendo i propri piedi staccarsi da terra - “Promettimi solo che tornerai presto e che chiamerai se avrai bisogno di aiuto.”

“Promesso.” - sussurrò. Ancora promesse, ancora sfumature umane per un Signore del Tempo - “E tu promettimi che il giorno che vorrai vedere le stelle mi farai un fischio.”

“Sottinteso.” -  Tosh annuì e sorrise, mentre l’abbraccio si scioglieva, dando loro il tempo di fissarsi negli occhi. Poi, con un passo indietro, cedette il campo a Gwen.

“Agente Cooper.” - il Dottore le tese una mano, senza violare i suoi spazi, contemplando i suoi occhi grigi e calmi - “Ti consiglio di destituire definitivamente Jack e prendere in mano la situazione. Sei indubbiamente più valida e meno umorale.”

Gwen non resistette. E sorrise, in un’esplosione di stelle dentro agli occhi.

“Terrò presente questo consiglio.” - rispose, non riuscendo a controllare la meglio soddisfazione personale e ilarità. E, dopo un’esitazione, si esibì nel saluto vulcaniano, strappandogli un sorriso - “Grazie di tutto.”

“Ma ti pare.” - il Dottore era magnanimo nelle parole come nel cenno della mano. Ma quando abbassò lo sguardo su di lei, ancora seduta, Martha capì che era il suo turno. E si alzò.

“Io ti accompagno.” - disse soltanto, aggiustandosi la giacca e prendendolo sottobraccio - “Andiamo.”

 

***

 

“Da quando li conosco…” - sospirò Martha, mentre uscivano all’aria fredda del primo mattino - “Ho iniziato a capire perché Jack sia tornato da loro.”

“Io lo sapevo già, prima di conoscerli.” - replicò il Dottore, scrutando un po’ il cielo e un po’ i propri piedi - “Jack ha sempre amato tutte le cose preziose e uniche.”

“Vero. Per loro si farebbe ammazzare.” - aggiunse, con una sfumatura nella voce che il Dottore non seppe decifrare. La scrutò, indagatorio. E Martha scosse la testa.

Non occorre essere umani per essere unici e preziosi. Me lo hai insegnato tu.

E non hai mai pensato di applicarlo a te stesso.

“Andiamo.” - sospirò, intenzionata a lasciargli il braccio solo all’ultimo momento - “O farai tardi, ovunque tu debba andare.”

“No, sono in anticipo.” - rispose, controllando l’orologio, la testa china per sfruttare la luce dei lampioni.

“Meno male.” - replicò Martha, gli occhi fissi sul Tardis - “Perchè non hai ancora finito con i commiati.”

“Ti sbagli, ho salutato tutti…” - la corresse, alzando la testa. E dovendo ricredersi, all’istante, con sbalordimento - “E’ impossibile. È…”

“Paradossale?” - suggerì Martha, prontamente.

“Si! Paradossale. Ecco il termine perfetto! Paradosso!” - il Dottore si districò dal loro pseudo abbraccio e partì alla carica, bellicoso.

 

Capitan Paradosso.

 

Martha, con un sospiro, lo seguì con calma.

Intanto era inutile cercare di frenarlo.

Jack era seduto sulla base del Tardis. Ianto, in piedi, stava appoggiato contro uno spigolo e osservava il Dottore avanzare, con passo di carica.

“Mi sembra contrariato.” - commentò impassibile.

“Non sembra.” - lo corresse Jack, afferrandosi alla cabina e tirandosi in piedi - “Lo è. Ti consiglio la fuga.”

“Grazie. Non aspettavo altro.”

Ianto si mosse, con calma. Lungo la traiettoria del Dottore, fino incrociarlo e salutarlo, con un cenno del capo. Poi, con la stessa flemma, offrì il gomito a Martha e deviò verso il piccolo chiosco a lato della fontana.

“Caffè, Miss Jones?”

“Con piacere, Mister Jones.”

 

***

 

Jack si raddrizzò, sfoggiando il sorriso più bello e la posa più incurante.

“Risparmia la commedia.” - commentò il Dottore, piantandosi quasi sui suoi piedi - “Sei cocciuto, senza cervello e incredibilmente stupido.”

Jack non rispose. Ma, con un certo sforzo, si mise sull’attenti. E gli fece il saluto.

“Faccia buon viaggio, signore. Torni presto.” - E, dopo una lieve esitazione, aggiunse - “Sul serio.”

Il Dottore non disse nulla. Cosa poteva dire, del resto? Cosa, che non si fossero già detti, meno di dieci minuti prima? Cosa!

Poi, quando Jack barcollò, semplicemente, ebbe la certezza che non trovare parole non stava per silenzio… ma per gesto. E lo afferrò, per sorreggerlo. Per abbracciarlo, stretto.

“Sei e rimani un senza cervello.” - sospirò, lapidario, coronando quel trasporto nei suoi confronti con una frase di indubbia verità - “Ma devo darti ragione… in piedi sei un ricordo migliore.”

Jack rise, contro il suo cappotto, con le braccia attorno a quelle spalle troppo secche e tanto forti da sorreggere il cosmo.

“Felice di aver avuto ragione come al solito.” - ribattè, con addirittura il lusso di chiudere gli occhi per una frazione di secondo - “Non andare in cerca di vendetta, tra le stelle. E guardati le spalle, visto che non ci sarò io a farti da scudo.”

“Un motivo in più per partire. Qualcuno deve levarti queste brutte abitudini da eroe.”

“E questo qualcuno sei tu?”

“Sono sempre io.” - sospirò, a malincuore, posandogli una mano sulla nuca, in una carezza. E, poi, sulle spalle per allontanarlo - “Tu sei una mia responsabilità, Jack. Non il contrario.”

“Sicuro?”

“Sicuro.” - annuì il Dottore. Ma lo fissò comunque dritto negli occhi - “Ma, se ti fa piacere, puoi continuare a tentare di dimostrare che ho torto.”

“Lo farò, non dubitare.” - Jack annuì, con un ultimo sorriso. Alle spalle del Dottore, Ianto e Martha attendevano - “Credo sia ora che vada. C’è una signora che aspetta da ore il suo turno per abbracciarti e dire frasi sdolcinate.”

“Lo so. Ma tu non ti levi mai dai piedi…”

“Va bene, va bene, ti accontento.” - esclamò Jack, allontanandosi, zoppicando. Senza rimpianto, senza voltarsi, senza un vero ultimo saluto ma con la certezza dei suoi occhi piantati nelle scapole - “Martha, rimandalo tra le stelle e liberiamocene. Ianto…”

Ianto non disse nulla. Gli porse il caffè e si insinuò sotto il suo braccio.

“Permetti?”

“No, Ianto.” - rispose, appoggiandosi con infinito sollievo - “Imploro.”

“Sarebbe una novità. Di solito esigi.”

“Sono ferito e disorientato.” - spiegò, con tono che lasciava intendere tutto l’opposto. E bevendo il caffè non suo - “Non posso impormi su nulla.”

“Interessante prospettiva, Jack. Del tutto nuova.”

“Sei stato troppo con il Dottore, Ianto. E non ti fa bene.”

“Mi fido del suo giudizio a riguardo, signore. Bevi il caffè, Jack. È zuccherato, non può che farti bene.”

“Si, soldato Jones.” - rispose Jack, ubbidendo senza discutere. Perché anche su quello, dannazione, il Dottore aveva visto giusto. Come su parecchio di tutto il resto.

Alle loro spalle si sentì un sibilo. E si alzò una lieve brezza.

“Aspetta.” - disse Jack, fermandosi - “Guardalo.”

Lontano, controluce nell’alba, il Tardis brillava e svaniva, con un suono simile al vento tra gli alberi. E c’era una donna, di fronte alla cabina. Una donna a testa alta, con le braccia strette al corpo.

“Credevo sarebbe andata con lui.” - mormorò Ianto, fissando Martha e il Tardis, ormai evanescente.

“Non può.” - replicò Jack - “Sarebbe troppo lungo da spiegare ma Martha ha scelto.  E abbandonato le stelle.”

“E il Dottore.”

“No. Il Dottore non si abbandona mai, Ianto.” - sorrise, mentre l’ultimo alito di vento portava sino a loro il profumo della galassie e del tempo - “Nemmeno scegliendo una strada differente, nemmeno allontanandosi nel tempo e nello spazio. Per il Dottore, Martha varcherebbe le porte del tempo, fino alla fine dell’universo e ritorno. Ed io con lei.”

 

Una volta, due, tre. Fin oltre la fine e ritorno.

 

“Sai, Jack…” - mormorò Ianto, dopo un attimo - “Credo che oggi sarà una buona giornata.”

“Sicuro!” - rise il capitano, la testa alzata al cielo azzurro - “Buona quasi quanto quella di ieri, Ianto, ci puoi scommettere!”

 

Infine, quando il Tardis svanì del tutto, anche il ronzio che Jack sentiva nel petto e nel cervello si ridusse. Ma non cessò. Rimase, dolce e morbido, come l’eco di una promessa lontana.

E indimenticabile.

 

(26 febbraio 2008)