Bad Day

Seguito di Eternita’

 

 

 

I personaggi delle serie "Angel" e "Buffy, the vampire slayer", appartengono a Joss Whedon, la WB, ME e la Fox, l'autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.

Crossover con la serie televisiva Highlander. Anche in questo caso, i personaggi appartengono ai legittimi proprietari e l'autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.

 

 

E Edward, in quanto personaggio inedito,  appartiene all’autrice

 

***

 

Dedicato all'Inconscio di Chiara che sottolinea come Edward sia anche un po' suo J

 

E a Giulia, perché crede al destino che ci ha fatte conoscere.

 

Infine, un ringraziamento particolare ad Alessandra,

amica in cui l'eternità probabilmente esiste da sempre

 

***

 

Per chi non fosse molto ferrato sulla questione immortali, alcune semplici regole. Ci sono persone che nascono destinate a divenire immortali. Ma questo accade solo se si va incontro a una morte violenta. Essi sono, in tutto e per tutto simili ai vivi e sono coinvolti in un gioco che prevede l’uccisione di altri immortali mediante il taglio della testa.

Come dice la memorabile frase, ‘Alla fine ne resterà soltanto uno.’

Nel momento in cui un immortale ne uccide un altro, ha inizio la Reminiscenza, ovvero un fenomeno inspiegabile in cui parte delle conoscenze dell’ucciso viene assorbita dal vincitore. Viene, inoltre, definita Reminiscenza la percezione della vicinanza di un altro immortale.

 

*** La comprensione di questa fanfic è strettamente connessa ai capitoli

‘Tempo, ricordi e Brindisi’ ed ‘Eternità’. Presenti rimandi anche agli altri capitoli delle Cronache.

 

 

 

[PROLOGO]

In un futuro imprecisato…

 

Un urlo.

Prolungato, asessuato, informe.

 

Ed Angel si svegliò di soprassalto. Si era addormentato nell’entrata, sdraiato su uno dei divani. Stava parlando... sì, certo, stava parlando con qualcuno.

 

Ma... ma l’urlo?

Una luce si accese, nel corridoio alle sue spalle.

E la voce di Cordelia, concitata, gli diede altri particolari dell’accaduto.

 

Angel si alzò, scavalcando il tavolino e correndo verso la porta del ‘regno di Cordelia’. E aprendola, incurante della privacy violata, dei mille motivi che si hanno di urlare in una camera da letto.

“Cordy, tutto bene?” – domandò, la mano ancora stretta alla maniglia.

“Io sì…” – annuì lei, ancora seduta in mezzo alle coperte, tirando le lenzuola, fino a coprire il seno – “Ma lui…”

Già, lui…

Proteso verso un comodino, un braccio a terra per puntellarsi, l’aria stravolta.

E il telefono in mano.

“Non risponde.” – mormorò, stralunato, riattaccando – “Non risponde.”

“Chi.” – in un attimo Angel fu al suo fianco, in ginocchio, mentre il demone si raddrizzava e cercava di scendere dal letto. Pallido come un cencio, un vistoso tremito alle mani – “Doyle, chi…”

“Sei pronto a uscire, Angel?” – domandò, ignorando a sua volta la richiesta – “Dobbiamo muoverci…”

“Vado a chiamare gli altri.” – aggiunse Cordelia, scaraventando lontano le coperte e posando i piedi a terra – “Suppongo ci servirà aiuto, come al solito.”

 

“No.”

 

Era stato pronto e incredibilmente autoritario.

Tanto da far bloccare la ragazza, la bocca semiaperta, lo sguardo interrogativo.

 

“Nessun aiuto.” – aggiunse Doyle, senza smettere di puntarle un dito contro, una scarpa nell’altra mano.

 

Fermo. Improvvisamente lucido.

 

“Nessuno.” – insistette, prima di voltarsi verso Angel, ancora fermo, a lato del letto – “Soprattutto Spike.”

 

Angel, per un singolo attimo, lo fissò senza capire.

Un urlo, probabilmente una visione…

Una telefonata…

 

No, nessuno.

Soprattutto Spike.

 

Soprattutto Spike.

 

William…

 

Forse fu quella variazione nel nome, all’interno del suo pensiero a provocargli chiarezza.

 

Angel si rimise in piedi.

E Doyle gli lesse nello sguardo la comprensione necessaria. E l’apprensione.

 

“Abbiamo un innocente da salvare.” – mormorò, inumidendosi le labbra.

Aspettando che annuisse.

 

“Principessa.” – aggiunse, cercando di allacciarsi i bottoni della camicia, con quelle mani non riusciva a controllare – “Ti prego, non dire nulla agli altri... fidati di me.”

Cordelia si era infilata una vestaglietta rosa e stava giocherellando con la cintura.

Gli si avvicinò, con aria perplessa. E insinuò le dita tra le sue.

Afferrando i bottoni e cominciando a chiuderli.

“Dimmi perché.” – domandò, sentendosi vicino a un cuore forte ma molto irregolare. Ascoltando con preoccupazione quel respiro affrettato – “E’ una visione… è... è su qualcuno che conosciamo?”

Doyle la fissò, indeciso. Poi scosse la testa.

“No.” – mentì, in un soffio – “Ma riguarda un segreto... e gli altri non devono saperlo.”

 

Un segreto.

 

Così grande da stupirsi che lo sia ancora.

 

Cordelia annuì, con rassegnazione. E, un attimo dopo, con le labbra ancora umide per quel bacio frettoloso, lo guardò infilare la porta e correre, ancora semiscalzo, verso il garage.

 

***

 

Methos girò la chiave nella serratura e la porta si spalancò, sbattendo contro la parete e mancandolo di un soffio.

“E poi?”- Methos li fissò irritato, strofinandosi la testa – “Spacchiamo i vetri e rovesciamo i mobili?”

“E’ un’emergenza, Methos. Sono ore che ti sto telefonando.” – ribatté Doyle, piombando al centro della stanza. Spettinato, pallido e con una camicia abbottonata male – “Dov’è Edward?”

“Chi?” – lo sbadiglio si interruppe a metà, rischiando di soffocarlo – “Edward chi?”

Doyle lo fissò sbarrando gli occhi. Poi la pressione gli schizzò alle stelle, come può succedere solo a un demone svegliato di soprassalto nel cuore della notte da un messaggio delle Alte Sfere.

“Ti spiace svegliarti per favore?” – sbraitò, mettendo in mostra tutto il suo pessimo carattere irlandese, mentre Angel, alle sue spalle, chiudeva la porta – “Non abbiamo tempo da perdere.”

Methos lo fissò, grattandosi il lieve accenno di barba, con aria pensosa. Era arruffato, a piedi nudi, con un paio di boxer e una maglietta. Se non fosse stato per la spada che reggeva nella destra, sarebbe solo sembrato uno interrotto a metà di un giusto riposo.

“Mpfh.” – commentò, con l’aria di chi è da sempre avvezzo a sopportare gente che urla – “Caffè, Angel?”

“Non so se abbiamo il tempo.”  - rispose il vampiro, perplesso, guardando l’immortale avviarsi verso la cucina – “Doyle ha avuto una visione, Edward è in pericolo…”

“Eddy è sempre in pericolo.” – fu la pragmatica risposta. Sul passaggio aveva afferrato il cordless e stava componendo un numero – “Comunque, quando ieri è partito, stava benissimo.”

“Ieri… come sarebbe a dire ieri! Era qui?  Cosa ci faceva qui!”

“Fatti gli affari tuoi.” – ribatté l’immortale servendosi una generosa dose di caffè e continuando ad ascoltare il segnale di libero nel ricevitore – “Quanto zucchero, eroe?”

“Niente, grazie.” – rispose, senza rendersi conto di averlo fatto. E beccandosi un’occhiata omicida dalla sua Guida – “Edward era qui?”

“Ma avete problemi di udito voi due?” – chiese, puntellando il telefono contro la spalla e passando due boccali colmi di ‘discutibile brodaglia nera e americana’– “Lisie, ciao! C’è Coventry da quelle parti? No? Ok, grazie, chiamo sul cellulare.”

I due lo stavano fissando, inorriditi dalla sua tranquillità. E dal fatto che avesse appena parlato con una sconosciuta alle sei del mattino senza nemmeno scusarsi.

Sì. Pensavano persino alle buone maniere, tanto erano sbalestrati da quella inattaccabile flemma.

“Io lo ammazzo.” – bofonchiò Doyle, tirandosi i lineamenti con le mani – “Lo ammazzo.”

“Calma.” – replicò con naturalezza Methos, componendo un secondo numero e bevendo un sorso di caffè – “Mi racconti la visione, intanto?”

Angel mosse lo sguardo da uno all’altro, giocherellando con l’ascia. E sentendosi vagamente fuori luogo. In effetti, le visioni di Doyle si potevano prendere anche così... forse…

“Eddy, ciao.” – Methos rovesciò il resto del caffè nel lavandino – “No, tutto bene, che stai facendo? Così, per curiosità…”

“Chinati!” – urlò Doyle, aggrappandosi al bancone, stringendo gli occhi, prima di portarsi entrambe le mani alle tempie – “Alle tue spalle!”.

Methos lo fissò, sorpreso. La sua espressione mutò, improvvisamente, divenendo attenta. Ma non i suoi occhi. Angel ne fu quasi sorpreso, nel buttarsi in avanti per impedire a Doyle di cadere.

“Eddy, abbassati.” - Lo sentì urlare, senza soffermarsi su altre spiegazioni –“Chinati, Edward, chinati!”

Lanciò il telefono a Angel, e si precipitò verso Doyle, aiutandolo, mentre, con un tonfo, si sedeva a terra.

Dall’altra parte della linea, Angel riconobbe il rumore della colluttazione, il suono del ferro sull’osso.

 

Urla inconsulte, confusione.

 

E poi un colpo.

 

“Edward, dannazione.” – imprecò, a denti stretti - “Dimmi almeno dove sei.”

 

Alle sue parole seguì un attimo ancora di confusione.

 

Il silenzio.

 

E una fiumana di parolacce in accento britannico.

 

“Allora, eroe” - sentì ringhiare dentro il ricevitore – “Mi spieghi cosa cazzo state facendo?”

 

Bad Day

 

[I]

 

La bistecca, gelida e umida, gli colpì la contusione con suono avvilente.

“Mi accontentavo di uno straccio.” – bofonchiò Doyle, da sotto il pezzo di carne – “Sono abituato a battere la testa.”

“Lo so.” – replicò una voce caustica – “Ho sempre detto a tua madre di legarti al seggiolone da piccolo, ma non mi ha mai ascoltato. Ed ecco i risultati.”

Methos si alzò, facendo scrocchiare le articolazioni delle ginocchia. Allungò un braccio e prese il maglione con cappuccio, infilandoselo direttamente sopra l’elegante tenuta notturna.

Angel, a cavalcioni di una sedia, con un caffè appena fatto tra le mani, li guardò entrambi.

“Sai, Doyle.” – azzardò, rivolto al demone sdraiato sul divano – “E’ la prima volta che ci basta una telefonata.”

“Non diventarmi ottimista proprio adesso.” – fu la risposta – “E poi ti stai sbagliando. Se mai è la prima volta che le visioni mi danno un colpo a salve e poi la mazzata finale.”

“Come dire che hai visto due volte la stessa cosa?” – Methos tornò verso di loro, portandosi, per precauzione, la spada appresso – “Interessante. Le repliche non sono poi così male.”

“Oh, certo, ho rivisto proprio volentieri qualcuno che maciullava Edward!”

“Finché non gli tagliano la testa…” – replicò distrattamente l’immortale, ascoltando la nitida reminescenza. E la sgommata furiosa di una motocicletta nel cortile – “ed eccolo... lupus in fabula.”

Anche Angel aveva sentito il motore. E la variazione di sfumatura in Methos. Era strano, come potesse intuire la percezione reciproca in loro, pur non essendone partecipe.

Si alzò, andando verso la porta. Qualcuno stava correndo su dalle scale, con foga.

Senza aspettare, afferrò la maniglia e aprì, permettendogli, con ampio gesto del braccio, di irrompere nella stanza, secondo lo stesso schema attuato da Doyle meno di mezz’ora prima.

“Piacere di rivederti.” – commentò richiudendo l’uscio.

Edward girò su se stesso, inequivocabilmente incavolato come una bestia.

 

“Evitami battute umoristiche.” – ribatté, lasciando cadere a terra la spada e puntandogli contro un dito, con fare minaccioso. Aveva una ferita mal rimarginata sulla tempia e i pantaloni insanguinati e strappati.

“Bistecca pure tu?” – domandò Methos, apparendogli alle spalle e sollevandogli un ciuffo di capelli per valutare il danno – “Ciao Coventry, quanto tempo…”

“Ciao Eddy.” – si aggiunse una voce soffocata dal divano, interrompendo una litigata quasi certa – “E’ bello vederti tutto intero. Non pensavo mi capitasse un’altra volta.”

Edward mosse rapidamente il suo sguardo da uno all’altro, con occhi tempestosi, quasi grigi. Poi si scostò, senza commenti, ignorando Angel e Methos. E si chinò, vicino al divano, piegandosi sui talloni.

“Ciao Doyle.” - Mormorò, alzando un lembo di bistecca – “Credo di dovere a te la mia testa ancora attaccata al collo…”

“Così dicono.” – replicò il demone, sorridendogli di traverso. Aveva un grosso livido quasi formato, in mezzo alla fronte – “Tutto ok, allora?”

“Sembrerebbe.” – Edward gli sorrise, in quel suo modo indescrivibile. Per quanto contuso, o arrabbiato, Edward Coventry rimaneva sempre un balsamo per i nervi scossi. I lineamenti perfetti, l’espressione terribilmente assennata e amichevole… e poi quella luce. Quella luce che gli scaturiva dal profondo dell’animo, senza spiegazione razionale.

Doyle lo respirò quasi a pieni polmoni, beandosi di avergli salvato la vita. Almeno in parte, si intende. Palesemente, la maggior parte del lavoro l’aveva fatta Edward stesso, con la sua spada.

“Come stai?” – domandò, cercando di fare conversazione – “A parte la rissa, si intende.”

“Bene, grazie.” – rispose, educatamente, lasciandogli ricadere la bistecca sulla faccia. E voltandosi a fissare Angel. Con aria omicida – “Sto bene anche se sono stato attaccato da una decina di vampiri, di cui due con il machete, che hanno cercato di ridurmi ad un hamburger e mi hanno ammaccato il serbatoio della moto.”

“Non li ho mandati io.” – replicò Angel, aggrottando la fronte, nel trovarsi fissato da quegli occhi chiari e implacabili.

“Chissà perché quando non ti conoscevo queste cose non mi capitavano mai.”

“Suvvia, Coventry.” – si intromise Methos, mettendogli in mano un biscotto sul passaggio e andando a sedersi in poltrona – “Lascia in pace l’eroe. E’ molto sensibile in questi giorni.”

“Io non sono sensibile…”

Edward fissò il biscotto che aveva tra le mani. Uno con l’uvetta, grosso quel tanto che bastava da fargli dimenticare, per un secondo, il nervoso.

Poi alzò la testa e guardò Angel, ancora in piedi, appoggiato al tavolo, le mani in tasca.

“Non ho detto che li hai mandati tu.” – bofonchiò, morsicando il dolce e sedendosi, con un unico movimento fluido, sul bancone della cucina – “Ma non mi è piaciuto.”

“Ci credo.” – rispose il vampiro, massaggiandosi il collo, con occhi socchiusi – “Però hai ragione. Essere attaccato così potrebbe anche non essere un caso.”

“Sai che hai una brutta faccia?” – commentò il ragazzo, continuando a masticare pensosamente – “Dormi abbastanza?”

“Sono pallido perché sono un vampiro.” – replicò, sbadigliando – “E dormo quando posso, per cui…”

Si bloccò, guardandolo. Edward gli stava sorridendo, con aria bastarda. Lo stava sfottendo, in modo amabile, senza smettere di far colazione.

E Angel, dopo un attimo di sbandamento, si ritrovò a sorridere, scotendo la testa.

Era impossibile. Quasi quanto suo fratello.

“Dalla padella alla brace.” – sospirò, recuperando il suo caffè e tornando al suo posto. Poco distante, tra il divano e la poltrona, Methos e Doyle stavano parlando. Ed emanavano una tale aria di famiglia, che Angel non volle interromperli. Per tanto si girò, quel tanto che bastava da scambiare due parole con Edward.

 

Edward Coventry era una di quelle persone che ti basta incrociare una volta nella vita per sentirti già una persona fortunata. Dal loro primo incontro erano trascorsi circa cinque mesi. E, ad esser sinceri, era stato anche un inizio burrascoso, fatto più di discussioni fisiche e verbali che di chiacchierate.

Ma le colluttazioni nulla avevano tolto al reciproco rispetto.

E quando Edward era ripartito, tutto sommato, Angel si era sentito dispiaciuto.

Quel sorprendente fratello di Spike lo incuriosiva, per il modo diretto di porsi, per la sottigliezza di ragionamento, per la forza di volontà che si poteva percepire.

Sì, quel fratello di Spike era come Spike. Tutto da scoprire.                 

E, per giunta, era immortale.

Un fattore che provocava sempre, in Angel, una sensazione indescrivibile. Una sensazione simile al sollievo. Al sollievo di sapere che esistevano bellezze non destinate a sfiorire tra breve, forze capaci di travalicare il tempo senza dannazione.

Sì, l’eternità di Edward lo rassicurava.

Era un messaggio dal tempo, come un messaggio di speranza.

Chissà se su Spike avrebbe avuto lo stesso effetto?

In un certo senso Angel sperava di sì, di non sbagliarsi. Perché Spike aveva bisogno di trovare ancora qualcosa in cui credere fermamente, nel giorno in cui avesse scoperto la verità.

Una verità che, a torto, ormai gli tacevano in troppi.

 

D’improvviso, rispondendo a un’intuizione, Angel lo fissò in viso. Con un’intensità tale da obbligare Edward a ricambiare, con attenzione.

Angel era quasi la sua immagine in negativo, si sorprese a pensare. Oscuro, profondo e incomprensibile. Occhi neri d’onice, di una notte senza riflessi.

“Angel.” – disse, quasi in riconoscimento, nel ricambiare quell’occhiata.

Guardandolo esitare, prima di rispondere.

“Spike sta bene.” – disse, cercando di essere pacato. E non sentirsi fuori luogo – “Lui e Faith sono felici, tra una litigata e l’altra. Gli manchi, come sempre.”

Un’ombra passò veloce negli occhi cerulei dell’immortale. Presto diradata da un sorriso.

“Grazie.” - Mormorò, semplicemente.

E quando chinò la testa, i capelli lo incoronarono d’oro.

 

Londra, 1855

 

Il salone era come un’immensa cupola d’oro in cui i ballerini si muovevano, rilucenti.

Edward alzò le braccia e la sua dama fece altrettanto, mentre i cerchietti che portava alle braccia tintinnavano. E lei sorrideva, inarcando la testa.

Carrol era la sua più vecchia amica. Sua e di William.

Le fece un ultimo inchino, nel calar d’intensità della musica. E non si sorprese di vederla ricambiare, con l’innata eleganza della sua casta, prima di voltarsi ed avanzare verso l’angolo più appartato del salone.

La seguì, accettando il bicchiere che gli venne posto in mano. Lo sparato e la giacca gli stringevano le spalle. Ma, per uno strano miracolo, quella notte l’aria aveva un sapore dolce e privo di dolore nell’attraversargli le labbra.

Dall’altra parte del salone, Methos stava parlando con una elegante matrona. Come suo solito, aveva abbandonato le belle e educate figlie della società a favore delle madri più procaci.

Il suo gusto per la donna già sposata era quasi spudorato. E tollerato solo perché nascosto dietro alcune conversazioni sollecite e professionali.

Edward volse la testa, giusto in tempo per vedere Carrol tender le mani a William, e trarlo fuori dall’ombra.

I capelli di suo fratello, schiariti dall’ultimo sole d’estate, splendettero sotto le lampade ad acetilene e le distese infinite di candelabri. Era incredibilmente magro. E, si sorprese a pensare Edward, quasi senza tempo. Alcune rughe leggere gli circondavano gli occhi, beffandosi della giovanissima età, dei suoi vent’anni appena raggiunti.

I primi segni della mia malattia nei suoi occhi, pensò Edward, osservandolo piegare la testa, imbarazzato, con attenzione solo per l’esuberante damigella.

“Andiamo, Willie” – stava mormorando la ragazza – “Non sarò Cecily, ma ho anche io gambe per ballare. E bisogno di un cavaliere!”

“Ma, per questo…” – si difese il ragazzo, alzando gli occhi verso Edward, il quale scosse la testa.

“No, grazie.” – rispose prontamente la ragazza, senza lasciarlo intervenire – “Edward è stanco di me. Portami a ballare, Will, lasciamo che questo vecchietto si riposi.”

“Ma… come vuoi, Carrol, come vuoi.” – si arrese. Le lasciò le mani e la omaggiò di un inchino, educato e preciso – “Mi permetti l’onore?”

“Anche di pestarmi i piedi.” – rise lei, accettando il suo braccio. E sorridendo trionfante a Edward.

Non era un segreto quanto fosse innamorata di William. Non un segreto, se non per William stesso.

Ed Edward, guardandoli allontanarsi, sperò e pregò che, in un domani non troppo lontano, ritrovandosi William solo e ormai figlio unico, Carrol sapesse portarlo verso una nuova famiglia e una nuova felicità.

 

“Allora.” – esclamò, riscotendosi e fissando nuovamente Angel – “Mi vuoi dire cosa stai combinando?”

“Io niente.” – si difese, con pazienza, il vampiro - “E’ veramente colpa di Doyle.”

“Io vedo. Mica faccio.”

“Sarà. Ma sei un uccellaccio del malaugurio.” – commentò Methos, sdraiandosi sul divano e obbligandolo a sloggiare con una spintarella dei piedi. Allungò le sue gambe secche e sprofondò comodamente nei cuscini, bevendo una bella sorsata di brodaglia.

E lo chiamate caffè, brontolò, non smettendo comunque di berlo.

Doyle, nel frattempo, rimesso in piedi a forza, la stava prendendo sul personale.

“A cui si deve la bella testa di lord Coventry!” – rispose l’uomo, sbattendo la bistecca sul lavandino e guardandoli – “E non mi direte che non ho preservato un capolavoro!”

“Il capolavoro ringrazia ma gradirebbe qualche informazione.” – rispose Edward, saltando giù dal mobile e cercandosi del succo d’arancia in frigo – “Ero in città per ritirare dei pezzi di ricambio e sono ripartito quasi all’istante. Faccio in tempo ad arrivare alle porte di Los Angeles che un bel gruppo di zannuti mi salta addosso e cerca di spappolarmi mentre parlo al telefono con voi…”

“Z-zannuti?”

“Sì, certo.” – Edward bevve un sorso, riempiendone un bicchiere anche per Methos – “vi chiamate in un altro modo tra voi?”

“Vampiri?”

“Ma si, l’esperto sei tu…” – un altro sorso e un bicchiere anche per Doyle, scavalcando il disordine di casa – “Come funziona la questione delle visioni? Ancora con il principio vedo e salvo l’innocente?”

“Di solito sì.” – rispose il demone. ‘vedo e salvo l’innocente’... la definizione di sua madre – “Il problema, in questo caso, è che ti ho visto due volte di fila. E qualcosa mi sfugge…”

“Di che tipo?” – domandò, scivolando sulla poltrona rimasta libera e allungando le gambe.

“Del tipo qualcosa non mi quadra.” – mugugnò, massaggiandosi la faccia – “Ho battuto la testa, dammi tempo… c’eri tu, la moto, un vampiro con un coltellaccio…”

“Si dice machete.”

“Fa lo stesso. Intanto il vampiro ti attacca alle spalle. E tu sei al cellulare. Ti pieghi e sfili la spada… hai una spada nascosta nella moto?”

“Una spada corta.” – replicò il ragazzo, annuendo. La Harley era abbondantemente modificata. Un lavoro necessario per chi non tollerava l’idea di fuggire – “Ed ho usato quella. Poi?”

“Il resto è nebuloso. Ma tu confermi quello che ho visto, per cui…” – Doyle si interruppe.

Certo. Quella però era la seconda visione. Ma la prima, quella avuta nel suo letto, tra le braccia di Cordelia? Era stata tale e quale?

 

Doyle non si sentiva, in tutta coscienza, di poterlo garantire. Ricordava Edward colpito alle spalle, il sangue, la mano che afferrava la spada. Ma era nebbia. E anche il cellulare… ma sì, c’era un cellulare, cadeva, andava in frantumi… possibile che si trattasse della stessa visione? Perché? Perché due volte?

 

“Edward…” – domandò, soprapensiero – “hai notato qualcosa di particolare in loro?”

“Poco. Anche perché si nuclearizzano quando li stendi.” – si girò verso Angel. E con una certa qual luce maliziosa negli occhi – “Si dice nuclearizzare?”

“Dipende... Di voi immortali si dice che moriate per scissione?” – replicò il vampiro, con tono neutro.

“Sentite un po’, voi due.” – li richiamò all’ordine Methos – “E’ così che avete distrutto la mia pregiata enoteca, l’ultima volta?”

“I toni erano un po’ più sostenuti ma la sostanza non cambia.” – replicò Edward, accostando il bicchiere alle labbra e nascondendoci dentro un sorriso. Prima di tornare serio – “Comunque non avevano particolari tratti… a parte uno, ora che ci penso.”

“Del tipo?”

Edward fissò un punto indefinibile, in silenzio.

“Non sono sicuro che sia una cosa importante.” – riprese, con lentezza – “Ma credo si trattasse di una bambola. Una bambola…”

“Senz’occhi.” – lo interruppe Doyle, lo stesso guardo perso – “Una bambola di porcellana senz’occhi.”

“Esatto.” – Edward annuì, facendo coincidere le parole di Doyle alle sue - “Uno di loro aveva una bambola tatuata sul petto.”

 

Il silenzio era calato, scaturendo direttamente dall’occhiata che Doyle e Angel si stavano scambiando.

 

Doyle assimilò quell’informazione. E la obbligò a combaciare con la visione. Sì, una bambola c’era, indubbiamente.

Ma…

 

“Oh, ti prego…” – borbottò Methos, finendo di assestarsi un cuscino dietro la testa e facendo riscotere il demone da quei pensieri informi – “Ci manca solo quella rintronata…”

“Vuoi spiegare anche a me cosa sta capitando?”

“La risposta non ti piacerà per niente.”

“Nessuna risposta mi piace molto, quando si tratta di vampiri. Senza offesa, Angel.” – si sporse in avanti – “Del resto… si sta parlando della mia testa…”

“Si tratta di Drusilla.” – rispose Angel, senza curarsi che questo nome fosse privo di valore per l’immortale – “L’ho creata io…”

“La Drusilla di mio fratello?”

Angel si bloccò e lo fissò. Con attenzione.

“Credevi sul serio che non mi documentassi, Angel?” – replicò Edward, innanzi alla domanda inespressa – “Basta avere gli agganci giusti e un paio di dritte per sapere cosa cercare.”

A quelle parole, Doyle si voltò verso Methos, rimasto fino a quel momento pigramente in silenzio.

“Bravo… una nuova fuga di informazioni dal Consiglio?”

“Come se non fosse uno dei tuoi giochetti preferiti…” – ribatté l’immortale, guardandolo. E con un lampo onice nello sguardo – “mi sembrava che fossi tu quello che predicava una maggior conoscenza dei fatti…”

 

Già.

 

Doyle abbassò gli occhi e, per mascherare la sua espressione, si accostò a Angel e si accese una sigaretta.

Methos non si stava riferendo soltanto all’interesse che Edward poteva nutrire ancora per il fratello. Ma, in particolar modo, al legame tra i due. Edward e William, a quanto sembrava, condividevano ancora un futuro comune. Perché, altrimenti, incrociarsi nuovamente nella loro esistenza, in quello schema intricato di legami e conoscenze?

 

Una consapevolezza che ormai da qualche tempo, era fonte di discussione tra Doyle e Methos.

 

Perché qui? Perché ora?

 

Nei mesi successivi alla partenza di Edward,2003

 

“Te lo dico in termini più semplici.” – rispose, con garbo, Methos – “E’ una emerita scemenza.”

“Però… hai depurato il linguaggio dall’ultima volta che ne abbiamo discusso.”

“Devo pensare alla mia pressione. Non intendo farmi scoppiare un embolo urlando contro di te.”

“Potrebbe accadere?”

“Non voglio sperimentare. Birra?”

“Ovviamente.” – sospirò Doyle, chiudendo il libro con un rumore sordo – “Ma non è possibile che ti ostini a fare il tonto in questo modo. Deve significare qualcosa.”

“Ma non significa nulla.” – cantilenò l’uomo, porgendogli la bottiglia e risedendosi sullo sgabello di fronte – “Il mondo è più piccolo di quanto pensi. E io ho conosciuto i ragazzi Coventry per puro caso, nell’ottocento.”

“Certo. Hai conosciuto un ragazzo destinato a divenire immortale che, sempre per caso, ha un fratello che entra ed esce dalle leggende e dalle profezie, con anima o senza.” – Doyle bevve una sorsata potente e fece una smorfia – “Non puoi veramente credere che non significhi nulla.”

“Invece è così. Ne ho conosciuti a bizzeffe di personaggi famosi. Oppure possiamo metterla in questo modo: pur con ottiche differenti, io e Angelus abbiamo gusti simili.”

Questa era un’affermazione terrificante. Doyle lo fissò inorridito.

"Ehi, non guardarmi in quel modo. Sei tu che hai cominciato con le farneticazioni.” – Methos si tirò su le maniche e piantò i gomiti sul tavolo – “La predestinazione, i segni, il continuo intersecarsi dei destini… l’incredibile futuro che le profezie ci indicano… credimi, Francis. L’Apocalisse non è fato. E’ business.”

“E tu ne sei uno degli inventori, immagino.”

“Sì. Potremmo dire così.” – l’immortale annuì, con serietà – “Tu confidi negli eventi futuri… ma io prelevo le mie informazioni proprio dalla ciclicità della storia. E posso garantirti che nulla significa veramente qualcosa.”

Doyle abbassò gli occhi. E afferrò il pacchetto delle sigarette senza un commento.

C’era una logica inattaccabile nelle parole di Methos. Perfettamente opposta alle regole in cui Doyle credeva fermamente dalla nascita.

Anzi, così opposta da domandarsi perché sua madre avesse tenuto tanto a legarli per l’esistenza.

“Prendi mia madre…”

“Ti prego, non ricominciare!” – Methos si alzò e aprì il pensile, cominciando a tirar fuori i piatti per la cena – “Parla dei Coventry, se vuoi, ma non di tua madre e della sua solfa sul nostro predestinato incontro. Sono sempre venuto in Irlanda e ho sempre amato le rosse.”

“Dopo anni continui ad essere convinto che sia stato un caso? Incontri un cantastorie, quasi la sposi, ti sobbarchi suo figlio che un paio di decenni dopo è un cantastorie con una carriera di tutto rispetto che ti procura una Cacciatrice da seguire, cosa che non ti succedeva da… diciamo…”

“Millecentottantadue anni.”

“Davvero?”

“Davvero.” – Methos aprì un cassetto e tirò fuori le posate – “Ma va’ avanti. Non avrai pace se non finirai lo sproloquio…”

“Non una Cacciatrice a caso, ma quella che cambierà gli eventi. E che vive con Angel, il vampiro con l’anima, l’eroe delle profezie. E con Spike, l’uccisore delle Cacciatrici, colui che…”

“Fermati.” – Methos gli passò i piatti – “E apparecchia. Non voglio sentire di nuovo la questione di Spike. Risparmiamela.”

“Non vuoi sentirla perché sai che ho ragione.” – ribatté l’irlandese, saltando giù dallo sgabello e facendo il richiesto – “E perché ci porta dritti al punto. Edward e William devono incontrarsi. E quello che abbiamo fatto è stato uno sbaglio di proporzioni cosmiche.”

“Concordo sullo sbaglio, me ne frego del cosmico.” – rispose l’uomo, serafico, porgendogli i bicchieri e buttando le bistecche sulla griglia – “Non mi importa di aver sballato i calcoli cabalistici tuoi e di Whydam-Price. Sono però sempre più in disaccordo con Edward riguardo la sua scelta personale. Doveva dirlo a suo fratello.”

“Non è solo una questione affettiva, Methos.”

“Sì che lo è.” – Methos interruppe l’operazione di taglio dei pomodori e gli puntò il coltello in mezzo agli occhi – “Perché su questo sono sempre stato d’accordo con tua madre. Prima vengono le persone della nostra vita, poi tutte le altre beffe che la specie umana si è inventata per credersi sopra le leggi di natura.”

Doyle, che stava approfittandone per masticare un grissino, lo fissò, a bocca aperta.

“Edward non è una pedina nei vostri giochi.” – dichiarò Methos, tornando a massacrare le sue verdure con furia – “E’ solo un uomo che ha sbagliato per troppo amore.”

 

Troppo amore.

Tale e quale a William. Troppo amore in corpo per non esserne prima o poi vittime.

E quanto al difendere le persone della propria vita… quella sera ormai lontana, senza nemmeno rendersene del tutto conto, Methos gli aveva dato una vera dimostrazione.

L’amore acceca.

Lo sapevamo già.

Ma fino a che punto siamo noi a non voler vedere?

Doyle spostò lo sguardo, da Methos a Edward, nuovamente. L’immortale biondo si era voltato verso di loro, inglobandoli entrambi nella visuale, per discutere meglio con Angel. E, con la testa lievemente inarcata contro lo schienale, era a malapena evidente la somiglianza con il fratello.

Spike aveva le movenze del predatore, Edward era l’eleganza dello spadaccino fatta a persona. Il tratto di unione che ancora persisteva stava in quel leggero sorriso sottile con cui entrambi si facevano amabilmente beffa di Angel.

Doyle si portò la sigaretta alla bocca e nascose con le dita il sorriso involontario. Angel, con le braccia conserte e la voce perennemente pacata, accettava di buon grado il dibattito sulle conoscenze del ragazzo in campo vampirico.

“Questi giusto per farmi un’infarinatura della materia.” – stava dicendo Edward, bevendo con calma la sua spremuta – “Hai qualche altro libro da consigliarmi?”

“Direi che possono bastare.” – replicò il vampiro – “E in tutti questi testi, i vampiri sono sul serio definiti zannuti?”

“Angel, lo zannuto con l’anima.” – lo sbeffeggiò Methos. – “Non suona così male…”

Il vampiro gli lanciò un’occhiata penetrante. Methos, probabilmente, spargeva delle strane spore nell’aria. Quando c’era lui era impossibile restare focalizzati su un problema. Anche nel pieno dell’emergenza, e la loro situazione sembrava coprirne ampiamente i requisiti, la conversazione non restava sull’argomento per più di un attimo.

E anche Edward, a conti fatti, sembrava affetto da questa caratteristica.

Se non per il fatto che era un Coventry.

E quindi era nato con un certo talento per l’effetto a sorpresa.

“E adesso dimmi la tua.” – pronunciò, guardandolo dritto in faccia. Con attenzione, serio, fino in fondo agli occhi chiari – “Che tipo è Drusilla?”

Angel, per un soffio, rischiò di restare senza risposta e la bocca aperta.

“Bhe... Drusilla è…” – una pausa, per rendersi conto si essere finalmente arrivati al nocciolo della questione – “Dru è pericolosa. In tutti i sensi. E’ folle, assolutamente imprevedibile. Non sapevo nemmeno fosse tornata…”

“Sembrerebbe non essere tornata da sola, come suo solito. E’ socievole, per essere così stramba.” – commentò Methos – “E comunque non c’era stasera, al rendez-vous con Edward.”

“Se c’era una bambola, anche solo dipinta, puoi star certo che Dru non fosse lontana.” – ribatté Angel – “Il problema è un altro. Drusilla lo sa.”

“Drusilla sa cosa?”

“Sa chi sei, Edward.” – replicò, con crescente sensazione di malessere – “E questo significa solo che sei in pericolo.”

 

Ed ecco che finalmente qualcuno si era deciso a dirlo. Methos gettò un’occhiata a Angel, prima di tornare a chiudere gli occhi e a godersi il suo comodo divano.

Emise un bel respiro, a metà tra il soddisfatto e il rassegnato.

Già. Drusilla sapeva. E non era poi questa gran scoperta, se si ragionava con la testa di Doyle e del suo protetto.

 

Il fratello di Spike, di cui nessuno a rigor di logica sa l'esistenza, attaccato da un manipolo di vampiri. Chi può essere il mandante, se non qualcuno connesso con la faccenda e in grado di ottenere informazioni mediante poteri paranormali?

Drusilla, che domande.

 

Una volta escluso Doyle, infatti, la lista si assottigliava decisamente, riducendosi a quella vampira bruna e inquietante, con occhi viola e vuoti.

L'assassina di William.

E il cantastorie mancato.

“Una volta appurato questo fatto.” – commentò, senza preoccuparsi di guardarli – “Ci sarebbe da chiedersi se lo volesse vivo o morto…”

“Bell'osservazione.” – si complimentò l'interessato, prima di voltarsi nuovamente verso Angel – “Varrebbe quasi la pena di domandarglielo.”

Angel lo fissò, sorpreso. Quell’immortale era un incosciente. O forse, uno di quei rari esseri con il dono di andare dritti al punto.

“Sai che questa non è una cattiva idea?” – si intromise Doyle, dopo averci riflettuto un istante – “Andiamo a cercarla.”

“E come, puntando un dito sulla cartina?”

“No, Methos.” – ribatté, cercando di non strangolarlo – “Partendo dall'ultimo nascondiglio.”

“Ma certo… chissà perché non ci ho pensato… l’ho visto fare anche in un film poliziesco, l’altra settimana… eppure credevo avessimo appena detto che è imprevedibile…”

“Methos ha ragione.” – rispose Angel, mentre Edward si alzava e si stiracchiava – “E’ inutile cominciare a correre intorno. Cerchiamo di ragionare.”

 

***

 

“Ti giuro, Doyle, che quando ho detto ‘ragionare’ non intendevo questo…” – si scusò Angel, ancora in ginocchio sul tappeto, davanti al divano su cui l’aveva sdraiato.

“Però ha i suoi vantaggi.”- rispose il demone, aprendo un occhio e continuando a massaggiarsi la fronte – “Pensa quanto abbiamo risparmiato in neuroni e benzina…”

“Noi di sicuro. Ma parlare ancora dei tuoi neuroni come se fossero materia viva mi pare esagerato.” – ribatté Methos, seccato come suo solito, porgendogli un bicchier d'acqua. Visioni, odiava le visioni! – “Con questo fanno tre volte in meno di due ore. Non ti sembra di strafare?”

“Non me ne parlare… hai qualcosa per il mal di testa?” – Doyle si voltò. E mise a fuoco Edward, appoggiato a braccia conserte allo schienale del divano – “Lo sai che, se l’ultima volta avessi fatto quello che dicevo io, adesso avremmo la metà dei casini?”

Edward lo fissò perplesso. E poi gli sorrise, soltanto con gli occhi.

“Tranquillo.” – gli rispose, con quel suo accento appena udibile – “In quel caso, oggi mi sarei inventato qualcos'altro.”

Doyle lo fissò dritto in viso, con quei suoi incomprensibili occhi azzurri.

Sapeva che stavano tutti aspettando di sapere il contenuto della visione. Eppure si prese deliberatamente ancora un attimo, per ragionare.

E per osare.

“Dovresti dirlo tu a Spike prima che lo scopra in altro modo.” – mormorò, sentendo i passi di Methos che tornava con le aspirine. Si girò, guardando Angel – “Angel, Drusilla non resisterà alla tentazione. Lo andrà a cercare.”

“Lo so.” – replicò il vampiro, alzandosi – “Ma adesso preferirei scoprire fino a che punto sia in pericolo Eddy. Il sole sta sorgendo. Dru non cercherà Spike fino al tramonto. Cerchiamo di stanarla noi per primi.”

Doyle gli tese una mano, perché lo aiutasse a mettersi in piedi. E, pallido e barcollante, cercò di visualizzare qualche particolare.

Una strada, un’insegna, un pezzo di panorama…

“Ecco. Questo mi sembra di riconoscerlo.” – rispose Edward, dieci minuti dopo, con la cartina di fronte ed Angel a fianco – “Quel tipo di caseggiato... ci sono passato di fronte, andandomene…”

Voltò appena la testa. E fissò Angel. Erano quasi alti uguali, ma Edward provava una strana tensione a stargli accanto, quasi Angel fosse una vastità in grado di schiacciare.

Il suo corpo non emanava il freddo, eppure Edward aveva la sensazione di sentirlo comunque.

Sarebbe stato così anche con William, si fossero trovati uno a fianco dell’altro? Anche William era freddo, incredibilmente distaccato?

Quando gli occhi azzurri dell’uomo cercarono i suoi, Angel ebbe la netta impressione di poter percepire quel disagio. Un disagio senza condanna, senza ribrezzo.

Edward capiva e accettava la natura vampirica senza forma alcuna di rifiuto. Ma la conosceva anche per il suo tratto più caratteristico: l’alienità rispetto a se stesso, l’assoluta assenza di luce.

Angel, per Edward, era la non vita. E forse, considerò Angel con una punta di tristezza, era l’ottica più giusta innanzi a cui si fosse mai trovato.

“Allora comincerò da lì.” – rispose, ricambiando l’occhiata.

“Vorrai dire ‘noi’” – ribatté Edward, con un mezzo sorriso – “E, nella fattispecie, Doyle, Methos e io. E’ giorno, non vale anche per te il discorso tramonto?”

“Verrò comunque.” – solo ora, parlando con Edward, era consapevole della sua possessività nel discutere con William. Il riconoscerlo come un pari ma il voler comunque tutelarlo come se fosse un ragazzino. Solo ora, nel non poter attuare la stessa tecnica con suo fratello Edward.

Il quale lo fissò, in attesa.

“Non incontrerai Drusilla senza di me.” – aggiunse. E mosse un passo indietro – “E adesso, se non ti spiace, dobbiamo scambiare due chiacchiere in privato.”

 

***

 

“Noi facciamo altrettanto?” – domandò Doyle, guardandoli salire le scale – “Dimmi quello che pensi veramente.”

“Cosa vuoi sentirti dire, Francis?” – domandò Methos, girando la cartina e fissando il percorso che Edward aveva tracciato, a matita. Il suo tratto si mischiava a mille altri segni, su quel foglio. Era quasi una metafora della vita, dal dolce sapore della beat generation. La strada, la vita, la pace… la ricerca…

“Forse dovresti dirmi perché Edward si ostina a non voler incontrare Spike.”

“Credevo che le motivazioni ti fossero entrate in testa, a questo punto.”

“Io credo che ritrovarsi di colpo Drusilla alle calcagna dovrebbe farti capire che…”

“Mi fa capire tutto il necessario.” – Methos si raddrizzò – “Cosa vuoi, Francis? Vuoi sentirti dire che questa adesso è la mia battaglia? Che è la guerra a cui ho preparato Edward quando l’ho ammazzato? Spiacente, non è il mio campo, non è il mio gioco. Io e Edward abbiamo un altro destino, l’hai sempre saputo.”

“Non potrà ripartire, questa volta.” – ribatté Doyle, fissandolo con intensità – “Dovrà affrontare i suoi fantasmi.”

“Ti sbagli. Lui se ne andrà. Come sempre.” – replicò, con voce pacata – “Però posso garantirti che Coventry, tra i suoi scarsi difetti, ne ha uno particolarmente irritante.

Sa fare la cosa giusta.”

 

Golfo del Tonchino, 1902

 

L’aria era calda, pesante. Il sole su di loro rendeva inguardabili le lamiere della ferrovia ancora in costruzione. File ininterrotte di operai vietnamiti arrancavano sotto la luce martellante, senza un riparo.

Methos allungò pigramente le gambe, stando ben attento a restare sotto la copertura di bambù e si fece aria con il cappello. Edward, a torso nudo, aggrappato a una fune, si stava sporgendo oltre il bordo della giunca. E con le dita sfiorava il pelo dell’acqua.

Portava i capelli lunghi. E nei paesini della costa lo conoscevano come il pescatore d’oro, per quella sua chioma ribelle, per quei tratti bruciati dal sole e gli occhi di acqua liquida.

E Methos non era del tutto certo che quel soprannome gli spiacesse.

Mosse il cappello con più decisione e si tirò indietro i capelli, corti e lisci, brontolando. La camicia bianca che indossava gli si stava incollando addosso. Era scandaloso.

“Mi dici cosa trovi in questa vita, Coventry?” – il cappello smuoveva solo aria calda – “Caldo, insetti, puzza di pesce… ti stai per caso inselvatichendo?”

Edward si voltò. E gli sorrise. Appoggiò saldamente un piede e si issò, sul bordo consumato dell’imbarcazione.  Il braccio con cui reggeva la fune si tese, delineandosi di muscoli. E l’uomo, incurante dell’oscillazione anomala, protese l’altro verso il vuoto.

 

“Getto via la saggezza.” – recitò, ridendo – “ripudio il sapere.

I miei pensieri vagano nel grande vuoto.”

 

Ruotò il busto, salutando un’altra imbarcazione. E la luce lo colpì in pieno, esasperando il contrasto tra i capelli e la pelle. Gettò la testa indietro, e la sua voce scivolò sulle leggere increspature azzurre.

 

“I miei pensieri vagano nel grande vuoto. Stare sempre a pentirmi del male commesso non porterebbe il mio cuore alla pace. Getto il mio amo in un ruscello solo

ma la mia gioia è come avessi un regno.”

 

“Bella.” – si complimentò Methos, annuendo – “L’hai composta per me? Mi fa piacere vedere che conosci ancora rituali civilizzati come la scrittura…”

“No.” – ribatté l’inglese, risaltando sul ponte e cercando di capovolgere l’imbarcazione, mentre Methos si artigliava come poteva fissandolo con odio – “Chih-kang, nel terzo secolo dopo Cristo. L’hai conosciuto?”

“Assolutamente no. Mi tengo lontano dai matti, di solito.” – scrollò i piedi, cercando di liberarsi di un’alga – “Odio l’acqua. E odio le barche.”

“E sei qui per…” – lo incoraggiò Edward, incrociando le braccia e guardandolo.

“Per riportarti nel mondo evoluto. Sei sprecato in mezzo agli ami. E non mi importa se hai deciso di darti al taoismo, fai pure. Ma torna nel mondo dell’elettricità e dell’acqua corrente, per favore.”

“Non penso. E’ ancora presto.”

“No, Edward, non lo è.” – Methos lasciò cadere il cappello e si sedette – “Prima il tempio. E posso anche capirlo, la terra consacrata ha sempre una certa attrattiva. Ma questo no. Non sei al sicuro e non sei soddisfatto. Vieni via.”

Edward si voltò. Afferrò una rete e iniziò ad issarla.

“Cosa ti fa pensare che io non sia soddisfatto.” – disse, senza intonazione interrogativa. – “E’ un bel posto, la pesca è buona. E ormai so bene anche la lingua. Mi piace, qui…”

Methos si alzò e fissò una delle funi al montante, prima di aiutarlo nell’opera di recupero.

“Il tempo passa comunque, Edward, anche quando sembra fermo.” – rispose – “A questo punto dovresti averlo imparato.”

Un ultimo sforzo. E i pesci restarono a dibattersi sul fondo della giunca.

“Credi che non abbia desiderato anche io un posto in cui fermarmi, in cinquemila anni? Non posso nemmeno descriverti a parole i luoghi come questo che non esistono più. Vieni via Edward, non aggrapparti a una sola terra. Sei rimasto fuori dal gioco per fin troppo tempo. Il nostro mondo non si dimenticherà di te. E’ ora che torni in campo. Adesso basta.”

Edward alzò gli occhi. E fissò le coste verdi, la luca accecante.

Era il paradiso, così come l’aveva sempre immaginato.

Era la sua casa.

Ma Methos aveva ragione. E stava dicendo parole che nelle notti terse e soffocanti si era sentito rimbombare in testa. Era presto per scegliere la pace e l’esilio. Troppo presto.

Ed Edward annuì. Senza guardarlo, voltandogli le spalle.

“Fammi solo finire…” – mormorò, afferrando un’altra rete –“…quello che ho cominciato.”

 

“Farà ciò che deve.” – e ciò che sente di dover fare – “E io non lo fermerò, Francis, tanto vale che tu lo sappia.”

E indipendentemente da quello che penso.

 

***

 

Si erano chiusi nello studio di Methos, sul ballatoio. Ma Angel non aveva osato usurpare il posto dietro la scrivania, sotto l’arazzo bizantino. Era rimasto in piedi, appoggiandosi al pesante mobile che veniva usato come archivio.

Ed Edward si era seduto nella poltrona che riteneva sua per le lunghe volte che l’aveva occupata, in conversazioni interminabili.

“Mi preparo alla predica?” – domandò, piegando la testa e guardandolo – “Siamo arrivati al momento fatidico?”

“Però... se sai di meritartela, risparmio le parole.” – commentò Angel, appoggiando un gomito su uno dei ripiani. Si era tolto la giacca, restando semplicemente con il maglione nero – “D’altro canto, forse dovresti dirmi che intenzioni hai… visto che siamo cospiratori insieme…”

“…E che tu non sei nemmeno d’accordo.”

“Esattamente. E non mi capita spesso di fare una cosa perché obbligato da qualcun altro. Dammi una motivazione, Edward. Rinfrescami la memoria sul perché lo stiamo facendo.”

Edward non rispose. Abbassò gli occhi, fissando il bordo lucido della scrivania. Angel stava ponendo la domanda senza risposta degli ultimi mesi. Perché.

Perché fare a William una cosa del genere.

In cuor suo, Edward sapeva di avere una buona motivazione, di non volergli sconvolgere la vita, di non voler riaprire vecchie ferite. William aveva una natura diversa, una vita propria, una nuova famiglia. Ed aveva sepolto la vecchia, come era giusto, come Edward stesso, nel passato .

Aveva Angel.

Aveva Faith.

Ed Edward preferiva restare un’ombra, come Cecily, come Carrol, come i loro genitori e gli amici più cari. Nella cenere. E nelle nebbie del tempo.

Eppure, in quei pensieri, si nascondeva il dubbio. Il dubbio di fargli un torto, di non ritenerlo capace di capire, adeguarsi. Ed Edward non l’aveva mai fatto, in vita sua.

La comprensione di William innanzi a ogni cosa era un fatto assodato, quasi un dogma.

Ma, a quanto sembrava, non abbastanza da fargli rinnegare la decisione presa.

 

“La mia idea non è cambiata a riguardo.” – rispose. E tacque - “Ma posso ritrattare solo ad una condizione.”

“E sarebbe?”

“In ogni caso, voglio che lo sappia da me. Solo da me. Nessun capro espiatorio, nessuna rivelazione. Solo io.” – respirò a fondo – “E quindi, se ritieni che ci sia una seppur minima possibilità che Drusilla gli parli oggi, fai che dirlo.”

Angel rifletté, tamburellando sul laterale del mobile. E nell’anticamera del cervello gli passò l’idea di mentire e farlo correre da William, il più veloce possibile. Poi scosse la testa.

“Non è abitudine di Dru dire chiaramente le cose che scopre.” – replicò – Girerebbe intorno all’informazione… ma ritengo che William capirebbe ugualmente. Soprattutto dopo il loro ultimo scontro serio. Per poco lui e Faith non ci hanno lasciato la pelle, per colpa di una farneticazione non capita…”

Edward non batté ciglio. Ma il cuore gli si compresse, sotto lo sterno. William e Faith avevano rischiato di morire. E lui non c’era stato. Non c’era mai, nei momenti di pericolo.

“E il tempo?” – domandò – “Fino a stanotte? Ne sei sicuro?”

“Fino al tramonto.” – lo corresse Angel – “Drusilla rimane molto abitudinaria. E aggiungo che non avrebbe mai il cervello di mettersi una coperta sulla testa per attraversare la città di giorno ed essere ricevuta all’Hyperion in giardino...”

Era una visione carina. Soprattutto perché Edward aveva una vaga idea di che tipo fosse Drusilla. Ne aveva visto un dagherrotipo, emerso dai polverosi ripiani della biblioteca di Londra.

Una ragazza bruna, dallo sguardo inquietante. Non riusciva immaginarla in altra posizione che non fosse quella caratteristica delle ragazze inglesi di buona famiglia, della generazione di sua madre.

“Allora sono quasi dieci ore.” – rispose, facendo un approssimativo conto – “Direi che possiamo farcela.”

“E poi? Cosa farai? Se chiudiamo la faccenda prendi la moto e vai?”

“Qualcosa del genere. Ti manco già?”

“Da morire.” – replicò Angel, poco convinto – “William non la prenderà per niente bene…”

“Se non saprà che sono stato qui…”

“Non intendevo quello.” – rispose Angel, riafferrando la giacca e movendo un passo verso la porta – “Oggi probabilmente impaletterò Dru. Senza invitarlo. E senza potergli mai dare una buona spiegazione del perché gli ho tolto questo piacere.”

 

***

 

Cordelia disegnava fiorellini sul foglio che aveva di fronte. E sopportava, con pazienza, gli sproloqui bugiardi del suo demone.

“Fammi capire.” – lo interruppe, all’ennesima spiegazione falsa – “Non posso sapere dove sei, cioè a casa Pierson, e non posso sapere dove andrai perché intanto sarebbe una cosa da nulla per cui non ti serve nemmeno venire a casa a prendere le armi?”

“Esattamente.”

“Allora passami Methos.”

“Come scusa?”

“Mi hai capito benissimo, Francis Allen Doyle.” – scandì, socchiudendo gli occhi e trasformando il fiorellino disegnato in un istrice – “Voglio parlare con Methos. Subito.”

Doyle abbassò il cellulare. E poi lo tese all’uomo.

“Mi spiace.” – mormorò – “Non ho saputo salvarti.”

“Cordelia ciao.” – ribatté con naturalezza l’immortale, afferrando l’apparecchio – “Io proprio non capisco come fai a sopportarlo. E’ un insulto alla tua intelligenza.”

“E mi auguro che tu non sia complice.” – ribatté implacabile la ragazza – “Mi dici cosa sta succedendo? E dove è Angel?”

“Di sopra… sta racimolando informazioni…” – replicò, vago – “tranquilla, è una cosa da nulla. Talmente vecchia da non essere più nemmeno attuale.”

Alzò gli occhi, vedendo Edward scendere le scale. E si portò un dito alle labbra.

“Ma no, Cordelia.” – rispose, con naturalezza, ascoltando le recriminazioni – “Posso passartelo eccome. Vado subito a cercarlo...”

Angel era alle spalle di Edward. E, quando il ragazzo si voltò, ne intravide l’espressione da martire con cui prese il testimone.

“Cordy, ciao.”

Silenzio. A una signora che sbraita bisogna dare spazio e tempo.

“Posso garantirtelo. Senti, c’è Faith nei paraggi?”

No, Faith non c’era.

E Spike dormiva.

C’era Wes, però.

“Allora passamelo.” – replicò, sollevato all’idea di liberarsi di lei.

“Angel?” – il tono di Westley era così pacato da fargli venir voglia di piangere – “Serve qualcosa?”

“Non ne sono sicuro.” – rispose – “Ho bisogno un favore. E non allarmare nessuno da quelle parti. Ho bisogno che tu faccia una verifica dell’attività demoniaca.”

“In… in che senso?”

“Vampiri.” – fece una pausa – “Tu e Cordelia stimate se ci sono segni di un aumento dei casi sospetti. Ho bisogno di sapere se c’è qualche sconvolgimento gerarchico in corso.”

“Non hai altri indizi?”

“No. Anche se uno…” – si interruppe, indeciso – “No, nessun altro segno. Ma potrebbero ritenersi un clan, una corte, provenire da fuori Los Angeles. Indagate. Mi faccio vivo il prima possibile.”

Doyle schioccò le dita, attirando la sua attenzione.

“I fascicoli dell’East Protomac.” – sussurrò, guardandolo.

Angel annuì. Il caso Protomac, dal nome della vecchia fabbrica in cui si radunavano alcune famiglie, era stato un rompicapo nelle ultime settimane. Uno dei clan meglio radicati della città stava arretrando e lasciando libere ampie fasce di territorio. Il capostipite sembrava essere morto in un incendio. Avevano rinvenuto solo un paio di coltelli, conficcati in un seggio metallico e annerito. Conficcati all’altezza degli occhi.

Faith aveva stanato un buon numero di adepti, ma non aveva saputo racimolare informazioni sicure.

Qualcuno stava subentrando al controllo. E questo non era un motivo di buonumore per la Cacciatrice.

Poteva esserci una connessione.

“Spero solo di non impantanarmi con la W&H.”

“Non credo ti succederà.” – rispose il vampiro, poco convinto. Poteva confidare che almeno gli affari personali di Drusilla con Spike fossero rimasti tali – “Prendilo come un lavoro d’ufficio. Nessuna spedizione punitiva fino al mio ritorno. Sto seguendo una pista, non dobbiamo intralciarci a vicenda.”

“Su questo son d’accordo.” – Wes alzò gli occhi, mentre Cordelia chiudeva con veemenza un cassetto – “Posso fare altro?”

“No. Ci sentiamo dopo.” – chiuse la comunicazione e restituì il cellulare a Doyle.

“Andiamo.”

 

***

 

Andare…

In meno di una notte, la sua vita sembrava aver preso una certa accelerazione. Dopo mesi di assoluta normalità, turbata solo da incubi intensi che lo facevano sobbalzare e afferrare il cellulare, con il desiderio di risolvere il problema, Edward si ritrovava un’altra volta nelle grinfie di Angel, il vampiro con l’anima.

Angel… parlare di grinfie non gli faceva onore. Era un eroe, in tutto e per tutto, dalla prima all’ultima parola. Fino all’ultima scelta personale.

O imposizione, in base all’ottica da cui lo si osservava.

Edward sospirò, allungando le gambe e giocherellando con il cambio. Seduto nella macchina di Methos, impegnato a mettersi e togliersi gli occhiali da sole, respirava un attimo di vera solitudine. Pura, semplice e assolutamente terrificante, visti i pensieri che gli affollavano la mente.

 

William.                                                                  

E Drusilla.

 

Drusilla… la sola possibilità di incontrarla gli provocava un certa tensione. E non perché, molto probabilmente, la vampira in questione puntava alla sua testa. Bensì perché, una volta ottenuta, l’avrebbe spedita a William dentro un cestino.

 

E addio alla segretezza esasperata con cui stavano agendo.

 

Umorismo nero.

Era così avvilito da dedicarsi all’umorismo nero.

 

Sospirò e stiracchiò le braccia, guardando il tettuccio. A quel punto, Angel doveva essere nei paraggi. E Methos con lui, disposto a tutto pur di non sorbirsi tutte le sue paranoie.

“Sono affari tuoi.” – era stata la risposta quasi testuale, nel lasciargli la macchina – “Io ti aiuto a restare vivo. Per il resto arrangiati.”

 

Bell’amico. Veramente un bell’amico.

 

Cento metri più in là, appoggiato ad un palo, indeciso su come comportarsi e alla sua terza sigaretta in un quarto d’ora, c’era Doyle.

Edward gli gettò una nuova occhiata, aggiustando lo specchietto. E tirando nuovamente su gli occhiali, per guardarsi meglio.

Negli ultimi mesi si era spesso domandato quanto gli potesse assomigliare William, a questo punto. Le occhiate di Doyle e quelle meno evidenti di Angel gli sussurravano che tra loro sussisteva ancora una reale parentela. Qualcosa, un filo che li univa... un filo che Edward, con tutta l’anima, stava cercando.

 

Oh, William… per quanto mi sforzi, per quanto mi aggrappi a tutto ciò che so di te, nel presente e nel passato… non ti percepisco.

Non ti sento, William.

Non posso sentirti… non so più chi tu sia…

 

So solo che…

 

Edward chiuse gli occhi, respirando a fondo.

Non so nulla. Se non che ho dannatamente paura.

 

L.A., circa cinque mesi prima.

 

Aveva frenato.  E si era levato la maglietta, prima ancora di scendere. Poi le scarpe, le calze, la cintura.

E si era tuffato, dimenticando all’istante la sensazione della sabbia rovente sotto i piedi.

 

L’acqua dell’oceano gli era penetrata fin nell’anima. Ma Edward aveva continuato a nuotare, furibondo, fino alla scogliera. E si era issato a braccia, ansimando e tossendo, sentendo i polmoni a un passo dallo scoppiargli.

Si era sdraiato, chiudendo gli occhi, lasciando che il vento inesorabile gli raffreddasse la pelle.

E aveva fissato quel sole pallido, celato dalle nuvole. Respirando, respirando piano.

William… William aveva sempre amato il cielo in tempesta.

Si era girato sul fianco, tossendo ancora, cercando di scacciare quell’immagine che credeva in polvere.

William, con il vento gelido che gli incurvava le spalle e lo faceva comunque sorridere.

In ginocchio, lo sguardo volto verso la Francia, le mani immerse nell’acqua della Manica, l’espressione di chi prova a vedere oltre le sue possibilità.

“Non amerò mai più nulla come questo cielo.” – aveva detto, respirando a fondo il profumo della salsedine.

Mai più nulla come questo cielo.

Questo cielo…

 

Edward aveva spalancato gli occhi, guardando le nubi muoversi rapide sopra di lui. E si era reso conto che quello era un giorno pieno della luce argentea che William non avrebbe mai più visto.

Un pugno contro lo scoglio, sentendo le nocche lacerarsi.

 

William, che amava il sole all’alba e le nubi nere fatte di luce.

William, che nella sua vita cercava soltanto una strada da percorrere senza doversi nascondere.

Senza ombre.

 

Le onde si infrangevano intorno a Edward.

A Edward, che spalancava le braccia inarcando la schiena e urlava, con quanto fiato l’eternità gli aveva lasciato in corpo.

 

Il cellulare stava suonando.

Ed Edward rispose, senza aprire gli occhi.

“Coventry.” – sospirò, tornando a concentrarsi sulla loro missione.

“Sai…” – esordì Doyle, guardando il fuoristrada – “Ho pensato che dovremmo farci compagnia…”

Edward sorrise, divertito.

Non è male come idea, commentò, guardando, nello specchietto, la figura sottile e trasandata, sempre appoggiata al lampione.

“Vedi?” – Doyle piegò la testa, immaginando di vederlo in faccia – “So essere molto perspicace…”

“Sono d’accordo…”

“Bene. Di cosa vuoi parlare?”

Edward abbassò la testa. E fissò la mano, stranamente stretta all’impugnatura della spada. Aveva le nocche quasi bianche.

“Edward…”

“Doyle…” – si interruppe. E cercò disperatamente una sciocchezza da dire – “io…”

“Edward… smettila e chiedimelo.”

L’aveva detto con calma. E con quel tono incredibilmente dolce e involontario con cui apostrofava le persone. Una caratteristica che non aveva preso da sua madre. Ma dal suo imprevedibile patrigno.

Edward rise piano.  

E si domandò se, dopotutto, non fosse il momento di concedersi un’occasione.

“Ok…” – respirò a fondo – “Comincio a caso… Musica che ascolta?”

 

***

 

Appostarsi intorno a una vecchia fabbrica dismessa può essere snervante. Soprattutto per un vampiro costretto a camminare per le fognature. E per l’immortale impaziente che lo accompagna.

Come per il demone irlandese che fa il palo in strada. O lo spadaccino biondo che sorveglia la seconda entrata parlandogli al telefono. E guardandolo, nello specchietto retrovisore del fuori strada.

“Lo so, Doyle.” – rispose, pazientemente – “Miro al cuore... ho un paletto, certo. Ne ho trovato uno nel cruscotto. Oppure stacco le teste. Sono bravo a staccare teste…”

“Fai meno lo spiritoso, è una cosa seria.”

“Non farmi la predica.” – ribatté, mettendosi gli occhiali da sole – “Sono io quello più vecchio tra noi. Anche se non sembra.”

“Stai dicendo che dimostro più della mia età? Che sembro vecchio?”

“Non tutti possono portarsi bene come me.” – sorrise. Poi si raddrizzò – “L’ho visto, è passato un’altra volta.”

“Quindi avevo ragione. Fanno la guardia.” – abbassò gli occhi, cercando di guardare sotto il cemento – “Dove saranno quei due…”

“Non vicini. Me ne accorgerei, credimi.”

“Da che distanza puoi sentirlo?”

“Una ventina di metri, al massimo.” – Edward seguì di nuovo l’ombra dietro i vetri anneriti. E poi il movimento nello spazio circostante, aggrottando la fronte – “Devo farti una domanda però...”

“Del tipo?”

“Ho visto un bel film sui vampiri…”

“Davvero?”

“Sì. Blade.” – piegò la testa, guardando meglio. Sembrava che anche la vedetta si fosse distratta – “Hai presente?”

“Un grosso tizio, armato come Rambo, che massacra tutti perché non è né uomo né vampiro? Si, ho presente... ma in media cerco di non vedere la vita di tutti i giorni sul grande schermo…”

“Capisco.” – Edward aprì la portiera e allungò una mano per afferrare la spada – “E dimmi, la questione di mettersi la tuta da moto ed essere protetti dai raggi del sole? E’ possibile?”

“No, non credo... oddio, non abbiamo mai provato… ”

“Allora il motociclista con la balestra, in fondo alla strada, è dei nostri?”

“Scusa?”

 

C’era una moto nera in fondo alla strada. Una moto sportiva, da corsa. E il tizio che la guidava, inguainato nella pelle, con un casco integrale, portava una spada sulla schiena. E stava armando un balestrino manesco. Aveva qualcosa che luccicava, sulle braccia, quasi dei bracciali da guerra.

E il casco aerografato, in argento.

Era un novello cavaliere, pronto alla carica.

 

“La moto, Doyle!” – aggiunse Edward, saltando giù dalla macchina e infilandosi il paletto nella tasca dei jeans – “Quella che sta impennando per sfondare il portone principale!”

 

Il centauro in nero aveva fatto una bella inversione e preso la rincorsa. E Doyle, scapicollandosi come un pazzo per raggiungere Edward, ebbe solo una fuggevole visione di vetri e lamiera che partivano in ogni direzione al suo passaggio.

Un paio di vampiri sbucarono in strada, quando la moto atterrò all’interno del capannone. E finirono cenere con urla atroci.

 

Per Edward era abbastanza. Sfilò la spada dal fodero e cominciò a correre.

 

“Prendi la jeep.” – urlò, lanciando le chiavi al demone. Le vertigini lo colsero, dilatandogli le pupille – “Methos non è lontano. Andiamo.”

“Ehi, andiamo dove!” – urlò Doyle, alle sue spalle.

“Secondo te?” – ribatté Edward, saltando il muretto e sparendo nel buio del magazzino.

 

***

 

Il capannone era una distesa sconfinata e pressoché vuota. Pochi mobili, raggruppati a simulare salotti, stanze, enormi saloni in cui erano addirittura stati appesi vecchi lampadari stracarichi di candele accese e gocciolanti. Una raccapricciante decadenza, resa ancora più macabra dalle gabbie e dalle catene annerite che pendevano dai soffitti.

Edward saltò oltre la moto, sdraiata al centro di una rampa di carico. E planò nella mischia.

Il motociclista solitario sembrava sapere il fatto suo e stava atterrando una vampira rossa di capelli come se niente fosse. Un colpo per stenderla e uno per polverizzarla.

Edward cercò di raggiungerlo, mentre prendeva la rincorsa e, con velocità inaudita, saltava e si aggrappava a una delle catene, passando sopra le teste dei suoi assalitori.

Sotto lo sguardo ammirato di Edward, impegnato nella miglior arte del corpo a corpo, si sfilò il casco e lo usò come arma impropria, per frantumare una mascella.

 

A quel punto, ormai a volto scoperto, il motociclista si rivelò essere una furia bruna dalla fisionomia conosciuta. I capelli scuri presero vita propria nello spargersi sulla schiena fasciata nella pelle. E quando si voltò, Edward ebbe l’agghiacciante certezza di essere fottuto.

 

Nello stesso momento, Angel aprì la botola ed emerse nel buio ostinato della vecchia fabbrica. E non impiegò molto a sentire odore di sangue e fumo, mentre un arto staccato volava oltre la sua testa.

“Combattono senza di noi.” – borbottò, risentito, saltando fuori e segando prontamente un malcapitato che lo stava per aggredire – “Mai una volta che mi aspettino!”

“Oh, certo, che affronto!” – commentò Methos, apparendogli alle spalle, con la spada già in pugno. Giusto in tempo per sentire l’orribile frastuono provocato dalla sua macchina che spalancava il doppio portone di carico.

I fari andarono in frantumi e Methos ebbe la terrificante visione del parabrezza che si crepava.

“Questa me la paghi.” – ringhiò, guardando il suo fuoristrada frenare – “Aspetta che ti abbia tra le mani…”

Non gli importava nemmeno verificare chi lo stesse guidando. Ne aveva la certezza matematica. Girò su se stesso e si sfogò su un paio di vampiri. Pochi metri oltre, c’era Edward che menava le mani di santa ragione. Ed Angel, impegnato a fare altrettanto.

 

“Non dovevi aspettare il mio segnale?” - stava urlando il vampiro bruno, battendo assieme due teste.

“Lo avrei fatto.” – ribatté l’immortale, mentre schivava per un soffio il lancio di una sedia – “Ma sono corso ad aiutare un kamikaze in motocicletta.”

“Come?”

“Diciamo che ti sei dimenticato qualcuno.” – ringhiò Edward, passandogli a fianco e arrivando in scivolata a tranciare un paio di colli.

Angel girò su se stesso, giusto in tempo per vedere la ragazza sorridergli. E scuotere il casco come saluto.

“Oh, no.” – gemette. Faith era la sua personale particella impazzita. Era stato così focalizzato su Drusilla da non considerare la libera e incontrollata attività della sua Cacciatrice.

“Lei ti conosce?” – domandò, stupidamente, afferrandolo per il maglione e tirandoselo addosso per non vederlo squartato – “Sa di te?”

“Sa che sono un amico di Methos.” – ribatté il ragazzo, ricambiando il favore nel trafiggere il demone alle sue spalle – “E sa che ci siamo battuti, l’ultima volta.”

“Vattene, allora.”

“Scusa?”

“Vattene Eddy.” – Angel lasciò la presa, ma cercò di voltarsi per parlargli guardandolo in viso, sopra la mischia – “Vattene. Vuoi che resti un segreto, no?”

“Non scappo.” – replicò iniziando a sentirgli salire un sano nervoso. E uccidendone un altro. Sembravano infiniti – “Avete bisogno una mano.”

“Scordatelo.” – il vampiro si voltò. E urlò – “Faith, il lampadario.”

La Cacciatrice alzò gli occhi verso le enormi intelaiature di ottone e cristallo, ormai grondanti di cera bollente.

E annuì, correndo verso gli estremi del magazzino, sfilandosi la spada dalle spalle.

Edward corse nella direzione opposta e diede un colpo netto alla fune, facendo scattare il meccanismo con rumore sordo.

Uno dei lampadari precipitò, schiacciando almeno una decina di esseri e incendiandoli.

Angel, per un soffio, rotolò fuori dalla mischia, mettendosi al riparo.

“Levati di lì.” – gli stava urlando Faith. – “Faccio saltare i pannelli.”

“Cos…” – Doyle vide il braccio di Faith compiere un arco perfetto, mentre con la sinistra si afferrava saldamente alla fune.

Il lampadario, cadendo, fece da contrappeso, proiettando la Cacciatrice verso l’alto. La quale, approfittando dell’effetto balestra, sfondò il lucernaio, prima di cadere, con precisione matematica, su uno dei ballatoi.

La luce calda del mattino inondò lo spazio antistante e fece piazza pulita dei vampiri. Angel, rifugiatosi in una zona ancora protetta, continuò il suo raccolto, come si addiceva all’Angelo della morte.

Methos, a cavalcioni della botola, una delle poche via di fuga rimaste, fece altrettanto.

Faith li osservò dall’alto, prendendo fiato. E fu allora che lo vide.

 

“Ti è mai successo di incontrare qualcuno a cui si addica il termine ‘ rifulgente’?”

 

C’era uno sconosciuto che si stava battendo, come un leone. Un ragazzo biondo.

 

Alzò lo sguardo, registrando l’alta figura.

Aveva occhi chiari, una corona di riccioli biondi a stento trattenuti dagli occhiali da sole….

Solo per un istante, soffermandosi sugli occhi e sullo sguardo con cui ricambiava,

 si sentì percorrere da un brivido.

 

Lo spadaccino, ma certo!

 

Quel ragazzo era parte di Angel, adesso.

Parte dei suoi enigmi, parte della sua moralità, parte del suo mondo.

 

Il bellissimo sconosciuto che aveva dato tanto filo da torcere a Angel.

 

Non puoi più nulla, adesso. Non potrai più fuggire da questa consapevolezza, e lo sai.

Sai di Angel. Sai chi è, cosa può fare.

Sai cosa significa combattere contro di lui e perdere. Sai cosa significa conoscerlo.

Non potrai più sfuggire a questo onore…

 

Lo fissò, sbalordita, domandandosi come fosse arrivato in quel covo di dannati. Poi percorse la lunga pedana metallica, facendola cigolare. E saltò giù, atterrando come un gatto, non molto lontano da dove Edward si stava ancora battendo.

Si raddrizzò e polverizzò uno degli ultimi vampiri ancora in vena di attaccar briga. L’immortale biondo era in gamba, si difendeva bene, combattendo contro due energumeni in contemporanea. Soprattutto uno sembrava essere di suo gradimento, più antico, maggiormente esperto di scherma.

 

Faith continuò a fissarlo, ipnotizzata. Quel ragazzo aveva un leggero sorriso divertito, mentre lottava. E una fiamma inspiegabile dentro gli occhi azzurri.

 

Cosa aveva detto Angel quella notte?

 

Era un guerriero, Faith, non sono poi così comuni.

 

Già... lo aveva compreso anche lei, allora, con una semplice irriverente occhiata. Quel ragazzo era ben più di un immortale, di un vecchio amico di Methos, di un nemico-amico di Angel. Da quel giovane uomo scaturiva una forza fatta d’onore e carisma.

 

Faith sorrise, divertita. A modo suo sapeva che si sarebbero rivisti, prima o poi. L’aveva intuito nello stesso attimo in cui si erano salutati.

“Ehi, che ci fai qui?” – urlò Doyle, assordandola, finalmente a piedi, dopo aver investito tutti quelli che riusciva con la macchina di Methos. Affiancandola, mentre l’attaccavano in tre – “Faith, come ci sei arrivata?”

“Dovresti fidarti di più dei miei agganci.” – rispose la Cacciatrice, impalettandone un paio con la stessa asta mentre il demone si liberava dell'ultimo – “E tu? Ti è servita una visione?”

“Non una sola.” – specificò Methos, comparendo alle loro spalle. Si era tolto il giaccone e arrotolato le maniche. Per lui i massacri si affrontavano come le pulizie di primavera. Con metodo e pazienza.

“Metti i brividi.” – commentò Doyle, guardandolo mentre puliva la spada. E accendendosi una sigaretta – “Come hai fatto a insanguinarti?”

“Sono volato in dispensa.” – commentò, continuando a pulire la lama in un drappo prelevato dai divani – “Ciao Faith, che ci fai qui?”

“Che ci fate voi qui.” – replicò lei, incrociando le braccia e indicando Edward con il mento – “E cosa ci fa quello, soprattutto!”

“Prego!” – urlò Angel, spezzando vertebre a piene mani e guardando i tre, impegnati a conversare a bordo campo – “Non sentitevi in dovere di dare una mano!”

“Ma se ve la cavate benissimo!” – Methos si appoggiò alla spada, puntandola a terra – “Faith, ti ricordi il mio amico Eddy?”

“Direi proprio di sì.”

“Eddy, saluta Faith!” – urlò l’immortale, mettendo una mano a lato della bocca. Si divertiva come un pazzo a vedere lord Edward Coventry in difficoltà. E soprattutto a provocarlo, consapevole che, al momento, avesse le mani occupate.

 

Edward si voltò, fissandolo con occhiata omicida, descrivendo un ultimo arco perfetto con la spada. E obbligando Angel a fare un balzo indietro per schivarlo.

“Ah, scusami.” – disse, mentre il vampiro constatava di avere un bello strappo nella camicia, all’altezza del torace – “Non ti avevo visto.”

“E meno male che non sono una spanna più basso.” – commentò il vampiro, passandosi significativamente una mano sul collo. Edward lo squadrò, riprendendo fiato, ed Angel si sentì in dovere di dirgli qualcosa – “Edward, senti…”

“Lascia stare.” – borbottò il ragazzo, con un cenno di sopportazione – “A questo punto…”

Angel richiuse la bocca, mentre lo osservava allontanarsi e marciare verso la ragazza, con una mano tesa.

In effetti, solo ora, riflettendo, si rendeva conto di non aver chiesto a Cordelia dove fosse Faith... non dove fosse andata.

 

Bello sbaglio. Bravo Angel. Tonto come dice Spike.

 

“Ciao, Faith.” – disse Edward, arrivandole di fronte, con l’innegabile savoir faire di altri tempi – “Piacere di rivederti.”

“Ciao... Eddy, giusto?” – replicò, ricambiando la stretta e domandandosi se era d’obbligo fratturargli due dita. Era bello, gentile e avevano combattuto insieme… ma Spike lo odiava… parlava con Angel come se fossero vecchi amici… ma Spike lo odiava... era…

 

Insomma, un bel problema per una ragazza di chiari e pochi principi basilari.

 

Soprattutto perché Faith sentiva di essere scesa a parecchi compromessi negli ultimi anni, tra crisi personali, redenzioni, osservatori, famiglie, vampiri da combattere e da amare. E non saltava di gioia all’idea di apprezzare tanto uno sconosciuto verso cui Spike era tanto prevenuto.

Per tanto, pensò di rivolgersi alla fonte di ogni sua garanzia.

“Ciao, Angel.”  - disse soave, vedendolo finalmente avvicinarsi, impegnato a scrollare la cenere dalla giacca – “E’ per lui che non hai chiamato nessuno di noi a divertirsi?”

“No.” – rispose il vampiro, infilando le mani sotto le ascelle e sovrastandola come suo solito – “Non ho chiamato perché non mi serviva aiuto. E tu? Come mai qui sola?”

“Era una giornata fiacca.” – replicò, con una leggera alzata di spalle – “Mi annoiavo. Allora, cosa stiamo cercando?”

“Perché pensi che stiamo cercando qualcosa?”

“Andiamo, Doyle.” – gli sorrise, divertita – “Passi trovare qui te ed Angel. Ma il mio osservatore in carica, famoso per il suo stare cronicamente sdraiato sul divano, e il suo pupillo biondo dai mille misteri…”

“Non sono il pupillo di nessuno.”

“Men che meno il mio.”

“Però, che sintonia…” – si complimentò la Cacciatrice. Poi tornò a focalizzarsi su Angel – “allora, uniamo gli sforzi?”

“Tu cosa sai?” – chiese Angel, recuperando nel frattempo l’arma che aveva lasciato cadere. E spostandosi nell’ombra, mentre un’altra parte di lucernaio precipitava a terra – “Come non detto. Consiglio la ritirata.”

“Appuntamento a casa mia. Ah, Faith, sei ovviamente invitata.” – Methos afferrò Doyle per la collottola – “Vieni, ragazzo mio. Dobbiamo parlare della mia macchina. Ce l’hai un’assicurazione?”

“Io vado a piedi.” – disse Angel, incamminandosi – “Ci vediamo dopo.”

 

Erano rimasti solo loro due. Uno di fronte all'altro. Ed Edward sospettava che si trattasse di una maligna rappresaglia dei suoi compagni di avventura.

Hai voluto la bicicletta? Pedala, Coventry, pedala!

“Ti aiuto con la moto.” – disse, rompendo il silenzio, in lieve imbarazzo.

“Grazie.” – replicò la ragazza. Si incamminarono insieme e Faith, sul passaggio, raccolse il casco. E imprecò, sottovoce – “Graffiato e ammaccato... che idiota che sono…”

“Bello.” – si complimentò comunque l’immortale. Era aerografato in argento. Una coppia di draghi sottili e sinuosi, intrecciati.

“E' un’idea del mio uomo.” – replicò lei, con noncuranza. Poi gli gettò un’occhiata, in tralice – “Quello a cui hai piantato il coltello nello stomaco... il vampiro biondo…”

Edward si fermò. E una strana sensazione gli si propagò, nel torace, simile ad una fitta.

Una fitta del tempo perduto.

 

Londra, 1857

 

“Che ne pensi di questo?”- domandò William, passandogli un altro libro.

“Non so” - Edward sfogliò alcune pagine, perplesso – “Non sono certo che le aquile mi piacciano sul serio.”

“Allora siamo in due.” - sospirò il ragazzo, levandosi gli occhiali e strofinandosi gli occhi.

“Di nuovo mal di testa?” – domandò Edward, posando il testo e voltandosi. Erano seduti al centro del letto, in mezzo a libri e schizzi.

“Già…” – mugugnò, nascondendo malamente uno sbadiglio – “scusami.”

“Leggi troppo… e dormi poco.” – sospirò, allungando un braccio – “Vieni qui. E smettiamo per stasera.”

William si avvicinò. E gli posò la testa sulla spalla, con un sospiro. Era piacevole starsene sdraiati, nella quiete della casa vuota. La servitù dormiva, i loro genitori erano a uno dei tanti ricevimenti della stagione londinese.

Un supplizio da cui, per una volta tanto, erano dispensati. E con una buona motivazione.

L’ultimo attacco di Edward non era stato dei migliori. Ed anche se ora iniziava a riprendersi, in società si iniziava a chiacchierare.

Edward Coventry, così giovane e promettente…

Sì, William strinse le labbra, risentito. Si parlava già di lui come di un caro estinto.

Eppure il suo corpo era ancora caldo e dannatamente vivo.

“A che pensi.” – sussurrò Edward, piegando la testa e posando la guancia sui suoi capelli – “Non dovresti crucciarti tanto, Willie. E’ solo un intarsio. A papà piacerà qualunque cosa scegliamo. Anche un maialino con le ali.”

William si lasciò sfuggire una mezza risata.

“Non sarebbe male come idea.” – commentò –“Un maialino con le ali… chissà cosa direbbero i suoi amici, a vederlo esposto sul camino, nello studio.”

“Magari in sala da pranzo.” – ridacchiò Edward – “Una bella coppa in cristallo sorretta da due maialini con le ali…”

“Due?”

“Bhe… noi siamo due.” – considerò, guardandolo con quegli occhi chiari falsamente seri – “Non stavamo cercando qualcosa di allegorico?”

William gli sorrise appena. la sua bocca si inarcò leggermente, mettendo in vista una fila di denti bianchi e perfetti.

“In tal caso.” – rispose, con lo sguardo brillante – “Per restare in tema di ali, suggerisco un bel falco ad ali spiegate e un gufo appollaiato.”

“Uniti come bellezza e saggezza?”- chiese Edward, con una punta di dolcezza.

“Oppure come il coraggio di vivere la vita.” – replicò, senza osare più guardarlo, tornando a posargli il viso alla spalla – “E il restare fermi in un solo posto, in semplice attesa.”

“E’ così che ti senti, William?”

“Talvolta…” – si interruppe. E il male al petto divenne incontrollabile. William si raddrizzò, scacciando quel dolore. La morte coglieva la vita in pieno volo… – "Torniamo al nostro pezzo d'argenteria…."

Edward lo guardò allontanarsi. E lasciò ricadere il braccio, appoggiando la nuca al muro alle sue spalle.

William, così pieno di problemi… e così poco tempo per aiutarlo ancora a trovare risposte…

“Willie…” – lo chiamò, abbassando gli occhi verso la confusione sparsa tra le coperte – “Avrei appena avuto un'idea…”

“Davvero? Una coppia di castori?”

“No. Meglio.” - Allungò le dita, afferrando un libro rilegato, finito per sbaglio tra gli altri. Un romanzo cavalleresco, ennesima lettura di suo fratello – “Due draghi.”

“Due draghi?”

“Come quelli di Britannia.” – rispose, aprendo e sfogliando le pagine, fino a trovare l’immagine. Due draghi in lotta, uno proteso verso l‘altro – “Due draghi combattenti.”

Si voltò, guardandolo. In attesa.                                                           

 

Due draghi in eterna lotta, eternamente insieme.

 

Uno riflesso dell’altro, parte di uno stesso inspiegabile destino.

 

“Due draghi…due draghi d’argento…” – ripeté William, piegandosi ad afferrare il libro. E illuminandosi – “Mi piace, Edward. Mi piace sul serio…”

 

“Ho presente.” – rispose, neutro, chinandosi a ispezionare la moto. E afferrandola per il manubrio, raddrizzandola – “Spike... giusto?”

“Giusto.” – sorrise, piegando la testa – “Mi risulta che non andiate d’accordo, voi due.”

“Non lo so.” – prese fiato, cercando la forza di continuare a parlare – “Non lo conosco abbastanza.”

“Si può sempre rimediare.”

“Forse.” – la forcella non sembrava piegata. La moto, nel complesso, era in buono stato – “La prossima volta che verrò in città, magari.”

“Come preferisci.” – Faith aggrottò la fronte. Era come se, per un istante, si fosse offuscato, colto da un pensiero scomodo. Lo fissò con maggiore attenzione, cercando di decodificare quell’intuizione che non capiva realmente – “Dici che è a posto?”

“La moto?” – domandò lui, voltandosi, con un mezzo sorriso – “Direi di sì. Non ti preoccupare per quei graffi. Si sistemano senza problemi.”

“Grazie.” – fece per infilarsi il casco. Poi cambiò idea – “Ti serve un passaggio?”

“No.” – scosse la testa, compensandola con un sorriso bello più di qualsiasi ringraziamento – “Ho la moto anche io... non troppo lontano. Se vuoi però, facciamo la strada insieme…”

“Ok.” – Faith afferrò il suo mezzo e lo spinse – “Guidami.”

 

***

 

Angel percorse la galleria ed emerse in uno spazio più vasto, sotto la città.

Era incredibile il quantitativo di punti cavi sotto Los Angeles. Quasi indescrivibile, non trattandosi sempre di fogne, bensì di enormi stanze vuote, buie o malamente illuminate da spiragli senza spiegazione.

Il posto in cui si trovava al momento era proprio di quel genere. L’umidità aveva annerito le pareti e solo un vampiro avrebbe potuto, privo di respiro, transitare e soffermarsi appena a esplorare lo spazio circostante.

Un vampiro.

O forse due.

“Amore…” - gli occhi viola sembrarono balenare nel buio – “hai distrutto la mia reggia.”

“E mi sento in dovere di ammettere che era pure bella.” – rispose, movendo un passo verso di lei – “Peccato tu non ci fossi…”

“Mai io c’ero.” – rispose, con voce petulante – “Dovevi solo trovarmi.”

“Sono vecchio per giocare a nascondino.”

“No, non è vero.” – una risatina. Ed eccola apparire, vestita di rosso cupo, l’orlo del vestito inzuppato e una bambola per mano – “Non si è mai troppo vecchi…”

“E tu ne sei la prova.” – rispose, guardando la bambola. Una bambola senza occhi – “Che fai in città, Dru?”

“Amo il paradiso…” – cantilenò, sedendosi, incrociando le caviglie e i piedi nudi – “E’ il posto dove si incontrano gli Angeli…”

Piegò la testa.

“Angeli biondi fatti di luce e Angeli bruni fatti di notte.” – spiegò, sedendo la bambola a fianco, con attenzione. Angel restò fermo, indeciso, poi avanzò. E prese posto, di fronte a lei. Nel buio totale, nel terrificante silenzio del sottosuolo.

Le nostre città si ergono su sconfinate cripte che sanno di morte e notte eterna.

Qui rimbomba solo l’oblio.

“Non obbligarmi a chiederti di nuovo cosa fai in città.”

“Non obbligarmi a risponderti di nuovo.” – lo sbeffeggiò, lisciando l’abitino spiegazzato – “Mio Angelus… lo vuoi tu? Non posso averlo io?”

Si girò, guardandolo con occhi luminosi.

Ed Angel tacque.

Sì, lo aveva sempre saputo.

Non ci voleva molta immaginazione a riguardo. Il Flagello e Drusilla amavano le stesse finezze. E le stesse cose, da sempre.

“E’ immortale, Dru.” – replicò, stringendo meglio la spada, bilanciandola tra le dita – “Non puoi vampirizzarlo.”

“Il suo sangue è come oro.”

“Non escludo che tu abbia ragione.” – replicò, cercando di valutare il campo di battaglia – “Potrebbe piacerti il suo sapore, è sangue di buona annata. Ma è mio personale territorio di caccia.”

Drusilla rise, dondolandosi, giocherellando con i capelli.

“Il mio Angelo nero rivendica la bellezza. Non gli basta quella che ha già.” – scosse la testa, con l’espressione di una bimba corrucciata – “No, Angelo mio. Hai avuto tutto. Il mio amore, la bella Cacciatrice… hai ucciso la mia amica… era strana, ma le volevo bene… l’immortale è mio. Voglio la sua luce tutta per me.”

“La luce è tale se non diviene tenebra.” – replicò Angel, sottovoce, più per se stesso che per la vampira.

 

La sua spada scattò, precisa.

 

Drusilla fu altrettanto rapida. La testa indietro, quel tanto che bastava da non essere decapitata.

 

Per poi riavvicinarsi, baciare a fior di labbra la lama, carezzandola appena.

Angel non lasciò innervosire dalla mancata uccisione. Era inutile. Era sicuro che non fosse poi così facile liberarsi di lei. Ma aveva dovuto provarci. Strinse appena gli occhi. E la punta dell’arma si posò sulla gola di Drusilla.

 

“Scegli. Adesso.” – comandò, con voce piatta e terribile.

 

Puoi avere Edward… oppure la tua vita.

 

Scegli.

E’ semplice.

 

La vampira non si mosse.

Lo fissò solo, senza sorpresa.

“Io credo…” – rispose, senza battere ciglio. Fredda – “di avere già scelto.

E che sia tu che non l’hai ancora fatto.”

Angel alzò il braccio rimasto libero, proteggendosi il viso. E la bambola gli si frantumò addosso, con inaudita violenza. Quando scattò in piedi, maledicendosi per essersi lasciato cogliere di sorpresa, Drusilla era già sparita. E i suoi passi rimbombavano, da ogni direzione.

 

[II]

 

Faith ed Edward guidarono per le vie della città, inseguendosi e affiancandosi. La moto da strada di Edward aveva un motore più potente, un suono pieno e sempre riconoscibile. Ma Faith, che amava solo la propria e non capiva nulla di motori, la apprezzava soprattutto per una questione estetica.

E funzionale, visti i foderi da spada che vi erano fissati. Uno in bella vista. E un secondo, meglio nascosto, di cui non si sarebbe accorta se non gliel’avesse indicato l’immortale.

“Dici che posso fare altrettanto con questa?” – aveva chiesto, mentre si preparavano a partire.

“Qualcosa si può studiare.” – aveva risposto il ragazzo, carezzando ancora una volta il graffio sul serbatoio, quasi ad accertarsi del danno effettivo, guadagnando un altro punto in simpatia. E mettendola maggiormente in confusione.

Perché un tipo del genere avrebbe dovuto attaccare Angel e battersi all’ultimo sangue senza un reale motivo? Non era il classico attaccabrighe borioso che si era preparata a conoscere. Era un tipo taciturno, incredibilmente tranquillo.

Impossibile che il suo scontro con i vampiri, vecchio quasi di sei mesi, fosse stato frutto di uno sbaglio.

A meno che, come molti prima di lui, non si dilettasse di cacciare demoni. E fosse stato poco pronto a riconoscere, nella massa, quelli dotati di anima e attitudine alla redenzione.

 

Si, una spiegazione plausibile... purtroppo non abbastanza convincente. Anche perché Angel, le poche volte che aveva addotto questa zoppicante spiegazione, non era stato proprio incisivo.

 

“Cacci spesso vampiri?” – chiese, una volta che furono sotto casa di Methos, per togliersi il dubbio.

“Decisamente no.” – rispose lui, scotendo i capelli e tirandoli indietro con una mano. Era bello, aveva lineamenti regolari. Ma erano gli occhi a fare da padrone in quel viso – “Credo sia la prima volta che lo faccio.”

“Allora te la cavi bene.” – ribatté la Cacciatrice, estraendo il cellulare vibrante. E aprendolo, senza smettere di guardarlo - “Ehi, vampiro.”

 

Edward rischiò di perdere di mano le chiavi. E di inciampare sul gradino.

Girò le spalle alla ragazza, battendo la ritirata e rispettando la sua privacy. E sentì la mano di lei afferrarlo per un polso.

Faith lo fissò dritto in faccia, con serietà. E scosse lievemente la testa.

Quell’Eddy non era un nemico. E se Angel non diceva nulla… bisognava soltanto fidarsi. E sperare che non fosse una cosa troppo grande da gestire.

“Sì, tutto nella norma.” – disse, con tono incurante. Edward la fissava, interrogativo. E lei gli sorrise – “Sarò a casa penso in un’ora. Ho un paio di cose da sbrigare.”

“Cose che ti impediscono di tornare qui a farti strappare tutta quella pelle nera di dosso?” – chiese Spike, allungando il tazzone a Cordelia perché lo riempisse – “E se io mi sentissi solo?”

“Dovresti arrangiarti come puoi.” – piegò la testa, lasciando andare Edward. Non avrebbe detto a Spike chi aveva di fronte. Anche se non sapeva ancora perché lo stava facendo – “Ho massacrato anche per oggi la mia percentuale minima e sono stanca. Arrivo presto.”

“Brava. E senza dividere! Sei tale e quale ad Angel.”

“Che ci vuoi fare… io e il Flagello abbiamo gusti similari. L’ho anche visto, sai? Ma aveva da fare.” – cominciò a salire le scale, con calma. Ed Edward sentì un brivido partirgli dal centro della nuca. Quel cellulare… poteva quasi sentire la voce di William – “Suppongo che si darà da fare ancora per un po’…”

“Allora lo chiamo. Magari riesco a raggiungerlo.”

“Ma stattene a casa, tu che puoi! Sei fresco di doccia, probabilmente stai facendo colazione con Cordelia… cosa vuoi di più?” – Faith diede una spinta alla porta ed Edward, prontamente, la tenne aperta – “Grazie. Cercati un libro a sdraiati sul divano.”

 

“Faith… grazie a chi?”

 

“Come?”

 

“Hai detto grazie.” – Spike bevve un sorso. E un sospetto gli passò nel cervello – “Con chi sei?”

“Sono in un locale.” – rispose, precipitosamente – “E mi hanno aperto la porta.”

“Sei in un locale in cui ti aprono la porta?”

“Spike... mi stai facendo il terzo grado?”

“Faith, tu vivi in un’epoca in cui la cavalleria è finita. Con chi sei?”

Faith respirò a fondo.

“Sono con Methos. E lui è di un’epoca cavalleresca, non trovi?” – mentì, sfrontata – “Vuoi che te lo passi?”

 

 

Oddio… ecco l’infarto che giunge, pensò Edward.

 

Tutto sta a vedere se prima a me o a te, sembrava dire l’occhiata di Faith.

 

“No, grazie.” – Spike si lasciò cadere sul divano – “Sai, prenderò in considerazione la tua proposta e me ne resterò qui.”

“Ammiro la tua saggezza di altri tempi.” – replicò, caustica – “E ora vado. Voglio un caffè e una ciambella, visto che paga lui. Ci vediamo tra un’ora.”

“Prendi anche da portar via.” – ribatté lui, allegramente – “Ciao bellezza.”

“Ciao, ciao Spike.” – chiuse la comunicazione. E con una certa irritazione – “Tu, biondo ragazzo del mistero!”

“Comandi.” – rispose Edward, voltandosi verso di lei, un piede già sul gradino.

“Mi devi un favore così grosso che non posso nemmeno quantificarlo.”

Edward non resistette. E le sorrise.

“Un caffè e una ciambella?” – domandò, mettendo in mostra una fila di denti perfetti.

Era così affascinante da essere irritante.

Faith lo squadrò, caparbia. E senza restare seria a lungo.

“Andata.” – sospirò. E cominciò a salire le scale – “Forza! Ho fame. Voglio saccheggiare la dispensa. Ora.”

 

***

 

Sul pianerottolo, proveniente dalla direzione contraria, li raggiunse Angel. Così scuro in volto da non lasciare dubbi a Doyle, che aprì loro la porta.

“Ciao a tutti.” – disse, vedendoli passargli sui piedi – “Forza, chi comincia?”

Si voltarono tutti a fissarlo. E Methos, con l’immancabile barattolo del caffè in mano, gli fece un bel segno di ok.

 

Vai così, Francis! Sei l’eroe degli autolesionisti.

 

“Io ho fame.” – rincarò la ragazza, aprendo finalmente il guscio di pelle in cui era fasciata e mettendo in mostra tutte le sue curve – “Voi fate quello che volete.”

“Io devo parlare con te, di nuovo.” – sottolineò Angel, puntando un dito contro Edward. Per poi spostarlo verso Doyle – “E poi con te.”

“Con me no?” – chiese Methos, riempiendo il filtro.

“Dipende quanto vuoi starne fuori.”

“Allora passo. Parla con chi ti pare.”

“Grazie.” – si voltò – “Andiamo Edw… EddWy.”

 

“Spero che tu ti renda conto che sta diventando una commedia degli equivoci!” – esclamò il vampiro, chiudendosi la porta alle spalle.

Edward non sembrava in vena di discutere. Si stava controllando una grossa abrasione su un braccio.

“Angel…” – domandò, soprappensiero – “Sai che ho sentito la sua voce?”

Angel lo fissò, come se di colpo non gli sembrasse più così sano di mente.

Edward aveva gli occhi velati di una tristezza infinita.

“Faith gli parlava al cellulare. E io potevo sentirlo quasi alla perfezione. La sua voce, Angel, denuncia quanto sia cambiato.”

Si era lasciato andare, con un tonfo, nella poltrona. E aveva allungato le gambe, gettando indietro la testa.

“Ma che ci faccio qui…” – sussurrò, posandosi un avambraccio sulla fronte.

 

E’ da quando ho sentito la sua voce non riesco a pensare ad altro…

 

Che ci faccio qui… se non è più William…

 

“Edward…” – Angel si strofinò la nuca, rendendosi conto di aver perso il filo del discorso. E decidendosi, finalmente, a occupare il posto dietro la scrivania – “Ne abbiamo già parlato. Certo, è cambiato. E’ inevitabile. Non è concepibile però questo tuo ostinarti a ritenere impossibile incontrarlo.”

“Angel…”

“Non ricominciare con la questione degli anni perduti, Coventry. Abbiamo tutti tempo sprecato alle spalle, immortali, vampiri e non.” – Angel posò sul tavolo i paletti che aveva in tasca e si protese verso di lui – “Piantala di tormentarti. Esci, gira a destra e percorri tre isolati. E quando sarai di fronte all’enorme albergo che si chiama Hyperion, entra e chiedi di lui.”

Edward lo stava fissando, senza un commento.

“E quando sarete faccia a faccia…” – si interruppe. E iniziò a sentirsi fuori luogo – “Bhe, scopri semplicemente chi è diventato.”

 

Perché io posso prometterti già adesso che sarai orgoglioso di lui.

Credimi, lo so.

 

Los Angeles, 2001

 

In un salto fu sulla piattaforma. C’era un ultimo vampiro… ma non ci volle nulla a nebulizzarlo.

Wes gli era già alle spalle. Il suo salto si era rivelato meno semplice del previsto, forse anche perché un altro demone aveva cercato di agguantarlo. Ed ora lottavano ferocemente.

Con la coda dell’occhio, indeciso se intervenire, Spike vide la Cacciatrice puntare la balestra e fare fuoco, evitando per un soffio l’osservatore e finendo rapidamente l’avversario.

Ormai non distava più molto. Era quasi arrivato.

Sotto di lui, con la stessa velocità, Doyle seguiva la stessa rotta, ma di terra.

Spike vedeva già sopra la paratia, Doyle ne stava forzando la porta metallica.

Scavalcò rapidamente la ringhiera tubolare e planò di sotto.

Alle sue spalle sentiva i colpi della battaglia rimbombare sulla lamiera.

Ma davanti a se c’era un altro massacro da compiere.

 

Rapidamente, si ripeté, sentendosi il volto mutare.

Dieci metri più in là, a terra, con le mani inchiodate insieme, congiunte come in preghiera, ed i vestiti scuri, stava una fisionomia nota. Impossibile sbagliarsi.

Non era solo la vista a denunciare la verità

Spike si era sentito infiammare il sangue, inaspettatamente. Adesso non erano più colpi sulla lamiera, ma tuoni di battaglia, come un rullio di tamburo incessante, sul diaframma.

Mai come ora aveva desiderato una spada. Si sentì sfilare di dosso lo spolverino, a forza, da mani che cercarono di artigliarlo.

Ma la sua corsa non conosceva fine. Avanti, ancora avanti.

Adesso distingueva anche il volto tumefatto, ripiegato, sulla spalla.

Non gli fregava più un accidente del resto, delle recriminazioni, dei buoni propositi.

Adesso li voleva tutti morti, umani o vampiri che fossero.

Li voleva morti, perché erano dei fottuti bastardi e non meritavano altro.

Uno, ancora uno. Chi non era in polvere stava in un lago di sangue.

Ma Spike non avrebbe saputo dire con certezza se qualche cuore stesse ancora battendo.

Un colpo all’altezza dei reni lo fece barcollare, un secondo lo fece rotolare violentemente contro una parete. L’attimo che gli sarebbe potuto essere fatale, fu interrotto dal crollo di quella dannata porta.

Dalla nube di polvere che si levò, con uno di quei salti che comunque lo contraddistinguevano, apparve Doyle, insolitamente con la sua parte demoniaca in superficie.

Veloce, velocissimo.

I pochi superstiti l’avevano già attaccato. Ma il suo volto era una maschera furente e non presagiva nulla di buono. I pochi arguti del gruppo abbandonavano la piazza. Quelli che restavano andavano a mischiarsi con la polvere ancora in sospensione.

Spike si rialzò, chinandosi quel tanto che bastava da sputare sangue in buona quantità.

In effetti, si rese conto in quell’istante, aveva qualche arma ancora conficcata indosso.

Se le strappò di dosso, con rabbia.

Sentiva delle urla… e solo dopo, medicandolo, Cordelia gli avrebbe pacatamente spiegato che… erano sue.

Le sue urla avevano riempito l’aria, nel corso di quella sortita.

L’avevano sentito, avevano pensato che lo stessero massacrando, non il contrario. Ed era stato allora che Doyle aveva accelerato la procedura di sfondamento con la parte di se che meno apprezzava.

 

Spike affrettò il passo, incespicando quasi nei piedi. Aveva un’ultima lama, da sfilarsi dal corpo. E lo fece cadendo in ginocchio molto vicino ad Angel. Con una mossa, con quell’arma ancora insanguinata, gli tagliò i legacci plastici. Poi, reagendo ancora ad un attimo di isterica esasperazione, sfilò il lungo chiodo arrugginito che gli bloccava i palmi.

Angel inarcò la testa indietro, in un gemito. E Spike, prontamente lo bloccò, afferrandolo per le spalle.

Angel sembrava privo di sensi, si rese conto, scotendolo leggermente.

Aveva le mani sporche del sangue di entrambi e se le pulì nervosamente nei pantaloni, nella maglietta strappata, prima di posargliele sul viso.

Come aveva imparato da lui, come faceva Angel, ogni volta che lo raccoglieva esanime su un campo di battaglia.

Gli tirò indietro i capelli, sostenendogli la testa, una mano sul collo.

Chiamandolo.

“Ehi, Angel… Angel guardami… non farmi perdere la pazienza…”

Non sapeva cosa dire. Provava imbarazzo per il fatto di essere così, chino su di lui. Non era bravo ad essere rassicurante, non sapeva cosa fare per… per essere come lui.

Quali parole erano giuste? Oh, dannazione, ma perché non ti ascolto mai…

Allora non è semplice come pensavo… Angel, apri gli occhi… non sono rassicurante e mi irrita accarezzarti in questo modo. Svegliati e tagliamo corto con le sdolcinatezze.

Angel, ti prego…

 

Le palpebre di Angel ebbero un leggero tremito. E poi, con una lentezza impressionante, si aprirono.

“Piano… piano…sono qui io.” – gli sorrise Spike, stupendosi di come quelle poche parole gli fossero uscite così spontaneamente dalle labbra. Sorprendendo se stesso, con quel sollievo e quella tenerezza.

Angel lo fissò, per un istante interminabile. Poi, con una leggera smorfia per il dolore che gli si irradiava lungo il corpo, gli sorrise. Un sorriso che nasceva anche dall’espressione sorpresa che gli si era dipinta sul volto, nello scoprirsi realmente preoccupato.

“Ehi.” – ripeté Spike, passandogli una mano tra i capelli, prima di fermare con le dita in un altro rigagnolo di sangue – “Questa volta sono io che mi chino su di te…”

“A quanto pare…”- mormorò Angel, chiudendo gli occhi e riaprendoli dopo poco – “ma se mi aiuti, interrompiamo l’idillio e mi alzo…”

Spike si bloccò, smettendo di togliergli sangue dalla fronte.

Lo guardò per un attimo perplesso. Poi cominciò a ridere, piano.

“Ma ti sei visto? Pensi di essere credibile?”

Angel lo guardò, aggrottando la fronte. Prima di cominciare a ridere debolmente.

“Temo proprio tu abbia ragione…”

 

“William non potrà mai raccontarti per intero la sua vita, dall’ultima volta in cui vi siete visti.” -aggiunse – “Ma non ti mentirà, nel dirti che è divenuto ciò che desiderava.”

Edward voltò la testa. E cercò di perdersi nell’enorme arazzo alle spalle di Angel. Ciò che desiderava… desiderava veramente perdere se stesso, la luce del giorno…

La luce… una vita senza la luce.

Sospirò. E, istintivamente, premette due dita sulla ferita che non esisteva, quella provocata dalla freccia di Spike.

Non aveva mai smesso di fare male, da quella notte.

Ed Angel sembrò intuirlo.

“Senti ancora dolore, Edward?” – domandò, guardando quella mano lunga ed elegante su cui le abrasioni andavano lentamente sparendo, sotto i suoi occhi.

“Il corpo ricorda, Angel.” – rispose, l’uomo senza guardarlo – “Come la mente, come l’anima…”

Adesso gli occhi azzurri lo passavano, da parte a parte.

“Non è così, Angel?” – domandò, con voce sommessa – “non ricordiamo sempre, con tutto noi stessi?”

 

Non mentiva.

Aveva ragione. Le ferite del passato potevano ancora far male.

Negli incubi peggiori, Angel sentiva ancora il sangue delle vittime arroventargli le vene. E il sapore vivo di Drusilla, di William, bruciargli le labbra con il calore dell’ultima mortale sorsata.

Oh, si. Nelle notti più buie, Angel cercava ancora i segni dei denti di Darla. E rammentava, con infinito rimpianto, le mani perennemente tiepide di Kathy.

 

Sì, il corpo ricorda.

 

“Quella freccia mi ha trapassato, Angel.” – aggiunse, tornando a perdere lo sguardo sopra le loro teste – “In molti modi…”

 

***

 

“Allora.” – esordì Faith, a bocca piena, cercando di protendersi verso la scatola dei biscotti – “Chi mi spiega cosa stia accadendo?”

“Io no di sicuro.” – rispose, Methos, sottolineando per l’ennesima volta l’estraneità alla vicenda e rifilandole una botta sulla mano, per farla desistere – “E smetti di mangiare, o diventerai la Cacciatrice che rotola.”

“Fatti i cazzi tuoi.”

“Lo sono. Stai mandandomi in bancarotta con le sortite in frigo.” – e indicò Doyle – “Come lui.”

“Non esagerare.” – replicò il demone, masticando – “Sono solo molto nervoso.”

“Non è una buona motivazione.”

“Doyle...”

“Lo so, Faith. Vuoi spiegazioni.” – sospirò, guardandola imburrarsi un’altra fetta biscottata – “Ma non c’è molto da dire... ho avuto una visione e siamo andati a dare un’occhiata.”

“Voi quattro, d’amore e d’accordo?”

“Perché no?”

“Perché non esiste un ‘per caso’, quando ci sei tu… e nemmeno quando c’è Angel.” – senza pensare, tese la fetta già pronta a Methos e ne preparò una seconda – “Ed è da stamattina che state ben attenti a non dire a nessuno quello che state facendo. Se non ci incontravamo…”

“Per caso…” – sottolineò Methos, passandole la marmellata – “sottolinea per caso.”

“Se non ci trovavamo per caso di certo non sarei qui, ora. Giusto?”

“Giusto.”

“E quindi continui a pensare che non serva una spiegazione?”

“Andiamo, Faithy.” – si intromise l’immortale, bonariamente – “Lo sai che non intende dirtelo. Mi dici perché continui a ostinarti?”

“Perché voglio sapere. Ho mentito a Spike, Doyle. Gli ho detto che non c’era niente in pentola, camminando fianco a fianco con quel tizio! Non credi che mi sarebbe più facile fare certe porcate, sapendo il motivo?”


No, non credo proprio. Doyle la fissò, imperscrutabile.

Se adesso ti dico perché nascondiamo Edward, tu ci spacchi le gambe.

Ed io mi trovo costretto a darti ragione mentre mi torturi.

 

Tu non tollereresti un inganno di questo tipo… perché conosci Spike.

E non conosci per niente Edward.

 

“Prova a chiedere ad Angel.” – rispose, cercando come suo solito le sigarette – “Secondo me ti dice quello che ho detto io.”

“Tu non mi hai detto nulla!”

“Vero, non le hai detto nulla.”

“Methos, piantala, per favore.” – esclamò. Prima di cambiare idea – “Anzi, no. Sai le stesse cose che so io. Se vuoi, raccontagliele! Io me ne vado.”

Methos si raddrizzò, mentre il demone saltava giù dallo sgabello.

“Ehi, dove vai!”

“A fare il giro dell’isolato, per godermi la sigaretta in pace.” – rispose, ingoiando altre due pastiglie per il mal di testa – “Dì a Faith ciò che credi debba sapere.

Io, sottolineo io, mi faccio gli affari miei.”

 

***

 

“Immagino sia il momento di parlare di cose serie...” – sospirò Edward, cercando di scacciare il peggio del suo stato d’animo. E di concentrarsi.

Angel non si stupì di non avere risposta. Quel ragazzo era un mulo testardo come pochi ne esistevano. Lo sapeva dalla prima occhiata che si erano scambiati.

“Ho incontrato Drusilla.” – disse, con tono svagato. Iniziava a desiderare di picchiarlo. Una bella botta intesta, me lo carico sulle spalle e lo scarico sui piedi di William.

Sono affari di famiglia, dopotutto.

 

 

 

della mia famiglia, ora che ci penso.

 

Edward lo fissò senza parole, per quell’affermazione.

“Come sarebbe... hai visto Drusilla...” – si alzò in piedi, appoggiandosi alla scrivania e sovrastandolo – “Quando, dove e perché.”

“Calma.” – replicò Angel, sorpreso – “Ci tenevi così tanto a conoscerla?”

“Certo! Non vorrai togliermi il piacere di impalettarla!”

 

Oddio… mettiti in coda, Coventry… la tua non è un’idea originale.

 

“Sa di me, potrebbe dirlo a William, vuole la mia testa e si è presa mio fratello.” – elencò Edward, con un’escalation di motivazioni – “Secondo te non la voglio nuclearizzare?”

Di nuovo quel verbo…

“Ti farà piacere sapere che non vuole la tua testa.” – replicò, guardandolo dal basso. Edward stava appoggiato al ripiano, integralmente verso di lui. E aveva occhi elettrici.

“Ah no?” – replicò il giovane leone – “Voleva che conoscessi i suoi amichetti?”

“Voleva te, Edward.” – ribatté, con più calma possibile – “Nel senso più vampirico del termine.”

Edward si bloccò. E spalancò gli occhi. Se non fosse stato per la gravità della situazione, Angel l’avrebbe trovato memorabile.

“Oh.” – commentò. Sembrava indeciso tra il lusingato e il perplesso. Si tirò indietro i capelli e lo fissò – “Davvero?”

“Davvero.” – adesso il tempo della tolleranza era finito. Angel si mise in piedi e, d’un tratto, lo studio divenne piccolo – “Non stupirtene, è nella nostra natura voler distruggere tutto il meglio che esiste, cercare di farlo nostro con ogni mezzo. Drusilla ha perso Spike, in tutti i sensi. E, con la sua mente deviata, desidera ancora la luce. Sei un candidato perfetto. Per bellezza, follia e testardaggine!”

“Modera i termini, Angel.” – ringhiò l’altro, assottigliando gli occhi – “Anche la mia pazienza conosce limiti.”

“Tu non hai pazienza!” – esclamò – “Sei un immortale imprevedibile, che prende fuoco come un fiammifero, tutto onore fino al midollo, che sta qui quando dovrebbe andarsene veloce come il vento! Drusilla vuole vampirizzarti, se ne frega della tua immortalità! Familiarizza in fretta con questo concetto, perché fino a quando non la trovo e la faccio fuori, dovrai guardarti bene le spalle.”

“Sempre che non la trovi prima io.”

“Non riusciresti ad ammazzarla, Edward.” – rispose, tornando serio – “Credimi. Drusilla è più di quello che sembra. Muoiono tutti... e lei vive ancora. E’ il mio peggior abominio, sta a me porre fine.”

Edward lo fissò in viso, le mani posate sui fianchi. Anche se restava fermo, continuava a scaturire da lui un’incredibile tensione vitale. Non c’era muscolo che non ne fosse coinvolto. Nella perfetta immobilità, Edward pulsava, con tutto l’essere.

E stargli di fronte, freddi, privi di vita ma non di coscienza, era intossicante.

“Io credo.” – rispose, sfidandolo – “Che sia tu quello che non può ucciderla.”

 

“Sì.” – Angel si raddrizzò. E incrociò le braccia – “Forse stai dicendo la verità. Forse non potrò mai realmente farlo.

Ma continuerò a tentare, fino a quando non sarò pronto.”

 

Continuerò, sulla strada che percorro.

 

Oggi un motivo in più per farlo. Ho la tua vita. La vita nella sua essenza più pura.

 

Ha ragione Doyle. Tu sei l’altro volto del destino.

Le tenebre hanno già avuto parte di questa eternità di cui sei custode.

Lo so. So che espierò per questa colpa fino all’ultimo attimo della mia esistenza.

 

Ma ti salverò, Edward.

Te lo prometto.

 

“Rassicurante.” – replicò Edward, incrociando le braccia – “Tu non sei certo di poterla ammazzare, io probabilmente non posso riuscirci. Oh, come mi sento sicuro.”

Angel alzò gli occhi al cielo.

“Bhe…” – considerò – “possiamo sempre chiedere a Faith. E’ il suo lavoro…”

Edward scosse la testa, rassegnato. Andare d’accordo con quel vampiro bruno era uno sforzo titanico.

“Certo.” – annuì, prima di passarsi una mano sulla faccia – “La ragazza che continua a puntarmi il dito contro e dire ‘tu che ci fai qui!’... Siamo già partiti con il piede giusto.”

“Non ti sorprendere. Sei passato alla storia come l’immortale che mi ha pestato.” – replicò il vampiro, aprendo la porta e uscendo sul ballatoio.

“Pestato, addirittura…”

“Non battuto. Ho detto loro che ho vinto io.”

“Ah sì? E in base a cosa?”

“In base al fatto che hai ancora la testa.”

“Certo.” – Edward annuì, seguendolo giù dalla scala – “Dovremo trovare il tempo per discuterne.”

“A che pro. Intanto ho vinto io.”

 

“Vinto cosa?” – domandò Faith, finendo il bicchiere di latte e pulendosi la bocca.

“Il nostro duello. Quello di sei mesi fa.” – rispose Edward, arrivandole a fianco, in piedi, le mani in tasca.

“Ah, già.” – la ragazza gli tirò un’occhiata beffarda – “Tranquillo, è normale prendersele dall’eroe. Capita a tutti.”

Methos alzò lo sguardo, divertito. Edward aveva l’aria arruffata e gli occhi tempestosi. L’aria di chi, insomma, è inciampato in un grosso guaio senza preavviso.

Faith lo stava blandamente sfottendo. E, come era inevitabile, lo guardava con simpatia, quel sentimento che scaturiva spontaneo nei confronti dell’uomo, a partire dal momento in cui si placavano gli ormoni.

Edward era una persona inevitabile da amare. Da inseguire per tutta l’esistenza, passo dopo passo, per molti. E Faith, ormai parte integrante della vita di Spike, non faceva difetto a questa regola.

Amava William. E si protendeva, nell’assoluta incoscienza, verso ciò che riconosceva di lui in Edward.

 

“Allora, biondo.” – stava dicendo, nel porgergli il succo d’arancia – “Come ti butta dopo il colloquio con Angel?”

“Butta male.” – replicò lui, cercando un bicchiere. E Faith, mentre Methos nascondeva una risata, gli guardò il fondoschiena – “E tu? Estorto qualche informazione?”

“Ci ho provato. Senza risultati.” – indicò Methos con la testa – “La sua collaborazione è zero. E Doyle si sta facendo un giro.”

“Forse l’unico che abbia avuto, a tuttora, una buona idea.” – commentò Methos, alzandosi. Edward stava cercandosi una mela in un’enorme coppa di frutta. E fischiettava, distrattamente. Come dire che stava pensando – “Senti un po’, pupillo, ci distendiamo i nervi?”

Edward si voltò, addentando la mela. E poi usandola per minacciarlo.

“Chiamami ancora pupillo.” – disse, a bocca piena – “E giuro che ti mutilo.”

“Perfetto… questo è il giusto spirito.” – ribatté, rifilandogli una pacca su una spalla, ben più simile a un gesto di conforto che a una presa in giro – “Allora, ci stai?”

“Perché no.” – rispose, afferrando anche il bicchiere – “Recupero la spada.”

 

Edward sfoderò la spada e perse le scarpe nel tempo che servì a Methos per recuperare la propria.

Come al solito, Edward aveva cambiato arma bianca, optando per una lama spagnola solida e lucida, con cui al momento stava giocherellando, distrattamente.

“Finisci di mangiare, prima?” – chiese Methos, tirandosi su le maniche, guardandolo masticare allegramente e posare il bicchiere su una mensola.

“Per combattere con te?” – replicò l’altro, senza smettere di addentare la mela e sventolando la spada con la destra – “Ma per favore! Cominciamo, forza!”

“Pivello.” – sputò l’uomo – “Non so chi ti abbia messo in testa certe idee…”

“Dieci minuti con un buono spadaccino, uno vero, cambiano subito la prospettiva.” – rispose Edward, camminando in cerchio – “Io ho avuto buoni maestri... e sono bravo… tu… bhe, Methos, non possiamo essere tutti dei campioni.”

“In effetti, al momento non ho voglia di scherma… mi stanno iniziando a prudere le mani.” – replicò l’immortale, tirando la prima stoccata – “Ti meriteresti una mano di botte… mancarmi così di rispetto…”

Parata. Stoccata.

“Perdono, Methuselah.” – sorrise il ragazzo, arrivandogli vicino e storpiandogli il nome. Prima di mordere di nuovo la mela – “Lo sai, a noi ragazzini capita di essere irriverenti…”

“Marmocchio.” – ribatté Methos, respingendolo, con gli occhi brillanti.

“Cariatide.”

Methos sorrise. Edward era veramente bravo, i suoi colpi erano precisi, anche se incredibilmente rilassati. Aveva preso alla lettera la sua proposta, non tentava nemmeno di sfogarsi. Pensava, riallineava con calma la mente e il corpo.

 

Girava intorno, studiava la zona di lotta, valutava le mosse più giuste. E Methos lo lasciava fare. E si godeva, nell’identica maniera, l’arte della guerra.

 

Inghilterra, 1855

 

“Bene così.” – sorrise Methos. Edward allungò il braccio e l’uomo gli sistemò la mano – “E' un tipo di spada che va impugnata in questa maniera, o rischierà di sfuggirti di mano. Allunga. Sì, meglio.”

Mosse un passo indietro. E ripresero da dove avevano interrotto.

Era piacevole tirar di spada senza alcuna tensione, per il puro piacere di confrontarsi.

Edward era dotato per la scherma, cosa che, del resto, contraddistingueva molti potenziali immortali. Quasi il possibile destino influisse sulle loro doti.

E, visto che era stato anche educato a riguardo, nel migliore dei modi, Methos si adoperava per imbastardirgli lo stile e aumentare la funzionalità.

Ma, con suo disappunto, certe suggestioni non si perdevano e Edward continuava ad avere un affondo pulito e aristocratico.

 

Troppo.

 

Era ora di fare qualcosa per smorzarlo. Per tanto, Methos si piegò e mirò alle caviglie.

Edward fu pronto a parare, ma finì ugualmente per terra, con Methos che gli puntava la lama alla gola.

“Come nei migliori libri di cappa e spada.” – sorrise, appoggiandosi sulla carotide con incredibile leggerezza – “E qui l’eroe si salva, in extremis, con una mossa inaspettata.”

“Davvero?” – rispose, con aria svagata, Edward, i capelli sparsi sul tappeto, gli occhi brillanti – “Io penso che resterò così, invece. E spererò nella tua misericordia.”

Methos sorrise. E gli tese una mano, tirandolo in piedi.

“Sei troppo fiducioso…” – replicò, voltandosi e lanciando i guanti sul tavolo.

In quei mesi si era fatto crescere i capelli, decidendo di portarli legati, anche se contribuivano a dargli un’espressione corsara, smorzando lo stile patinato da medico. Forse sembrava addirittura più giovane, considerò Edward, mentre l’uomo si voltava. Oppure faceva risaltare ancor di più il suo essere senza tempo.

“Basta per oggi?”- domandò, lisciando il guanto e giocherellando con l’elsa.

“Io posso anche continuare, ma ho pietà di te.”- Methos piegò il collo, slacciandosi il colletto. E Edward lo vide. Un segno rosso, netto, subito sopra la clavicola. D’istinto, tese la mano.

Methos non capì al volo. Abbassò gli occhi e comprese, nell’attimo stesso in cui le dita arrivarono a sfiorarlo.

“Ah, quello.” – esclamò, con un’alzata di spalle e un sorriso, allontanandosi – “Non è nulla.”

“Era profonda, se non si è ancora rimarginata.”

“Vero.”

“Ecco cos’era la tua indisposizione.” – mormorò il ragazzo. E io che avevo pensato a una donna – “Come è successo…”

“Nel metodo canonico. Mirava alla testa e ha sbagliato.”

“Immagino che lo sbaglio gli sia costato caro.” – commentò. Ormai da tempo sapeva della sua immortalità e delle regole del gioco. Ma non si era mai posto il problema che Methos, effettivamente, incontrasse altri come lui per qualcosa di diverso da una bevuta.

Quella era la prima volta… la prima volta che restavano segni.

“Era tardi per scappare.” – replicò allegramente l’uomo. E si voltò. Edward era pallido, incredibilmente serio. E Methos si preoccupò.

“Ehi, Coventry…”

“Non avevo mai capito, Methos.” – replicò l’altro – “Quando combattiamo, è un gioco. È sempre un gioco, per me. Non c’è sangue e non c’è…”

“Morte.” – finì, per lui, l’altro – “Lo so. Ami il gioco pulito, è una sfida allo stato puro. Permette di parlare, di conoscersi… e fa pensare. Mi piace, sul serio. Ma ti ho sempre detto che non è così…”

Edward si avvicinò alla panoplia, mentre Methos sceglieva due fioretti e gliene porgeva uno.

“E’ vero.” – ammise. Aveva ventidue anni, era un uomo a pieno titolo, per la società inglese. Eppure stentava a capire realmente – “Quando combattiamo… io penso ai duelli tra immortali. Ma non a quello che succede, alla fine. Uno muore sempre. E questa volta potevi essere tu, vero?”

“Come centinaia di altre. Fa parte del gioco.” – rispose, sorridendo con gli occhi e incamminandosi per tornare a centro sala – “Ma sono bravo a tutelarmi… e non necessariamente con la spada.”

“Lo so.” – Edward piegò la testa, riflettendo – “Eppure…”

“Niente eppure Coventry. Non ci pensare. Continua ad amare la spada per ciò che è. Un’arte. Pura e semplice.”

Mantieni questa tua comprensione. La vita arriva troppo presto a infrangere le nostre barriere.

 

Poco lontano, con il rumore delle spade che cozzavano di sottofondo, Angel e Faith discutevano sottovoce.

“Ti rendi conto minimamente di quello che stai facendo?” – domandò Faith, con inusuale durezza, per l’ennesima volta – “E’ Spike, per la miseria! E tu lo tratti come un imbecille qualsiasi incapace di capire la situazione.”

“Non è così semplice, Faith.” – si difese. Era come provare a spiegare che sta arrivando un maremoto senza dire acqua – “Non è per via di ciò che è successo… cioè, sì… insomma, non è solo quello, è solo che…”

“Ti prego, con parole tue.” – replicò lei, grondando sarcasmo. Incrociò le braccia e respirò a fondo – “Non lo faccio per colpevolizzarti, ma dovresti soffermarti sulla situazione in cui mi trovo.”

 

E in cui non ti ho messa io. Gli sarebbe piaciuto protestare, ma non disse nulla.

 

“E’ il motivo per cui stamattina non ti ho detto di venire con me.” – rispose, dunque – “E’ stato un caso, Faith. Credi che non mi renda conto della situazione paradossale? Il problema è che…”

E’ che non posso dirti nulla. Se parlo…

Giusto. Che succede se parlo?

Angel alzò gli occhi. Quei due continuavano a duellare. E Doyle era sparito. Si posò una mano sulla bocca, riflettendo.

Forse era, in effetti, il momento che qualcuno si imponesse.

E in fretta.

 

Si alzò e marciò deciso.

Poi, decidendo di controllarsi, si fermò a bordo campo. Ma Faith non fece altrettanto, frapponendosi tra i due.

 

Perfettamente tra i fili delle due lame.

 

“Bei riflessi ad entrambi, complimenti.” – disse, mentre le spade di fermavano, all’altezza della sua nuca – “Smettete di giocare, voglio risposte. Angel dice che posso averle.”

“Veramente...”

Faith si voltò, interrogativa.

“Li fermavi per portare loro limonata fresca?” – si girò di nuovo, verso Edward. Fissandolo dritto negli occhi chiari – “Senti, bellissimo. Risposte. All’istante.”

“Fottuto.” – commentò Methos, passandosi la spada sulle spalle e intrecciandoci le braccia – “Adesso devi parlare.”

“E tu ne sei contento. Vero?” – ribatté Edward, pungente, guardandolo, sopra la nuca della Cacciatrice.

“Sì.” – replicò l’immortale, facendosi serio – “E’ ora.”

Edward lo fissò, quasi con rancore. E mosse un passo indietro. Afferrò il maglione e se lo infilò, senza un commento.

 

Adesso basta con i frammenti della storia.

Basta con le persone costrette a mantenere segreti.

Non Faith.

Faith non deve più mentire.

 

L’ha fatto una volta sola... ed è già troppo. Troppo.

 

Non si tratta più di me. Adesso non più.

 

Si tirò indietro i capelli, abbassando la testa. E respirando a fondo. Chiuse gli occhi, cercando di scacciare la sensazione orribile al centro del petto. E, quando rialzò il capo, incoronato di quella sua struggente eleganza, quasi involontariamente, cercò Angel.

 

Dritto in viso, in caduta libera dentro gli occhi scuri.

 

Mi dispiace.

Mi dispiace veramente.

Angel comprese, senza incertezza. E annuì.

 

Lo so, rispose, proiettando tutto il suo essere in quel vuoto.

So quanto fa male.

 

Faith si voltò verso il vampiro. E Methos mosse un passo indietro, voltandosi. Una doccia, ecco cosa ci vuole, pensò, posando la spada. Una doccia bollente.

 

“Che fai... scappi?” – mormorò Faith, alle sue spalle. E Methos, sorrise.

 

I tuoi sensi sono sviluppati, Cacciatrice... ma non sai ascoltare il silenzio.

 

“No.” – il ragazzo biondo scosse la testa, iniziando a infilarsi le scarpe – “Faccio ciò che devo.”

 

Ciò che dovevo fare sei mesi fa.

Ciò che voglio fare da tutta la mia vita.

 

“Angel.” – chiamò, alzandosi e rinfoderando la spada – “Rispiegami la strada.”

 

***

 

“Ehi, del maniero! Principessa? Wes?” – Doyle gettò la giacca su uno dei divanetti dell’H䁻쀆ဆ쀂[1]〆ဆ퀆퀆逆ဆ䀆[1]怆逆ဆ〆[1][1]怆逆ဆ〆[1]〆[1]ဇ倇倆쀆[1]䀇逆ꀇ逆ဂ퀀퀀퀄ဆ[1]〇쀎쀂[1]〆倆 䀇戂[1]〆퀆倆[1]ဆ怇倆怇ဆ[1]䀇倇䀇[1]倆〇〇倆 倆[1]〆〇쀎[1]〇䀇倇逆䀆戂[1]ဆ怇倆〇〇倆[1]〇쀆[1]ဆ〇〆쀆䀇ဆ䀇[1]怄ဆ逆䀇耆ဂ[1][1]〇逆[1] 倆〆〆倇ဆ怇ဆ[1]䀆倆쀆쀆倆[1]퀆倆ꀇ瀆倆[1]怆倇䀇倇 倆[1]〇逆[1]倆 ဆ[1]〇倆䀆倇䀇ဆ[1][1]ဇ倇倆쀆[1]䀇ဆ怇쀆[1]瀆逆
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“Oh, ciao.” – Wes sbucò dal garage, con una pila di libri – “Avevo dimenticato questi in macchina. Mi aiuti?”

“Certo.” – rispose, togliendoli dalle mani e posandoli sul tavolo più vicino – “Dove sono gli altri?”

“Non intendevo questo.” – rispose l’uomo, fissando i suoi tomi – “Devi portarli di sopra…”

“Allora chiamiamo Spike. Non è lui quello dai poteri sovrumani?”

“Non c’è. E nemmeno Cordelia, la quale ha detto di cacciarti di casa se ti vedevo. Sarà meglio che ti cerchi una buona scusa…”

“Non c’è?”

“No.” – rispose Wes, aprendo il libro in cima al cumulo e sfogliandolo – “Ha detto che raggiungeva Faith...”

Il libro si chiuse con uno schianto. E Wes levò per un soffio le dita.

“Ha detto che raggiungeva Faith?” – ripeté Doyle, la mano ancora sulla copertina vibrante.

“Sì, ha parlato di una colazione e…” – Wes cambiò espressione – “Perché? Faith è in pericolo?”

Doyle lo fissò, senza parole. Gli occhi sbarrati.

Ho mentito a Spike, Doyle.

Gli ho detto che non c’era niente in pensione lo colse impreparato. Lo fece cadere. Rotolare, giù dal marciapiede.

 

Qualcuno urlò.

Ma l’urlo di Doyle fu più forte.

E pieno di disperazione.

 

***

 

“Sei pronto adesso?” – domandò Edward, alzando gli occhi verso il ballatoio. Era appoggiato al tavolo, le mani nelle tasche dei jeans.

Ed era tirato in viso, pallido. I suoi occhi erano incastonati, quasi indaco.

Per la prima volta da quando si conoscevano, Angel sentiva il cuore di Edward battere in maniera strana. E percepiva il suo respiro come se si stesse scomponendo.

 

Non era un concetto facile da rendere... ma il corpo di Edward stava reagendo a un pensiero. E identificava quel malessere come qualcosa di già vissuto... ma cosa…

 

“Avevo lasciato il telefono di sopra.” – spiegò, tenendolo tra le dita, mostrandolo – “Potrebbe servirmi. Vengo a casa anche io… passo dal sottosuolo.”

 

“E io?” – Faith aveva accantonato l’irritazione. Angel le aveva detto che avrebbe dovuto pazientare per poco. Di aspettarli da Methos. Che sarebbero tornati in fretta.

“Se arriva Doyle.” – aveva aggiunto l’immortale biondo – “Digli che vado a cercarmi le risposte da solo… che non gli farò più domande. Lui capirà.”

“Certo. Lui sì.” – tagliò corto la Cacciatrice, troppo terra terra, troppo tesa per poter intuire fino in fondo il dramma.

 

Ed ora, Edward la stava guardando. In piedi, pronto a uscire.

“Grazie, Faith.” – mormorò, con un accento strano, un accento che la ragazza riconobbe come qualcosa di già sentito – “Non volevo farti mentire. Non te lo avrei mai chiesto.”

 

Lui ti ama. E forse inizio a capire perché.

 

Faith fu colta di sprovvista da quelle parole, da quella tristezza velata.

Quel ragazzo portava un dolore nel cuore che non sapeva trasmettere, che non riusciva quasi più a celare. Ma, quando fu finalmente pronta a ricambiare, a parole, a gesti, sotto i suoi occhi vide mutare l’espressione.

 

Come succede in chi, dopo lunga attesa, finalmente affronta le sue paure.

E, paradossalmente, non teme più nulla.

 

Non ci si deve mai fermare all’attimo prima, Cacciatrice. La possibilità di salvarsi nasce dal saper dimenticare la frazione di secondo che precede la lotta. Dimentica l’attimo in cui sei ancora ferma, proietta il tuo cuore nella mischia.

Chi è nato per combattere ha paura solo mentre ancora non agisce.

 

Sì. Hai ragione, Spike.

Ma solo ora ho capito cosa intendi.

“A dopo, Faith.”

“A dopo, Eddy. Buona fortuna.”

 

Edward si era incamminato.

Ed Angel l’aveva affiancato, resistendo all’impulso di posargli una mano sulla spalla.

Il ragazzo non avrebbe apprezzato. L’avrebbe trovato un gesto vano, illusorio. Si preparava a muovere un passo che sapeva di dover fare da solo.

Non avrebbe mai voluto nessuno, per aiutare se stesso.

Se Angel lo seguiva... lo seguiva ora… era per Spike.

Per nessun altro all’infuori di Spike.

 

Esistono le scelte giuste per noi stessi… e quelle che compiamo per gli altri, senza nemmeno saperlo.

 

 

“Io adoro mio fratello. E’ un problema che ho dalla nascita.”

“William… ne hai parlato al presente…”

“Come?”

“Hai detto ‘adoro’ non” – si era interrotto, con imbarazzo – “non… adoravo…”

Spike lo fissò, con vago sarcasmo.

“Accertati di avere il coraggio di arrivare fino in fondo alla frase, la prossima volta.”- commentò, asciutto – “non cercare altro a metà strada.”

 

“Mio fratello” – aggiunse, alzandosi –” è nel mio cuore un passato perduto e un eterno presente. Ricordatelo, per la prossima volta.”

 

Angel non aveva risposto.

 Lo aveva solo osservato allontanarsi, con la sua andatura dinoccolata.

 

 

“Andiamo.” – sospirò Angel, seguendolo. E rispondendo al cellulare – “Pronto? Doyle?”

 

Edward aprì la porta.

E, in quell’attimo, Doyle apparve in cima alle scale.

E scivolò a terra.

 

Troppo tardi. Troppo tardi, ripeté, lasciando cadere pure il telefono che aveva tra le mani.

E rimanendo fermo, raggelato come Angel, nel realizzarsi della sua visione.

 

***

 

Un battito.

Forse due.

E il cuore che accelera. Un battito, ancora uno, l’ultimo che riusciamo a distinguere. E i pensieri muoiono, si accartocciano su loro stessi.

Soccombono al nostro corpo, ormai incontrollabile.

Nell’insopportabile silenzio, nella totale assenza di dubbio, nel riconoscersi con agghiacciante certezza.

 

Uno di fronte all’altro.

 

Occhi negli occhi.

 

Spike aveva ancora la mano alzata.

Le dita piegate, per bussare. E un sorriso beffardo, quello di sempre, che andava sgretolandosi con lentezza, insieme al ricadere della mano.

 

Spike.

 

Il sanguinario.

 

L'uccisore delle Cacciatrici.

 

William the Bloody.

 

William Coventry, il suo demone e la sua anima. L’ombra di se stesso.

 

Il viso era scarno, fatto di ossa sporgenti, non più celate dall’incarnato mortale, dagli occhiali, dai capelli sempre scomposti della sua adolescenza. Ora, in quei colori lattei ed esasperati, emergeva una bellezza maschia, univoca, da guerriero che Edward aveva potuto solo immaginare.

La bellezza del guerriero, con gli occhi del poeta.

No. Nemmeno il disegno di Angel gli aveva permesso di comprendere.

Non era preparato a tutto questo. Non era mai stato pronto a vederlo.

Mai, nei mesi, aveva provato a ricomporre quel viso nella mente e nel cuore. Mai.

Le labbra di Edward si dischiusero, senza che ne provenisse alcuna emozione.

 

“Edward.” – pronunciò Spike, senza svelare nulla. Quasi fosse solo un suono, non un nome.

 

La sua voce era roca e profonda, piena, da uomo. E al di là di ogni sentimento descrivibile.

Edward attese, incapace di rispondere, di muoversi. Attese altre parole, di rabbia, dolore, gioia… esitazione. Attese parole, parole comprensibili che riempissero l’atroce nulla, pur essendo il primo tra loro incapace di esprimersi.

 

Cercò di respirare, di riflettere. Ma la sua mente gli sembrò vuota, un’immensa tabula rasa piena soltanto di echi del passato.

 

Londra, 1857

 

Ormai c’era abituato. Quando la fitta tornava, si limitava a respirare più piano. L’aria usciva a piccolissimi soffi, per provocare meno dolore possibile.

La sensazione dell’aria nei polmoni, gli aveva spiegato, è come lo strofinare una mano su una spazzola. Si, più o meno è così.

E William si era sentito rabbrividire, innanzi a quella spiegazione.

“Non sempre.” – aveva aggiunto Edward, armeggiando con calma, con i lacci della camicia. Aveva enormi lividi sul petto. Bastava sfiorarlo, ormai, per lasciargli un segno. Edward era divenuto ciò che era sempre sembrato.

Un calice di cristallo colmo di luce.

 

“Sei certo che non vuoi ti accompagni?” – domandò William, quando lo vide afferrare i guanti e posarsi il mantello sull’avambraccio. Edward si voltò, sorridendogli appena. Il soggiorno in campagna, conclusosi solo da un paio di giorni, sembrava avergli restituito un po’ di energia, un pallido miraggio di quella che l’aveva sempre contraddistinto.

“Sicuro.” – rispose, avvicinandosi, obbligandolo ad alzarsi, abbandonando il libro che stava leggendo. Posandogli una mano sul collo e guardandolo – “Adam vuole solo chiacchierare, io ne approfitto per fare quattro passi. Al ritorno, se sarò stanco, mi farò riaccompagnare. Ti senti più sicuro, adesso?”

“No.” – replicò, con testardaggine. La mano di Edward era a malapena tiepida – “Voglio venire con te.”

“E invece starai a casa.” – sorrise, illuminando la stanza, con quegli occhi troppo vivi in un viso troppo pallido – “Perché sei un ragazzino e non ti voglio tra i piedi.”

“Questa è una novità, Edward.” – William si sforzò di sorridere, riuscendoci a malapena. Era così stanco, così stanco di restare in piedi. Così stanco di non potersi abbandonare a quel mare buio di dolore. Così stanco, eppur così certo che, se si fosse lasciato andare, sarebbe stato per sempre.

“Abituati.” – sussurrò, con leggerezza, suo fratello, baciandogli la fronte. E chiudendo gli occhi, ancora le labbra sulla sua pelle – “Voglio fare un sacco di cambiamenti, nelle prossime settimane.”

 

Settimane… William strinse gli occhi, con forza.

Forse è ora di iniziare a pensare solo in giorni… in ore…attimi…

Ma io non posso farlo… non posso… non posso se non lo fa Edward…

 

“Ancora dell’idea di cominciare a fumare?” – lo sbeffeggiò, tenendo il viso premuto contro al suo corpo. Contro la gola pulsante, la pelle troppo sottile.

 

Edward sta svanendo, ricordò a se stesso, nello sfiorargli un braccio. Sta’ attento, attento a non fargli male.

 

“Certo.” – Edward gli carezzò i capelli, con le dita – “Voglio provare quella novità francese… quelle sigarette. E ho in mente un altro paio di cose…”

“Inizio a preoccuparmi.” – William si scostò, per guardarlo in viso. Con occhi azzurri, incredibilmente sereni, puliti – “Solo un paio?”

“Magari un po’ di più. E tu dovresti fare altrettanto.” – Edward mosse un passo indietro e si infilò un guanto – “Comincia a fare una lista, Willie. Poi la confrontiamo, quando torno.”

“Allora ti aspetto alzato.”

“Guarda che la prendo come una promessa.”

“Contaci.”

“Allora a dopo, fratellino.” – aggiunse, voltandosi, a cavallo della porta – “E non ti preoccupare. Tornerò prima che tu riesca a sentire la mia mancanza.”

 

Non era mai tornato.

 

Non si erano mai più rivisti.

 

E la mancanza era divenuta oscurità senza fine.

 

Spike strinse i denti, e i suoi occhi divennero incredibilmente tersi.

 

Quello era un ricordo di William. E William, ciò che era stato, il ragazzo inglese fatto di utopie infrante, non esisteva più. La fiducia con cui guardava il mondo era morta, con lui, in quel vicolo, tra le braccia di Angelus.

William Coventry era morto, senza amore e senza luce.

 

All’improvviso, in quel silenzio, nella fissità del tempo congelato, Angel tornò a sentire il ritmo implacabile di un cuore sempre più veloce. E sapeva che, come lui, anche Spike avrebbe potuto sentirlo.

Poi comprese. Avrebbe potuto, non fosse stato il suo.

Non Edward.

Il cuore che batteva tanto forte da sembrar esplodere era quello di Spike, ancora immobile.

 

Spike, che ora lo fissava, come se non l’avesse mai visto.

 

Di fronte a lui, alle spalle di un fratello morto e sepolto da centocinquant’anni, c’era Angel. Edward ed Angel, insieme.

Gli sembrava di poter soffocare.

Era certo che, nel giro di qualche attimo, il suo corpo avrebbe cominciato a sgretolarsi, come nei suoi incubi, come nelle notti di terrore in cui la luce lo colpiva. E lo uccideva.

Edward.

Ed Angel.

 

Angel che sapeva...

 

Si impose di restare lucido. Mosse un passo indietro, barcollando.

Ed Edward, d’istinto, tese un braccio. E lo afferrò.

“William, aspetta.”

 

La sua voce fu uno shock. Sotto lo sguardo ammutolito di Angel, Spike si divincolò, finendo contro il muro, gli occhi sbarrati, il terrore dipinto sui lineamenti.

 

La paura, un attimo prima di tramutarsi in furia.

“Sei vivo.” – ansimò. Una voce aliena sulle sue labbra, troppo dura, il corpo contro la parete, per restare in piedi – “Immortale.”

 

Eri tu.

 

Eri tu, quella notte.

 

Si piegò su se stesso, cercando di stritolare la fiammata che gli si propagò dal torace, dal punto in cui il coltello malese l’aveva trapassato.

 

Inconsciamente…

 

“Immortale.” – ripeté. E la parola ebbe il suono della condanna.

Mi hai lasciato solo. Ed eri vivo. Mi hai lasciato solo.

 

A mio fratello. Per la strada che percorreremo assieme.

 

Solo a morire.

 

Per la strada che percorreremo assieme.

 

Solo.

 

Promettimi che, quando ti mancherà la forza… prenderai la mia

 

Solo per oltre un secolo.

 

Voglio la mia splendida vita… tutta davanti agli occhi…

 

Tu non sei Edward.

 

I suoi occhi divennero dorati.

E Spike si raddrizzò, allontanandosi per il corridoio.

 

 

[III]

 

 

Il tempo divenne pietra. E l’aria scomparve. Edward chiuse gli occhi, accusando il colpo.

 

Tutto perduto, sussurrò a se stesso. Tutto perduto.

Che cosa ho fatto…

 

Abbassò la testa, cercando di respirare. Dietro di lui, nemmeno Angel osava muoversi.

 

Conosceva quello sguardo. Aveva sentito il demone di Spike emergere con assoluto tempismo. Ed ora, con quel battito terrificante ancora nella mente, con quel cuore fuori controllo nella memoria, non osava muoversi.

Faith gli era venuta a fianco. E lo stava fissando.

Ma Angel non osava guardarla.

 

Faith sapeva.

Faith adesso sapeva ogni cosa.

E, come Spike, non stava comprendendo.

 

Il vampiro biondo percorse con estrema calma il corridoio, quasi non ci fosse motivo per affrettarsi. Si sentiva la mente stranamente informe, priva di un equilibrio logico, di un miraggio di lucidità.

Pensava solo ai suoi incubi, all’inspiegabile scivolare dei pensieri a fianco di una realtà ignorata.

 

Pensava al Kriss malese, domandandosi perché non se l’era mai estratto dal petto.

 

Pensava alla paura di soffocare.

Una paura sciocca per chi è già morto.

 

In fondo al corridoio, faticando a mettersi in piedi, Doyle gli sbarrò il passo.

 

E Spike alzò occhi liquidi e algidi verso di lui.

 

“Tu non vuoi che le cose vadano in questo modo.” – disse il demone. Sapeva di perdere sangue dal naso, di avere una grossa escoriazione sulla guancia, sulla fronte. Cose che possono succedere quando voli sull’asfalto, correndo come un dannato.

E sapeva che, in frangenti normali, Spike non lo avrebbe mai guardato così.

Perché non l’aveva mai fatto.

 

E mai, mai, gli avrebbe sorriso in quel modo.

 

Spike non si lasciò né intimorire, né preoccupare. E Doyle, con un brivido, fissò negli occhi il sanguinario. Il vampiro biondo senza scrupoli del loro primo incontro.

Non c’era William, in quel corpo.

 

“Levati.” – gli disse l’essere. Il vampiro della gemma di Amarra, l’uccisore delle Cacciatrici.

 

Da qualche parte, nel fondo della mente, Spike si sentì ridere, divertito.

 

Doyle sapeva. Come stupirsi del contrario.

Come Methos.

Come Angel.

 

Già, come Angel.

E, dilatando le narici e aspirando, come Faith.

 

Sì, come Faith, valutò, con freddezza, fissando il demone, ancora stoicamente immobile.

 

Doyle, Angel, Faith. Doyle, Angel, Faith. Doyle, Angel, Faith. Doyle, Angel, Faith.

 

E io… che ti ho chiamato amico… fratello… amore…

 

Alcuni passi rimbombarono alle sue spalle, una mano lo afferrò, facendolo voltare.

Non oppose resistenza, sentendo il proprio corpo cedere a quell’energia.

 

Perché irrigidirsi, a conti fatti.

 

E perché scappare. Non aveva nulla da nascondere.

 

Alzò gli occhi verso l’uomo che lo tratteneva. Quasi studiatamente, le sue ciglia oro gli adombrarono le iridi, prima di svelarle del tutto.

 

E ritrovandosi di fronte suo fratello... quello che sembrava suo fratello.

 

Lo fissò, rendendosi conto di ricordarlo veramente, alla perfezione, quasi non fosse passato un giorno.

Edward portava i capelli più corti. E una barba appena visibile. Ma i suoi occhi erano ancora dell’azzurro perfetto del cielo di Provenza, di quell’estate in Provenza trascorsa insieme, da Carrol.

Era ancora di quella bellezza struggente e giovanile. La luce perfetta non più minata dall’agonia. Era ancora il calice colmo di luce delle sue fantasticherie.

 

Peccato sia trascorso del tempo, considerò, con pigro rimpianto, guardandolo.

Peccato tu non sia veramente Edward.

 

“Voglio spiegarti.” – disse l’immortale, lo sguardo perso sul suo viso. Non c’era più somiglianza tra loro, tutti gli avevano mentito. Spike aveva occhi enormi, grigio azzurri. Occhi che William non aveva mai avuto.

 

Occhi che si doravano leggermente, facendogli pensare alla trasformazione.

 

Alla mutazione che non aveva mai visto.

Ma di cui aveva solo letto.

 

Le cartilagini si deformano, il naso ne viene quasi inglobato. Il demone ha un viso pronunciato, in cui gli occhi sembrano sparire, di un perfetto giallo oro. La bocca risalta, dotata di denti aguzzi…

 

Occhi gialli… forse una licenza del descrittore.

William aveva ancora occhi chiari, dotati forse di alcuni bagliori dorati.

 

E, in fondo, nel profondo, ancora la luce.

Edward ne fu quasi stordito, nell’attimo in cui la colse.

Eccola. La rifulgenza di William.

 

Visibile, per un singolo istante.

 

“Ah sì?” – disse suo fratello, sorridendogli, movendo in una danza grottesca i lineamenti. E spezzandogli il cuore, con un sorriso duro, crudele – “Anche io voglio spiegarti.”

 

Mutò, prima ancora che Edward potesse rendersi conto, prima che potesse sentirsi preparato, mentre volava contro la parete, sbattendo la schiena con violenza.

 

Un dolore atroce presto sostituito da una fiammata indescrivibile, alla base del collo.

 

Un dolore capace di superare la resistenza umana. Ad un passo dal divenire piacere.

Inarcò la testa, quasi accompagnando quella pressione. E la fronte di William, la fronte su cui così spesso aveva posato le labbra, gli sfiorò il viso. Fredda e dura.

Lo cinse, nella promessa di un abbraccio. E divenne morsa.

Edward sussultò, con tutto il corpo. I polmoni, compressi dal peso e dalla sensazione sbagliata, si vuotarono, riempiendogli la visuale di luci e macchie.

Ombre scure, in una notte che avanza.

 

I denti di Spike gli penetrarono la giugulare senza esitazione.

La prima sorsata dette a Edward la sensazione di essere risucchiato, che tutta la sua anima stesse precipitando fuori dal corpo. Annaspò, artigliando la parete con le unghie, voltando la testa, mentre la visuale si riempiva di immagini confuse.

 

Il suo cuore accelerò, quasi scoppiandogli, al centro del petto.

Doyle, respinto senza sforzo apparente, volò verso il fondo del corridoio, evitando per un soffio di precipitare giù dalle scale. Faith, che aveva afferrato Angel per un braccio, nel tentativo di parlargli, si sentì respingere. E si voltò appena in tempo per vedere la scena.

Spike si stava cibando di Edward, in un abbraccio di morte.

Spike beveva il suo stesso sangue, senza remore.

Raggelata, lasciò andare Angel. Ma non osò muoversi, mentre l’immortale, con un ultimo sforzo, voltava il capo verso di lei. E la fissava, con occhi vuoti, come mille vittime per cui la Cacciatrice era giunta troppo tardi.

 

Methos le passò a fianco, correndo, ancora a torso nudo.

 

Edward perse il contatto con il reale. Un respiro gli uscì ancora dalle labbra, simile a un fischio, proprio nell’attimo in cui Spike lo lasciò andare, facendolo precipitare riverso, a terra. Con la testa inarcata, ebbe l’impressione di vedere Angel, di sentire la sua voce.

E, con una volontà che gli sembrava di non poter avere, si impose di restare cosciente.

 

Angel si fermò, le mani già protese verso Spike. Rendendosi conto solo in quel momento di aver urlato il suo nome, chiamandolo, chiamandoli entrambi, senza risposta.

 

Spike non si era voltato.

E non aveva lasciato andare Edward perché finalmente consapevole del suo gesto.

 

Angel colse quest’assenza di colpa. Come Doyle, seduto scompostamente, pochi metri oltre.

Come Methos, adesso immobile, dietro di lui, così vicino da investirlo con il suo calore corporeo.

No. In Spike, non c’era coscienza.

Ed Angel, con crescente paralisi, lo fissò. Immobile, impegnato a sovrastare suo fratello Edward, la bocca quasi schiumante di sangue.

 

E il volto della caccia, ancora in vista.

 

“Guardami, immortale.” – lo sentì dire. Il tono del comando, tornando ai suoi lineamenti.

Al volto perfetto, da cherubino. E, constatò Angel, con orrore, gli occhi vacui di Edward ricambiarono l’occhiata del demone. Annientati – “Sono un vampiro. E mi chiamo Spike.

Stammi lontano. O io ti ucciderò.”

 

E Doyle non lo ostacolò più, quando gli passò a fianco.

 

***

 

Methos fu il primo a riaversi. Si piegò su Edward, premendo la mano sulla ferita ancora sanguinante.

Spike aveva fatto un buon lavoro, privandolo solo del sangue necessario per intontirlo, considerò Angel, abbassando gli occhi. Gli aveva donato il battito lento e ipnotico dell’agonia, lo stesso che Drusilla gli aveva fatto conoscere, la notte del loro incontro.

Spike aveva riprodotto la sua vampirizzazione, con precisione preoccupante. Per quel motivo non gli aveva parlato, non si era voltato, con una singola parola di disprezzo, per lui, per il suo sire.

 

Era Edward, il suo messaggio.

Edward a terra, ai sui piedi, così simile a William. Vittima di una morte lenta ad avanzare.

La luce che scompare, goccia dopo goccia.

 

Sì, quell’immagine parlava a Angel, ad Angelus.

 

Lo volevi, no?

Prendilo.

Prendilo ora.

Anche io so distruggere.

 

Sbatté le palpebre, sorpreso. Poteva sentirlo di nuovo. Di nuovo quel loro legame telepatico, inspiegabile. Non pensieri, ma idee informi, ancora sospese nell’aria, tra loro.

 

Lo proteggevi… hai scelto lui e non me, questa volta…

 

Prendilo, allora.

 

Perché tra noi…

 

Faith lo urtò, passandogli a fianco, senza che si sentisse in dovere di opporre resistenza.

Senza riuscire a badare a lei, alla sua Faith, che correva verso le scale.

 

Spike non gli aveva detto nulla. Nulla.

 

Condannati senza difesa. Condannati per tradimento. E, cosa peggiore, pensò Angel, veramente colpevoli di tutto questo.

 

Doyle, più pronto di lui, afferrò la ragazza.

“Lasciami, Doyle, lasciami.” – ringhiò lei, senza osare atterrarlo. Doyle aveva una faccia spaventosa e Faith portava ancora negli occhi l’immagine della crudeltà di Spike e, buon Dio, ne provava ribrezzo.

Non voglio essere come lui, non voglio essere come lui…

“Farà a te ciò che ha fatto a lui.” – rispose il demone, rendendosi conto di non poter controllare la voce. Di star quasi piangendo. E tremando – “Non dargli qualcos’altro di cui pentirsi. Angel…”

 

Il vampiro alzò gli occhi verso di lui. Verso il suo povero cantastorie, che teneva una mano aggrappata al corrimano, per restare in piedi, e un braccio intorno alla vita della Cacciatrice. Della ragazza di Spike, disperata.

 

Ti prego, uomo…

 

Si impose di restare lucido. E si mosse, passando oltre Edward, ancora riverso a terra.

Non ricordare, non ricordare ora…

 

“Me ne occupo io.” – disse, tendendo le mani e afferrando il viso di Faith. Constatando, con sollievo, che non si sarebbe scostata – “Non era così che sarebbe dovuta andare.”

La ragazza annuì, sotto shock. Non era certa di cogliere veramente la valenza delle parole di Angel. Ma si calmò comunque, permettendo a Doyle di lasciarla andare. E voltandosi verso di lui, per sorreggerlo.

“Ti aspetto qui.” – rispose, senza emozione.

 

Tornate insieme, ti prego... ti prego, Angel…

 

“Vai anche tu…” – sussurrò Edward, mentre Methos si chinava verso di lui – “Anche tu…”

Quella voce flebile… e quel suo restare sempre attaccato alla vita, a un filo sempre più fine.   

 

Oh, Coventry…

 

“Io non posso fare nulla.” – ribatté l’immortale a denti stretti. I segni del morso di Spike non si stavano rimarginando. Il sangue continuava a scivolargli tra le dita.

Certo… non una ferita qualsiasi... questa è una ferita dell’anima…

 

“Angel.” – Edward piegò la testa da un lato, mentre le lacrime si mischiavano al sangue - “Ucciderà Angel…”

“Non lo farà.” – rispose Faith, riapparendo a fianco di Methos. Doyle sembrava stare in piedi da solo – “Non restiamo qui.”

“Devo andare…”

“No, Edward.” – rispose la ragazza. E Methos la lasciò fare, per quell’aura che di nuovo stava sprigionando. La forza della prescelta, mentre gli sollevava il capo e lo aiutava a sedersi, sostenendolo – “Non ora. Methos, aiutami.

Da sola non ce la faccio.”

 

La botola era ancora aperta. Ed Angel saltò, senza pensare.

Quando atterrò, se lo trovò di fronte.

E l’odore di sangue lo colpì, nauseante.

 

Spike era appoggiato alla parete, con entrambe le mani.

E stava rigettando quel suo pasto.

Rigettava il sangue di Edward, posando la fronte, senza smettere di tossire.

E piangere. Piangere, con la furia del demone.

Quella vista gli diede un improvviso e inaspettato sollievo. Perché quello, stravolto, senza una reale identità, sembrava comunque William. E non l’automa che aveva quasi dissanguato il fratello.

Mosse un passo verso di lui. E Spike ruotò su se stesso, posando le scapole al condotto.

Guardandolo, con occhi iniettati di sangue.

“Stammi lontano.” – disse, senza una sbavatura nella voce. Il sangue gli rigò il mento, dandogli un aspetto sepolcrale.

“Devi ascoltarmi.”

“No.” – rise.

“William, dovevo dirtelo. Lo so. E voglio...”

“Troppo tardi.” – troncò. E si pulì la bocca con il dorso della mano – “Risparmiati la fatica di inventare. Quello che ho detto di sopra vale anche per te, figlio di puttana.

Tu ed io abbiamo chiuso.”

 

Chiuso.

 

Tra Spike ed Angel c’era sempre stato un tacito accordo, dal primo giorno.

Angel credeva a Spike.

Spike credeva ad Angel.

Senza esitazioni.

 

E quindi, per la prima volta da molto tempo, Angel sperò che Spike stesse mentendo. E fu tentato di convincersene, per combattere meglio quelle sue affermazioni.

Purtroppo, il freddo paralizzante che l’aveva investito insieme a quelle parole, gli impediva di affidarsi ciecamente a un’illusione di quella portata.

Rabbia o no, Spike non era mai stato come ora.

Perché solo ora, per la prima volta, quel suo cuore inspiegabile, immenso e potente, martoriato e spezzato all’infinito, conosceva l’assoluto dolore del tradimento.

 

Rimase in silenzio. Immobile.

Ma Spike non ne approfittò per andarsene. Restò fermo, piegandosi sul fianco. E continuando a stare male, con la mente piena di urla.

 

Londra, 1859

 

Quando finalmente scendeva la sera, poteva piangere.

Attendeva che si spegnessero le luci di casa e attraversava il corridoio, a piedi nudi.

E andava sul letto di Edward.

A volte restava in piedi, guardava il copriletto bianco, le rose appassite sui comodini, l’ultimo libro, interrotto, ancora abbandonato sulla poltrona, vicino a un altro, ancora da scoprire.

Guardava con attenzione di non lasciare nulla fuori posto, dopo aver chiuso a chiave, con attenzione, la porta.

Ai suoi genitori non avrebbe fatto piacere cogliere quella debolezza. Non avrebbero apprezzato l’intrusione di quello spazio dal tempo fermo, come un orologio rotto.

La stanza di Edward era piena di fantasmi.

E i fantasmi non dovevano uscirne mai.

Ma nulla poteva impedire a lui di restare lì, con loro, nel buio.

Il lampione ad acetilene della via gettava una luce soffusa, tra le tende scostate. Gli sarebbe piaciuto aprire la finestra, ma sarebbe fuggito il profumo della lavanda sparsa tra le lenzuola.

E nulla doveva mutare, in quello spazio.

Tutto doveva essere nuovamente a posto, all’alba.

 

Si sedeva nella poltrona. E piegava le ginocchia. Chiudeva gli occhi e respirava a fondo.

Tamburellava sul legno intarsiato. E attendeva.

Le lacrime non erano dame che si facevano attendere.

Bastava lasciarle libere e sarebbero scese, senza fermarsi mai più.

Bastava arrendersi.

E le notti in cui lo faceva, erano le migliori.

 

Ma quella… quella non era una notte per piangere.

Era una notte per urlare.

E le urla andavano represse.

Represse anche se rimbombavano dentro la testa, inesorabili. E spezzavano il fiato.

 

Quelle erano le notti in cui la tenebra lo chiamava. E William non sapeva resistere.

Dalle tenebre, si illudeva, avrebbe potuto cogliere ancora la luce.

Dalle tenebre, avrebbe saputo vederla, una volta ancora.

 

Aveva piegato la testa. Si era guardato nello specchio.

Aveva occhi che brillavano. E non riusciva a riconoscersi.

 

L’eternità… e la rifulgenza…

 

Buon compleanno, Edward.

Ovunque tu sia.

 

Si raddrizzò, barcollando. E quando Angel sembrò muoversi verso di lui, lasciò semplicemente emergere il demone.

“Chiaro il messaggio?” – domandò.

Era strano, pensò Angel, strano quel volto da demone, con gli occhi azzurri…

 

“Non del tutto.” – rispose, incrociando le braccia. Non sapeva nemmeno perché lo aveva detto. Non avrebbe fatto altro che aumentare la sua rabbia.

Restò immobile, in un certo senso al di fuori della sua portata – “Mi rifiuto di essere d’accordo sulla fine del nostro idillio.”

Spike scosse le testa. E la risata demoniaca divenne umana, mentre tornava a mostrare il suo viso.

“Me ne frego, Angel. Me ne frego delle tue ragioni. Me ne frego di te, del tuo protetto e di tutta questa faccenda.”

“Il protetto in questione è tuo fratello. Abbi almeno la decenza di chiamarlo con il suo nome.” – rispose. Con la fastidiosa sensazione di essere un ipocrita, su un alto piedistallo per predicare una correttezza che per primo aveva ignorato – “E lo sai benissimo. Per cui smettila.”

E’ il tuo stesso sangue.

Non esiste nulla al mondo di altrettanto forte, intossicante, per un vampiro.

E’ il sangue della tua famiglia.

Spike si appoggiò alla parete, con atteggiamento indolente. Ed estrasse il pacchetto di sigarette, prendendone una. Con mano perfettamente ferma. La accese. E il Dupont che teneva tra le dita gli sembrò rovente.

Lo fissò, sorpreso, prima di lasciarlo cadere nell’acqua stagna sul fondo del condotto. Guardandolo precipitare, con rotazioni quasi lente.

 

La fine… la fine di un altro idolo…

 

“Da quando lo sai?” – chiese, con curiosità, mentre l’oggetto affondava nel buio. Con noncuranza, tirando una boccata e guardando il vampiro bruno. Era nuovamente senz’anima, in ogni suo gesto. Era nuovamente l’amore di Drusilla, nella sua massima bellezza e aberrazione.

“Da quando abbiamo combattuto.” – rispose, con voce piatta – “Lui e Methos non si vedevano da parecchio. L’aveva appena saputo... saputo di te…”

 

Eccolo dunque… ecco dove inizia il mio viale dei sogni infranti…

 

“Quindi fanno… suppergiù…” – alzò gli occhi, conteggiando – “sei mesi. Quasi sei mesi.  Calcolando che la tua loquacità media è una parola al mese direi che siamo ancora nello standard delle informazioni che non hai ancora avuto il tempo di darmi. Pensi di tirar fuori qualche altro mio parente dal cilindro?”

L’aveva detto indurendosi, perdendo la facciata beffarda. E gli occhi erano diventati fosforescenti, al buio.

“William.”

“Io non sono William.”

“Oh, sì che lo sei.”

“Stronzate. E’ solo un nome.” - Si raddrizzò, per andarsene. E restò in piedi per miracolo, con la bocca nuovamente in fiamme, piena del sapore di Edward.

Il suo sapore, il profumo dei suoi capelli… non erano bastate l’eternità e la dannazione per cacciarli dalla mente.

Edward e la vita che scaturiva da lui.

 

Edward. Tu per me sei polvere più di quanto io stesso non sarò mai.

 

“Addio.” – aggiunse, voltandogli le spalle.

E sentendo la sua voce seguirlo, per pochi passi, prima di fermarsi nuovamente.

 

“Davvero non capisci, Spike? Guardalo meglio, pensa alla sua immortalità. E’ vivo, ha il giorno e la notte.” – lo seguì, sempre a braccia conserte, il passo tranquillo – “Puoi arrabbiarti con me, se vuoi… ma devi provare a capirlo.”

Si interruppe. E Spike non si mosse.

“Ti ha rimpianto tutta la sua vita…” – riprese – “Eri morto, non ha mai sospettato cosa ti fosse accaduto. E quando l’ha scoperto, ha ritenuto fosse troppo tardi, per tornare.

 

Edward sa cosa sia la nostra oscurità.

Non ha voluto metterti innanzi al fatto... a ciò di cui sei privato.”

 

Tu lo conosci, meglio di chiunque altro.

Ma anche a un estraneo come me non è celato il suo amore per la luce. E per l’esistenza, quell’enorme rispetto che ha per la vitalità.

 

“La vita, la luce... certo.” – Spike si voltò spegnendo la sigaretta. E guardandolo – “Stai in effetti parlando di una persona che conoscevo… una persona eccezionale. Peccato sia morta più di centocinquant’anni fa.”

“Non è vero, smetti di difenderti dalla verità.”

“Finiscila, Angel.” – ringhiò. E camminò verso di lui – “Smetti di girarci intorno. Tu lo sapevi, tu sapevi cosa pensavo… che cosa provavo…”

 

Forse non se ne rendeva nemmeno conto… ma non era più così calmo, così distaccato.

E, soprattutto, nel suo dolore, non era così demoniaco.

 

“Lo sapevi, Angel. Sapevi che mi ricordavo di lui. E avresti dovuto dirglielo. Prima che mi accoltellasse, prima che io lo colpissi, prima che fuggisse... prima, Angel. Tu avresti dovuto, dannazione, tu avresti…”

Si interruppe, la mano alzata.

“Ma cosa ti parlo a fare…” – aggiunse, con voce roca, piangendo – “cosa parlo con te, di questa cosa morta e sepolta.”

 

“Non è morto, William.”

 

“Sì, invece. Lui. E io.” – lo corresse – “Io sono morto. Io sono un demone, io! Edward non c’era, non c’era nessuno, non c’era amore, nulla! C’è una vita infinita tra me e l’attimo in cui ho perso mio fratello. Morto… vivo... non ha più importanza.

 

Edward mi ha mentito.

 

Tu mi hai mentito.”

 

Si interruppe. E rise, continuando a piangere.

 

“Tu mi hai mentito, Angel.” – ripeté.

 

Perché.. perché l’hai fatto…

Camminò a ritroso, lungo il condotto.

 

“E sai quale è la cosa più buffa? Che vi siete sbagliati, con le vostre cazzate filosofeggianti.” – aggiunse, sempre sorridendo – “Perché non mi è mai importato della luce del giorno quanto di lui.

Credimi.

 

In ogni giorno della mia esistenza non è mai esistita luce che valesse più di Edward.”

 

Non sono io che non capisco.

Siete voi che non mi conoscete.

 

***

 

Quando aprì gli occhi, la prima fastidiosa sensazione fu di déjà-vu.

Prima ancora dell’intorpidimento, ebbe la netta sensazione del ripetersi della storia.

E lo fissò, con cipiglio, seduto a lato del divano, le mani intrecciate, i gomiti appoggiati alle ginocchia.

“Cosa ci fai qui.” - Domandò, senza preoccuparsi della voce troppo roca e bassa.

“Non mi andava di andarmene.” – replicò Angel, senza muoversi. Teneva qualcosa tra le dita, qualcosa con cui stava giocherellando – “Come ti senti?”

Edward non rispose. Fissò il soffitto, senza espressione.

Ed Angel si era alzato, camminando con lentezza lungo il perimetro della stanza, fino a sostare in piedi, a centro stanza, senza un vero argomento da affrontare.

Poco lontano, seduto sull’alto sgabello, con Methos impegnato a ricucirgli la faccia, c’era Doyle.

“Stai fermo.” – lo ammonì l’immortale, tirando il filo verso di sé – “Non intendo ricamarti tutta la fronte.”

“Si è svegliato.”

“Lo so.” – lo sapevo già – “E ha bisogno di stare in pace, almeno un paio di minuti. Ho il tempo di finire qui.”

Doyle spostò gli occhi, per guardarlo. Methos emanava una calma incredibile. Era la sua peculiarità, la più impensabile. Collerico e impulsivo, per niente propenso alla mediazione, l’immortale sapeva comunque essere rassicurante.

Quasi balsamico.

“Methos…”

“Uh?”

“A cosa stai pensando?”

Methos sorrise, tenendo gli occhi puntati alla ferita. Stringendo gli occhi, continuando la sutura.

“Non riesci a sentirlo?” – domandò, mettendo un altro punto.

“No. Certe volte sei inattaccabile.” – ammise. E tornò a sentirsi il ragazzino irlandese di tanto tempo prima.

 

America, anni novanta

 

“Io non mi capacito della tua idiozia.” – disse Methos, guardandolo – “Sei una disgrazia.”
“Non è vero.” – protestò Doyle, abbassando lo straccio bagnato che si teneva premuto in fronte. Aveva il segno di quattro nocche e un anello al centro della faccia – “Mi ha preso alle spalle.”

“E colpito in mezzo agli occhi?” – sottolineò l’uomo, afferrandogli il mento e palpandogli il naso – “Complimenti. E’ la prima volta che vedo uno colpito alle spalle con il setto nasale fratturato da un pugno. Prodigi dei tempi moderni…”

“Mi tenevano in due…”

“Perché non in tre, a questo punto? Tu non sapessi di birra potrei pensare che ti abbiano picchiato i bambini dell’oratorio…”

“Methos!”

“Francis!” – scimmiottò, immergendo di nuovo lo straccio nell’acqua e obbligandolo a restare fermo, continuando a medicarlo – “Tu non sai fare a pugni, impara a stare fuori dalle risse.”

“Doyle.”

“Come?”

“Mi piace che mi chiamino Doyle. E’ meno stupido di Francis Allen.”

Methos finì di strofinargli una spelatura. E, con un cenno, lo obbligò a mostrargli le mani.

Nocche spelate in quantità.

“Bhe, almeno so che le hai rese.” – commentò – “Quanto al nome, hai ragione. E’ un nome un po’ stupido. Ma è tuo e devi tenertelo… comunque cercherò di ricordarmi, Doyle.”

“Grazie.” – quello che amava di Methos era il suo non discutere questioni superflue – “Ti sei mai cambiato il nome?”

“E’ una domanda polemica?”

“No.” – provò a scuotere la testa e venne bloccato, poi disinfettato senza misericordia – “E’ pura curiosità.”

“Almeno un centinaio di volte.” – si prese una sedia e si sedette, di fronte al ragazzo – “Doyle, posso chiederti di tenerti fuori dai guai?”

Doyle abbassò gli occhi, guardandosi le mani.

“In media lo faccio.” – ammise – “Ma questa volta non potevo.”

“Perché no?”

“Perché…” – adesso mi prendo un altro pugno sul naso – “ho avuto… cioè io… non so come mi sia successo ma…”

Methos lo fissò, indecifrabile. Poi, con un sospiro, si passò una mano sul viso.

“Francis.” – disse, con sopportazione - “Mi stai dicendo che hai avuto una visione?”

“Una sola. Non troppo lunga.” – si affrettò a spiegare il ragazzo – “E questa volta sono riuscito a capire che posto fosse e quindi… che volevi che facessi, insomma!”

“Potevi telefonarmi…”

“Non credo si possa.” – si interruppe, imbarazzato – “Cioè, io mi fido ma tu… tu non sei uno di loro.”

Uno di loro… intendi dire un eroe.

Methos non fece commenti. Non c’era molto da aggiungere. Aveva sempre saputo come quello fosse il destino di Francis. Non aveva occhi di quel genere per caso.

Aveva solo sperato che quel giorno non arrivasse tanto presto.

 

Se tu sei qui, ora… presto giungerà anche l’eroe che attendi.

Il problema è che tu sia ancora vivo quando sarà il momento di incontrarlo.

 

Oh, Sinead… sei veramente certa che sappia proteggerlo?

Io non so nemmeno da dove cominciare…

 

“D’accordo.” – rispose, afferrandogli una mano e pulendogli il taglio – “Allora è il momento che tu prenda qualche lezione di boxe. Ho un amico che può aiutarci.”

Doyle annuì, restando in silenzio. E Methos non fece altri commenti.

 

“Meglio così.” – rispose, sempre sorridendo, sempre senza fissarlo negli occhi. La mano con cui gli teneva il mento era salda, solida come tutta la sua personalità – “Credimi, Francis. In questo momento preferisco che tu non sappia cosa sto pensando.”

 

Prese la forbice e tagliò il filo.

“Faith.” – chiamò – “Metti un cerotto a questo eroe, per piacere.”

La Cacciatrice era appoggiata alla cornice della finestra. E sbirciava in strada, in aria assorta, scostando la tenda con le dita. Non aveva più detto nulla, a nessuno di loro.

Più nulla, da quando aveva aiutato Methos a trasportare Edward sul divano dove ancora si trovava.

Nulla, da quando Angel era rientrato.

 

Si erano scambiati solo due parole, sulla porta, dove lei l’aveva atteso.

Quando Angel era apparso in cima alla rampa di scale, Faith lo aveva guardato, sperando che, con un attimo di ritardo, spuntasse anche Spike.

E non era servito molto tempo, per vederle negli occhi la cinica autoderisione di chi si illude.

“Dove è andato?” – domandò, appoggiando la tempia allo stipite, obbligandolo a fermarsi.

“Chi può dirlo… spero a casa.” – rispose Angel, guardandola – “Non farà sciocchezze... anche se non è del tutto in sé.”

“Tu lo saresti?” – rispose, senza astio. Con infinita tristezza, guardandolo, con gli enormi occhi scuri – “E come fai ad essere certo che non farà qualcosa di peggiore…”

“Peggiore di ciò che ha fatto a Edward?” – concluse Angel, mettendo le mani in tasca. E sentendo, duro, sotto le dita, l’accendino d’argento – “Peggiore di ciò che io ho fatto a lui non dicendoglielo? No, stai tranquilla.”

“E come posso.” – rise lei, disperata – “Quando so che si farà del male a tutti i costi…”

Angel tacque. E, per quanto desiderasse abbracciarla, rimase fermo.

“Mi dispiace, Faith. Non volevo coinvolgerti.” – disse. Ed ebbe l’impressione di farle un torto, nel continuare a ripeterlo.

 

Quasi Faith non potesse capire, intuire…

 

Perché no. Dopotutto lo pensavo.

Pensavo che non potesse capire.

Come Spike.

 

“Lo so. Tu non vuoi mai coinvolgerci.” – sospirò lei, posandogli il viso sul petto. Sorprendendolo, in quel gesto di affetto – “Non vuoi mai farci soffrire, non puoi dirci tutto… e anche questa volta scommetto che ti sei sobbarcato un segreto del genere perché dovevi. Io la penso così. Perché non posso pensare che…”

Si interruppe. Non sapeva come dirlo.

Non sapeva come esprimerlo.

“Non volevo, Faith.” – sussurrò Angel – “Non volevo nasconderglielo. Ma non potevo nemmeno essere io a dirglielo.

Non potevo. Non stava a me.”

“Lo so.” – chiuse gli occhi. E pensò che il cuore può far male sempre e solo nel modo più imprevedibile – “Rispetto la tua scelta. Ma ora... cosa accadrà ora?”

Angel non aveva una risposta. Non una reale. Non una rassicurante.

“Diamogli un po’ di tempo.” – rispose, mentre la ragazza di raddrizzava, rompendo il loro abbraccio – “E poi andiamo a cercarlo.”

“Tu ed io?” – sorrise la ragazza, con aria avvilita.

 

“Siamo la sua famiglia, Faith. Se non lo cerchiamo noi, non lo cercherà nessuno.”

 

Faith si avvicinò a Doyle, afferrando sul passaggio il richiesto.

E Methos andò verso il divano, piegandosi verso Edward.

“Ciao.” - Disse, apparendo nella sua visuale – “Ancora vivo?”

Edward non gli rispose. L’avambraccio che teneva sugli occhi si spostò sulla fronte, permettendogli di incontrare gli occhi indefinibili di Methos.

“Abbassa il braccio, fammi vedere.” – disse l’uomo, obbligandolo a voltare la testa e sollevando la garza.

Al di sotto, appena visibili, c’erano i segni rossi di una ferita quasi rimarginata.

“Meglio di prima.” – commentò, pragmatico – “La testa? Ti gira ancora?”

“Non sono morto?” – domandò Edward, guardandolo. Aveva una voce del tutto priva di intonazione. E occhi densi, quasi grigi di pioggia.

“No.” – Methos scosse la testa – “Ti stai riprendendo comunque. Ti ci vorrà solo un po’ di più.”

“Allora ammazzami.” – replicò, afferrando la mano che gli veniva tesa e sedendosi – “Per piacere.”

Methos non si prese la briga di rispondere. Si alzò, allontanandosi.

Ed Edward si massaggiò gli occhi, cercando di snebbiarsi. E intrecciò le mani, posandoci le labbra, tornando a fissare Angel.

“Lui dov’è, ora?”

“Non lo so.” – Angel scosse la testa – “Ho provato a parlarci. Ma non credo di essere la persona più adatta, al momento.”

“Nemmeno io, se è per questo.” – rispose, tornando a massaggiarsi la fronte.

Non si illudeva di morire, di quel dolore. Il freddo della disperazione che provava si sarebbe semplicemente fuso con l’incomprensione, con il rimpianto, se non avesse posto un freno a quell’angoscia. Si impose di restare calmo, di ragionare, con il cuore, con la mente.

 

L’esistenza è una fitta trama, di legami indissolubili e sogni infranti. Mi sono illuso troppo tempo di non cadere, di poter restare in equilibrio dentro a quel segreto lacerante.

 

Adesso basta.

 

Chiuse gli occhi, cercando di snebbiarsi.

Non osava nemmeno sfiorare il punto in cui i denti di Spike gli avevano scalfito la pelle. La sua mente si rifiutava di realizzare, di prendere del tutto coscienza dell’accaduto.

No.

Ignorare quel fatto sarebbe potuto essere un ennesimo sbaglio. Non era il momento di abbandonarsi alla disperazione, anche se doveva ammettere di non desiderare altro.

William doveva sapere.

Edward voleva, a torto o ragione, parlargli.

Con cautela, quasi temendo di sentire nuovamente il freddo della bocca di William, posò le dita sulla cicatrice. E respirò a fondo, riflettendo.

Rivedendo, fotogramma per fotogramma tutto ciò che ricordava.

E ignorando il buco che questo riflettere gli scavava al centro del petto.

 

William gli aveva detto a chiare lettere che cos’era. Chi… chi era. Aveva avuto per se stesso una freddezza lucida e crudele che si staccava da ogni forma di riflessione.

Nell’attimo in cui il suo volto era mutato, gli occhi di William gli avevano comunicato qualcosa di diverso dalla rabbia e dal disprezzo. Era stato dolore. Dolore allo stato puro, del tutto privo di vendetta.

William non gli aveva nascosto la verità su se stesso. La sua natura demoniaca era stata anteposta a tutto il resto, quasi in difesa della disperazione che stava provando.

Respirò a fondo, quasi tossendo. E Faith, senza pensare realmente, si protese a riempire un bicchiere.

 

Ed Edward alzò il viso verso il vampiro bruno.

Fissandolo, come se fosse la prima volta che lo vedeva realmente. Angel, e quell’inspiegabile buio che si portava appresso.

Lo stesso che William gli aveva riversato addosso nel loro primo contatto.

“E’ così, Angel?” – domandò, guardandolo con occhi attenti. Attenti e disperati – “Al di là di tutto, è così forte il disprezzo per se stessi, nell’essere vampiri con l’anima?”

 

Angel rimase di stucco.

E Faith, in piedi dietro al divano, altrettanto.

Quella frase, così semplice e perfetta nella sua linearità, svelava una sottigliezza di comprensione inaspettata.

Faith deglutì, fissando Angel.

Era questo, dunque, il potere di Edward sulle persone.

Edward intuiva e capiva, arrivava a notare le emozioni sotto la superficie. Ed ora, di quella reazione violenta di William, non ricordava l’assoluta crudeltà. Ma, semplicemente, l’emozione di fondo.

Angel lo scrutò in viso. E fece una cosa del tutto inaspettata. Si piegò sui talloni, restandogli perfettamente di fronte. E osando posare la mano sul morso di William. Lo stesso punto in cui aveva morso Angelus, la notte della sua rinascita vampirica. Lo stesso della notte in cui l’avevano salvato dalle mani di Darla e Drusilla, dissanguato e del tutto assente.

Angel passò un pollice su quelle ombre violacee, ragionando. Il suo legame con Edward aveva radici profonde, nemmeno spiegabili. Fili infiniti che attraversavano William, perennemente tra loro, negli scontri e negli accordi.

“William è consapevole della propria natura.” – spiegò, in un sussurro – “ E’ l’unico mezzo che ha per domarla. Sa di doverla assecondare, in certi frangenti, quando urla troppo forte. Si abbandona, per trarne maggiore energia, quando è in difficoltà. E, come me, non vuole che qualcuno dimentichi ciò che siamo. Siamo demoni, Edward, anche se talvolta sembriamo umani.

Noi siamo demoni.

William voleva che tu lo capissi. In un certo senso, lo ha fatto anche per il tuo bene.

Qualunque cosa accada, a partire da ora, accetta questo aspetto della sua persona.

William, tuo fratello, esiste ancora, ma in una realtà ben più complessa.”

Edward annuì, con lentezza. E la presa di Angel divenne per un attimo più intensa. E rassicurante.

“Non aspettarti di poterlo capire all’istante. Ma credimi, quando ti dico che sei sulla buona strada. E che, qualunque cosa accada, noi andremo a riprendercelo.”

 

***

 

Spike percorse le gallerie il più rapidamente possibile. A tratti, le gambe gli cedevano, obbligandolo a fermarsi. La testa gli girava sempre più forte, mentre si appoggiava alle pareti.

E i pensieri, martellavano, inesorabili e confusi.

Edward.

Edward vivo.

Vivo di fronte a lui, con gli occhi pieni di sorpresa. Di una gioia che era naufragata senza speranza nella rabbia.

Edward, vivo. Vivo.

 

Vivo. Fermo, con gli occhi pieni di un dolore senza limiti. Spike assestò un pugno contro il muro. E poi un secondo, piegandosi su se stesso.

Non gli importava del suo dolore. Non gli importava quanto a Edward non era importato del suo.

Edward, capace di vivere voltandogli le spalle e abbandonandolo.

No. Quello non era Edward.

Edward non l’avrebbe mai abbandonato.

 

Quello che hai fatto nega ciò che eri per me.

Tu mi hai ucciso quanto Angel.

 

Inghilterra, 1857

 

Non sono pronto. Non sarò mai pronto.

William emise un respiro profondo. E Carrol gli afferrò la mano. Aveva già gli occhi rossi. E fingeva comunque che fosse tutto a posto.

“Dobbiamo entrare.” – sussurrò – “O girare e scappare.”

“Non so se possiamo scappare.” – rispose, senza guardarla. Il portone era aperto. Gli sembrava una fornace, con tutta quella luce all’interno – “Personalmente, se non entro adesso, non entro più.”

“Hai ragione.” – sospirò, stringendogli un po’ di più le dita. Era alta, con il fisico sottile e slanciato – “Dobbiamo.”

 

Avevano varcato quella soglia insieme. E i sussurri li avevano preceduti, poi accompagnati, sala dopo sala.

Li stavano aspettando.

Eccolo. L’erede dei Coventry, dopo la tragica scomparsa. E la carissima Carrol, così sollecita con quel povero ragazzo.

Povero, povero ragazzo… così delicato rispetto al fratello…

William strinse le labbra, non disse nulla. Sopportò stoicamente l’esagerata emotività delle signore, le cordiali e sollecite strette di mano. E le lacrime da ventaglio, ogni volta che qualcuno gli fissava il braccio, ancora fasciato a lutto.

Trovava stupida quella manifestazione esteriore impostagli dal costume. Perché il nero, addosso. Siamo già neri e bui dentro, quando perdiamo qualcuno.

Perché commuoversi, per una striscia di stoffa.

Cosa fareste, se io la bruciassi in quel camino? Urla e svenimenti?

Vi farebbe paura vedere la morte finire in cenere?

Gonfiò il petto, prendendo un respiro profondo. E Carrol, si strinse maggiormente a lui, voltando la testa.

Le sue amiche stavano bisbigliando qualcosa, dall’altra parte della sala.

Amiche… certo… amiche.

Quel tanto che bastava da considerare come il braccio di William non fosse quello di Edward.

E che il Coventry migliore sulla piazza fosse ormai spiacevolmente fuori dalla loro portata.

Sì. Perché anche la morte è un intoppo, per una ragazza da marito.

Reprimette un singhiozzo e William, si voltò, preoccupato.

“Scusami.” – disse, coprendosi gli occhi con la mano guantata – “Non volevo. Credo sia questa… questa ipocrisia a soffocarmi.”

“Allora siamo in due.” – sussurrò. E a Carrol sembrò di avere accanto Edward, con la sua forza, il suo sorriso – “Possiamo andarcene quando vuoi…”

“No. Restiamo.” – scosse la testa. Non ci sarebbero state serate insieme, per lungo tempo. Lo sapeva. Una ragazza di buona famiglia non poteva uscire con uno scapolo senza che ci fosse una dicitura quasi legale al loro rapporto. Edward era stato anche questo, nella sua vita. La garanzia di libertà, innanzi alla buona società londinese.

Poteva uscire con entrambi. Ma non con uno solo dei due.

E quella sera era un’eccezione. La prima uscita ufficiale di William Coventry, figlio di cari amici di famiglia. Amici colpiti da un grande dolore…

William, quel caro ragazzo che tutti smaniavano di vedere. E di vivisezionare sul tavolo del giudizio.

Un ragazzo pallido e troppo magro, con lo sguardo indifeso e il cuore a nudo.

 

Solo, assolutamente solo.

 

William chiuse gli occhi, respirò a fondo. E accettò un bicchiere di liquore, con un mormorio di scuse.

Allontanandosi. Da tutti, compresa Carrol.

Carrol che lo capiva, meglio di chiunque altro. Ma che era già parte di una giovinezza perduta.

Uscì in terrazza e contemplò il Tamigi, immerso nell’oscurità.

Il Tamigi… chissà se era sul fondo che riposava suo fratello.

Sul fondo di quelle acque nere in cui Londra si specchiava senza fine.

Si impose di restare calmo. Strinse la mascella, sentendola quasi delinearsi sui lineamenti.

 

Solo.

Solo davanti alla vastità dell’universo.

Solo, per il resto della vita, con il vuoto nell’anima.

 

Edward era morto.

Le luci si erano spente.

 

Non più Angel.

Non più Edward.

 

Nessuna famiglia, nel presente e nel passato.

 

E Faith.

Ho perso anche Faith.

 

Un colpo. E un colpo ancora, rimbombante, nel silenzio del sottosuolo.

Cadendo in ginocchio, senza più freni per la disperazione.

 

***

 

“Ehi.”

Edward aprì gli occhi. E, dopo un attimo di sorpresa, le sorrise con lo sguardo.

“Ti sei addormentato.” – disse Faith, in piedi, con un tazzone di ceramica tra le mani – “Ma non per molto, non ti preoccupare. Mezz’ora, al massimo…”

Tacque. E si fissarono, con una punta di reciproco imbarazzo. Poi Faith si sedette al suo fianco.

“Tieni.” – disse, tendendogli la tazza – “E’ the. Ho pensato che lo preferissi al caffè…”

“Grazie.” – rispose Edward, accettando – “Anche a nome del popolo inglese.”

Faith accennò un sorriso, forzato quanto quello di Edward. E piegò la testa, pensierosa.

“Non sei obbligato a essere galante. O divertente.” – disse, con gentilezza – “E’ nei tuoi diritti essere cupo…”

“Nei suoi diritti.”  - si intromise Methos, fermandosi a lato del divano – “Ma non nel suo carattere.”

Edward non rispose, bevendo un sorso, con aria pensierosa. E Methos si sentì autorizzato a proseguire.

“Angel mi ha dato un messaggio per voi. La pista di Wes e Cordelia sembrerebbe buona e l’aggancio di Doyle ha cantato. Saranno qui tra non molto.” – si interruppe – “E di Spike nemmeno una traccia.”

 

Fine del comunicato. Libero dalle sue incombenze, l’immortale era sparito nello studio, lasciandoli in balia dei loro pensieri.

 

Angel si era imposto su di loro non appena aveva riacquistato chiarezza. Inaugurare una caccia all’uomo era inutile. Se Spike non intendeva farsi trovare, avrebbero solo girato in cerchio. Soprattutto in una città come Los Angeles. Senza contare che Edward aveva bisogno di riposare, di dare al suo corpo il tempo di autoripararsi.

 

In contemporanea, Westley si era fatto vivo. Le ricerche sue e di Cordelia iniziavano a dare i loro frutti, soprattutto dopo la sortita in quel che restava del covo ripulito la mattina.

I clan erano almeno due. Quello privo di guida, già identificato nelle settimane precedenti, si stava riversando in uno da poco rivitalizzato.

E immettere linfa nuova in un clan significava un massiccio numero di morti, considerò Faith, scura in viso. Morti sotto i loro occhi, una macabra pista da seguire, l’ennesima scia di sangue che li poteva condurre a Drusilla.

Perché c’era Drusilla di cui preoccuparsi.

Ora Faith sapeva anche questo. E, per sommi capi, era riuscita a estorcere anche altre notizie: come un piccolo manipolo avesse attaccato Edward poco prima dell’alba e come Doyle lo avesse salvato, avvertito da una visione.

Una visione che si era ripetuta anche più di una volta. Caso quasi memorabile.

 

Sospirò, riflettendo. Ed Edward girò la testa verso di lei, contemplandola.

Faith era una gran bella ragazza. Un fisico muscoloso, del tutto privo di spigolosità. Una figura femminea pronunciata e incredibilmente sinuosa.

I capelli scuri le ricadevano a onde sulle spalle, quasi indomabili. E gli occhi avevano lo stesso colore brunito, caldo e profondo.

Faith aveva occhi scuri incredibilmente intensi. E, quando Angel parlava, li puntava su di lui con un’attenzione che, probabilmente, riservava a ben poche persone.

Potevi leggervi una fiducia senza pari, anche in un frangente del genere, in cui le azioni del vampiro l’avevano innegabilmente messa in una brutta situazione.

Edward la osservò, mentre ricambiava alla sua occhiata. E si tirava indietro i capelli nervosamente.

“Mi sento esplodere all’idea di aspettare.” – disse, appoggiando la tempia allo schienale del divano. E raccogliendo le ginocchia al petto – “Restare qui.. Vorrei tanto spiegargli…”

Si interruppe, sbirciandolo, mentre girava la tazza tra le mani, in perfetto silenzio, senza guardarla. Era pallido, per il sangue perso. Ma incredibilmente bello, e calmo, in apparenza.

“Ho l’impressione di essere stata inopportuna.”

“L’inopportuno per eccellenza sono io, Faith.” – rispose, senza voltarsi, lasciandola a contemplare il profilo sottile ed elegante – “Oggi ho sbagliato il luogo, il tempo, le parole e ogni decisione. Dubito che tu possa definirti ‘inopportuna’ se il metro di paragone sono io.”

Faith sorrise, sollevata da quell’atteggiamento. Edward, come Spike, non era tipo da arrendersi. Ne era pur sempre, sbagli madornali a parte, il fratello maggiore.

L’esempio irraggiungibile nell’immaginario di William.

Di colpo Faith fu colpita da quell’informazione. Quello era Edward. L’Edward dei racconti di Spike, dei suoi incubi. Il fratello perfetto che emergeva, rimpianto e mai dimenticato, da tanti suoi atteggiamenti, da tante sue parole.

Edward era l’eredità mai ammessa sulle spalle di William.

 

Fuori Los Angeles, 2002

 

“Però non ti capisco.”

“Pazienza.”

“Mi bendi, mi carichi in macchina e poi? Mi abbandoni in aperta campagna?”

“La tentazione è forte, Cacciatrice.” – rispose Spike, parcheggiando – “Ma questa volta sono propenso più a darti ciò che desideri.”

“Legata e bendata? Ci bastava il letto a casa.”

“Non mi tentare…” – rispose, togliendole la benda – “E poi la campagna non esiste, qui in america. Voi avete solo il nulla e la periferia quando non vivete in città.”

“D’accordo. Allora dove siamo?”- non gli diede il tempo di rispondere. Erano alle porte di un maneggio. E poco, lontano, riluceva una spiaggia – “Oddio…”

“Non servono santi per andare a cavallo.” – le rispose, allegramente, scendendo – “Basta salire in groppa e partire.”

“Non ci voglio venire.”

“Tu devi venire. Hai detto che avresti voluto provare…”

“Ma provare nel senso che mi piacerebbe come è nei libri!” – si difese lei, mentre Spike le apriva la portiera e l’obbligava a scendere – “I cavalli non puzzano, non ti sgroppano, c’è la campagna inglese sempre verde con il cielo blu e la sella, il frustino… e ci sali e sai fare tutto, compreso saltare gli ostacoli…”

“Sì, Faith.” – annuì Spike, afferrandole una mano e tirandosela contro il petto – “Ho presente. Tu vedi troppi film. Comunque ti cercherò un ostacolo da saltare. E ti farò dare un frustino, se mi prometti che non ci picchierai il cavallo che deve sopportarti.”

“Spike, io ho paura dei cavalli.”

“Sciocchezze.” – con un rapido movimento se l’era caricata in spalla – “E’ solo perché non ne hai mai visto uno.”

 

Vero, dannatamente vero. Non aveva mai visto un cavallo.

Non dal vivo, insomma.

E’ grosso…

Lo guardò, scettica, affacciarsi dal box, per socializzare con Spike, con simpatiche botte sul suo sterno.

“E mangia le carote?” – domandò, curiosa. Spike rideva, lasciandosi spintonare, difendendosi a malapena. E passandogli qualcosa che continuava a tirar fuori dalle tasche.

“Io lo corrompo con lo zucchero.” – replicò il vampiro – “Ma non dirlo a nessuno qui dentro…”

Faith si avvicinò un po’ di più. Sì, tre metri potevano andare.

“Non sapevo ti piacessero i cavalli.”

“La mia famiglia li allevava. Uno zio, per l’esattezza. Passavo le estati da lui.”

“Davvero?” – due metri, suvvia. Sii coraggiosa – “E inseguivi anche la volpe?”

“Sì. Ma evita di immaginarti la scena di Mary Poppins.”

“Grazie della precisazione.”

“Ma ti pare.” – Spike aprì la porta della stalla e, tenendo l’animale per la cavezza, lo condusse fuori – “Non scappare urlando. Potrei spaventarmi io più di lui.”

“Spiritoso.”

Si era materializzato un ragazzino. E stava sellando l’animale, mentre Spike continuava a carezzargli il muso.

“Saprò di stalla.” – pensò Faith – “Cordelia non mi farà entrare in casa. Mi laverà con la pompa in giardino.”

Spike si voltò, sorridendole. Con gli occhi brillanti.

“Ti faccio una proposta.” – le disse, ridendo – “Se vieni fin qui, ti porto a cavallo con me e non ne faccio sellare un secondo. Fa abbastanza scena da film?”

Faith alzò un sopracciglio. Come al solito non si erano capiti. Lei pensava alla cavalcata furibonda da amazzone, alla Xena, per intenderci… non di fare la dama inglese in difficoltà.

“Tu mi sfotti.”

“No, sono serio.” – rispose, appoggiando la guancia al muso del cavallo. E sembrando incredibilmente giovane – “Fammi contento… vieni a conoscere il mio amico.”

Quando fu ad un passo, Spike le afferrò la mano. E la guidò sul manto nocciola dell’animale. Era strano, soprattutto per Faith che nella sua vita aveva accarezzato un gatto. E magari un paio di cani.

“Questo tuo amico ha un nome?” – domandò, chiedendosi se rischiava di prendersi una zoccolata.

“Promises. Il mio amico è una signora.”

“Ah.” – Faith lo fissò, interdetta – “Quindi, quando scompari, mi tradisci con un cavallo.”

“Vero.” – si protese, baciando la ragazza. Afferrandola per la maglietta e tirandola a sé- “E il bello è che vi farò andare anche d’accordo.”

Faith ridacchiò. Prendendosi il bacio e cercando di non respirare l’ignobile odore che già emanava.

“Perché Promises?”

“Era il cavallo di mio fratello.”- rispose, con tenerezza, carezzando il muso, guardando l’animale negli occhi scuri – “Dopo la sua morte, lo regalai a Carrol, perché non volevo più vederlo.”

“E adesso?”- non chiedergli chi sia Carrol… prima o poi te lo dirà.

“Adesso ho nostalgia.” – fu la risposta. Nitida, semplice – “Così tanta nostalgia…”

Faith non rispose.  Sospirò, cingendogli la schiena con un braccio, posandogli la testa sulla spalla.

“Procurami uno sgabello, vampiro.” – sussurrò, rassegnata, carezzandogli una scapola – “Ho capito che devo proprio salirci…”

 

“Cosa farai adesso? Per farti ascoltare, intendo…”

“Non lo so.” – ammise l’immortale, appoggiando la testa allo schienale – “Probabilmente inizierò a parlare e smetterò quando avrò finito le parole, le idee e le forze. A quel punto mi inventerò qualcos’altro.”

“E’ un buon piano.”

“Lo spero.” – si prese una pausa, scacciando l’angoscia – “E tu, Faith? Di tutti noi, tu sei vittima quasi quanto William.”

“Il problema sarà farglielo capire.” – rispose lei, con finta leggerezza – “Ma so essere parecchio persuasiva, a riguardo.”

“Non ne dubito.” – commentò Edward, donandole il primo sorriso sincero da quella mattina – “Hai tutta l’aria di una con poche remore.”

“Mi hai inquadrato subito.” – si complimentò lei, ridacchiando. E poi fissandolo, con gli occhi stranamente illuminati di dolcezza – “Mi dispiace, Edward. Mi dispiace veramente.”

Edward la fissava. Ed aveva degli occhi azzurri in cui naufragare.

“Io ho sbagliato, Faith. Il problema è che ci siate finiti tutti di mezzo. Quando ho deciso di non dirglielo è stato per un buon motivo. Io credevo lo fosse. E mi credevo fuori dalla sua vita, del tutto.” – non riusciva a smettere di parlare. Per quanto ci provasse, quel fiume di parole non voleva smettere di scorrere – “Pensavo che fosse inutile riaprire ferite vecchie di oltre un secolo… che era giusto restare fuori dalla sua vita, a questo punto.”

“E tu, Edward? Non ti è importato di come ti sentivi?”

La bocca di Edward si stirò, con lieve scherno.

“No. Ho pensato di poterlo sopportare. Che saperlo vivo mi sarebbe bastato. Ma non è così Faith.

Da quando so di lui.. io non ho pace. Non ho pace.” – si stava di nuovo tormentando il petto, massaggiando un punto imprecisato, sotto al cuore – “La sera che ci siamo incontrati, l’ho colpito. Non volevo mi seguisse, ero terrorizzato all’idea di incontrarlo.”

Faith divenne seria. Mortalmente.

“E’ la natura demoniaca, Edward? Temevi questo cambiamento?”

“Sì, Faith.” – la risposta la sconcertò. Quell’uomo era così forte da ammettere le proprie debolezze senza esitazioni. E senza scusanti – “Ho temuto anche questo fatto. William era un ragazzo disarmante.  Aveva la poesia, la musica, capiva emozioni che i suoi coetanei non sapevano nemmeno esistessero. Notava cose che per me non avevano nessun valore. E non si fidava delle sue capacità, di quell’incredibile forza che aveva.

Era un ragazzo fatto per amare, per vivere. Io ho solo questo ricordo di lui. Mio fratello William.

E quando Methos mi ha detto… un vampiro. Senza luce... senz’anima… per me ha significato l’ignoto. Un ignoto di cui io non facevo più parte.”

Si interruppe, guardando un punto indeterminato.

“Un ignoto in cui non esistevo più.” – mormorò ancora, per se stesso – “E in cui William si faceva chiamare Spike, era morto e rinato, era segregato nella notte. Sì, Faith, temevo la sua natura perché era fatta dei compromessi che mio fratello non avrebbe mai accettato.”

 

“Spike è sempre stato fatto di luce.

Buttarlo in pasto alle tenebre è stata un’ambizione troppo forte perché

Angelus e Drusilla potessero resistere.

Aveva l’odore dell’eternità appiccicato addosso…”

 

Bussavano alla porta. E Faith si alzò, per andare ad aprire. Quasi sollevata di non dover rispondere a quello sfogo, inaspettato e complesso.

Edward coltivava nel suo cammino qualcosa che loro, Angel, Spike, lei stessa, avevano abbandonato da tempo. Coltivava la purezza, la vita nella sua positività. Le zone d’ombra in cui si muoveva la Cacciatrice esistevano perché persone come Edward continuassero a vivere.

Edward era un perché umano alla loro personale redenzione.

 

No. E’ stato come se quel suo appellarsi a me, quel suo sfidarmi… fosse verso di me, non verso il mio demone.” – Angel giocherellava con il Claddagh, facendolo ruotare – “Riusciva a distinguerli, in modo perfettamente chiaro. Ho conosciuto pochissime persone, in grado di farlo… e ancor meno tra le persone che volevano una forma di vendetta.

 

Ed ora, dopo avergli parlato, dopo averlo osservato e quasi analizzato, Faith iniziava a comprendere maggiormente le motivazioni di Angel, quel suo difendere a spada tratta un nemico sconosciuto, quel feroce comando con cui aveva impedito alla sua famiglia di torcergli un capello, probabilmente prima ancora di sapere chi fosse.

 

Io e quel tizio possiamo essere molte cose… ma inspiegabilmente non siamo nemici. Non del tutto. E, nella nostra sfida, esistiamo solo noi.

Immortale o no, è un innocente.

Nessuno di noi lo toccherà con un dito, finché la mia opinione, qua dentro varrà qualcosa

 

Le parole con cui aveva cercato di descriverlo, quella notte, apparivano ora troppo scarne, quasi irreali per essere veritiere. Edward, come la vita in sé, sfuggiva a ogni definizione, istintiva o matematica.

E Faith, con la mente in tumulto e l’agitazione nel cuore per gli eventi, non poteva fare altro che sostenere l’insopportabile martellare di quell’oggettivo, da sempre nel credo di Spike.

Rifulgente.

 

Methos apparve in cima al ballatoio mentre Edward si metteva in piedi e Faith apriva la porta.

Poi, inconfondibile, giunse la voce di Doyle.

E le urla di Cordelia.

“Razza di irlandese senza cervello.” – stava sbraitando – “Non è niente, non è niente, è una cosuccia! Quanti punti, imbecille, quanti!”

“Sette.” – rispose Methos, mettendo le mani a cono attorno alla bocca e scendendo poi rapidamente le scale – “Tesoro, quanto mi sei mancata. Avevo tanto bisogno di vedere una persona con il cervello. Ah, ciao Price!”

“Sì, ciao Price!” – ripeté Faith, lasciandoli entrare. Doyle stava già, come suo solito, correndo dietro Cordelia. E implorando – “Che fai qui? Perché non sei all’Hyperion a fare la guardia? Devi avvertirmi se torna Spike!”

“Non entro nelle vostre beghe da fidanzati.” – rispose l’uomo, sbrigativamente – “Sono qui perché mi serve un’informazione da Methos e a casa c’è Angel, al momento. Ti basta?”

“Se Angel è là, vado pure io.” – rispose lei, infilando la porta.

Ne aveva abbastanza di confusione. Soprattutto perché ne aveva in esubero in testa – “A dopo.”

“Faith, asp…”

Niente da fare, la porta del pianoterra stava già sbattendo.

Nel frattempo, Edward era restato immobile. In perfetto silenzio, sperando di essere invisibile. Impegnata a sbattere sacche di armi sul tavolo, vestita come una modella, senza un capello fuori posto, c’era una strepitosa e sanissima ragazza americana.

Aveva gambe lunghe un chilometro e capelli fermati ad arte con alcune mollette. Un top scollato a goccia e un paio di pantaloni attillati che mettevano in risalto ogni curva.

E urlava.

Come una furia.

Con Doyle, trasandato e per giunta incerottato, che cercava di difendersi.

“Principessa, te lo giuro, sono solo caduto da un gradino.”

“Un gradino da tre metri, idiota?” – stava recriminando lei – “Methos, dannazione, non eravamo d’accordo che mi chiamavi se si faceva più di una sbucciatura? Lo sai che va tenuto d’occhio!”

“Ehi!”

“Io lo so, ma ogni tanto non posso proprio seguirlo.” – ribatté distrattamente l’uomo. Lui e Wes erano chini su un’enorme planimetria della città. Primi novecento, a giudicare da colore e odore.

Edward aggrottò le sopracciglia bionde, fissandoli. La testa già gli girava oltremodo… non era pronto a un’invasione.

 

Dunque, ricapitolando.

 

Di William nemmeno l’ombra.

Angel lo sta cercando. Faith l’ha raggiunto.

La ragazza che sbraita si chiama ‘Principessa’ e ‘Price’ deve essere quello che chiamano Wes.

 

Giusto?

 

“Coventry, vieni qui.” - Stava dicendo Methos, cavandolo inconsapevolmente dall’impaccio – “Primi novecento, la zona del porto. Cosa ti ricorda questo?”

Edward non se lo fece ripetere due volte. Tese una mano sopra la mappa con una sbrigativa presentazione e fissò il punto indicato.

“La zona nord ovest. C’era uno scarico mercantile. E’ andato a fuoco negli anni trenta…” – rispose, dopo un attimo.

“Allora coincide al punto che intendo io. Siamo sulla buona strada.” – rispose, trionfante, l’uomo. Inglese, pensò Edward, rassicurante aria di casa – “Piacere di conoscerti, sono Westley Whydam-Price.”

 

In quel mentre, le urla di Cordelia conobbero un calo. E lei si voltò mettendo di colpo a fuoco l’interlocutore, con un’occhiata tale da costringerlo a ricambiare. E a muovere un passo verso di lei.

Bello. Biondo. Occhi chiari incorniciati da lunghe ciglia, un sorriso bellissimo, malinconico. Talmente bello da farle perdere il filo di quello che stava facendo, persino della mega-predica in cui si stava lanciando. Completamente irretita.

 

Finalmente un’occasione per vederlo bene. E conoscerlo. Il demone sembrò intuire il flusso dei suoi pensieri. E l’affiancò, parlandole.

 

“Cordy, ti presento...”

“Doyle, a lui le presentazioni non servono” - lo interruppe, continuando a fissarlo. Percependo con precisione il dolore, la paura e la forza di volontà.

 

Era paralizzante. E Faith, che l’aveva definito belvedere non aveva nemmeno troppo esagerato.

 

Cordelia gli rivolse una tale occhiata che persino Edward cominciò a sentirsi in imbarazzo. E i restanti uomini della stanza smisero di parlare, in attesa di un suo gesto.

“Ciao. Scusami, non ci hanno presentati.” – disse lei, d’un tratto, a sorpresa – “Io sono Cordelia. E’ un piacere conoscerti, Edward.”

 

Lasciandolo senza parole. Lasciandoli tutti, senza parole.

 

“Cordy, scusami.” – azzardò Doyle – “Da cosa l’hai capito…”

 

“Spike ha i suoi occhi.” – rispose lei, fissandolo dritto in faccia. Con un’intensità tale da fargli venire voglia di piangere – “E lo stesso sorriso, quando è felice.”

 

Il silenzio era calato di colpo. Cordelia. Colei che ha cuore.

Impossibile che si smentisse.

 

Edward sentì un groppo salirgli in gola.

E gli occhi gli divennero luminosi.

 

“Lo pensi sul serio?” – domandò, come se la conoscesse da sempre. Aveva una voce morbida, meno profonda di quella di William. E anche l’accento non era più udibile.

Cordelia gli sorrise, comprensiva. E annuì.

“Deve essere stato un bel trauma, trovarvi uno di fronte all’altro.” – aggiunse, senza lasciargli andare le dita – “E’ andato tutto storto vero?”

Si era indicata il collo, con un dito. Ed Edward si era reso conto di come il segno fosse ancora evidente. Istintivamente, tirò su il maglione, nascondendolo.

“Peggio non poteva andare.” – rispose, con un mezzo sorriso, da ragazzino.

 

Sembri più giovane di Spike… e la tua eternità è così potente…

 

E Doyle non disse nulla, come tutti gli altri, del resto.

Quello era il potere di Cordelia. Sapeva tirar fuori il lato migliore dell’umanità dalle persone.

 

“Allora dobbiamo cercarlo. Sarà furioso.” – disse la ragazza, prendendo in mano la situazione. E lasciandolo finalmente andare – “Bhe, che fate? Andiamo. Se ci dividiamo abbiamo maggiori possibilità.”

“E’ ancora giorno, Cordelia.” – rispose Methos, mentre Wes, senza un commento, assimilando le informazioni, arrotolava la carta – “Ovunque sia, è nel sottosuolo. Zero probabilità di rintracciarlo.”

“Non abbiamo tutti cinquemila anni a disposizione come te. Prima lo cerchiamo, prima lo troviamo.”

“E oserei anche aggiungere che, al momento, tu e Price siete gli unici che non rischiano la vita ad avvicinarsi.” – aggiunse, con flemma – “E’ idrofobo.”

“E come dargli torto.” – commentò Doyle – “Lo sapevamo tutti tranne lui.”

 

Ecco. Questo particolare a Cordelia era sfuggito. Prima che Wes arrivasse solo ad aprire bocca, la voce di miss Chase tornò a farsi sentire.

“Mi stai dicendo che lo sapevi? Che lo sapevi tu? Ed Angel? Angel lo sapeva? Ma, dico, vi siete ammattiti? Cos’è, qualcosa che vi mettono nel whisky da bambini? E Faith? Anche Faith?”

“Faith no.” – Doyle scosse la testa, difendendo la Cacciatrice – “Anche se Spike pensa di sì. E Methos, Methos lo sapeva.”

“Ma lui non fa testo, si astiene sempre!”

“E intelligente che mi dimostro!” – sottolineò, trionfante, l’immortale. Prima di girarsi in cerca di supporto – “Vero, Wes?”

“Spiacente.” – l’ex osservatore scosse la testa, serio – “Dissentisco.”

“Pazienza. Intanto, prima della fine, rimpiangerai di non avermi imitato.”

“Finitela tutti. E lasciamo perdere.” – Cordelia alzò le braccia, quasi a fermare un incontro di boxe – “Ormai il danno è fatto. Cerchiamo di rimediare. E in fretta.”

 

[IV]

 

Spike incespicò ancora. E si fermò, in attesa.

Si appoggiò alla parete sconnessa alle sue spalle, premendo le tempie con le mani.

La testa sembrava esplodergli, gli faceva venir voglia di urlare, urlare e distruggere.

Se solo... se solo l’anima svanisse…

 

La sensazione del corpo di Edward tra le braccia lo colpì di nuovo. Il calore, la vita pulsante, la bellezza quasi sfrontata... e il suo cuore che lentamente si spegneva.

Era stato quel suono terribile a fermarlo. Il cuore di Edward che vibrava e si rattrappiva, come avevano fatto migliaia di cuori prima di lui. Mille e mille vittime che Spike aveva sedotto e ucciso con l’inganno più antico della storia umana. La bellezza.

E il miraggio di un’esistenza migliore, da cogliere nell’oscurità, nel casuale incontro.

Oh, sì. Aveva ucciso come era stato ucciso.

Con la speranza negli occhi.

 

Scivolò seduto, inarcando la testa, appoggiandosi alla parete. Istintivamente piegò le ginocchia, portandosele verso al petto.

Edward, immortale.

Edward, Edward, Edward...

Era come se la sua mente non riuscisse a procedere oltre questa parola. Oltre agli occhi chiari, alla bocca ridente… oltre al ricordo di quel corpo stretto tra lui e una parete.

Eri la mia unica certezza… eri tutto ciò in cui credevo, il mio migliore amico, l’unica cosa preziosa che possedevo in una vita da cui volevo solo fuggire.

Edward… perché lo hai fatto… perché mi hai lasciato…

Piegò la testa, soffocando l’ennesimo urlo.

E lo rivide, mentre apriva la porta e lo guardava fisso negli occhi.

La sorpresa, la gioia a malapena trattenuta, rivissute ad oltranza, mentre mutavano in assoluto orrore.

 

C’era orrore negli occhi di Edward.

Orrore per ciò che stavano vivendo. L’angoscia e la consapevolezza della deriva di ogni comprensione.

 

Un frammento di immagine. E di nuovo la sensazione del suo corpo contro il proprio. Ancora caldo, vivo come non riusciva a ricordarlo. Non più pallido e fragile, prossimo alla morte.

Vivo. Vivo in eterno.

Spike insinuò una mano sotto la camicia, le dita sul ricordo di una ferita.

A modo suo l’aveva sempre saputo. Aveva sempre saputo che si era trattato di Edward, quella notte. Il suo inconscio l’aveva sussurrato per mesi, ad oltranza, dentro agli incubi. Una rotazione, il coltello che parte, il volto che si svela… Edward.

Edward, dall’altra parte del coltello.

Edward, con una freccia piantata nel petto.

 

E io, con la balestra ancora in mano.

 

Rise, massaggiandosi la fronte, passando dalle risate disperate alle lacrime.

 

Con Angel che mi sorregge e mi impedisce di seguirlo.

Angel…

 

Il solo pensiero del suo sire fu un nuovo motivo di ribellione, per la sua mente, per il suo corpo.

Angel che smetteva di proteggerlo. Angel che l’aveva abbandonato restandogli accanto.

Angel e Edward. Perderli entrambi, nello stesso istante.

 

Adesso basta. Basta!

 

Si mise in piedi e camminò, senza una meta, lungo la galleria.

 

Io sono qui. Perché tu hai bisogno di me.

E si voltò, sobbalzando.

Come due fratelli.

Passi! Passi nel buio.

Angel.

 

Accelerò, correndo, correndo come un folle.

 

Basta.

Angel.

Basta parole, dolore. Basta con questa vita, quest’anima, questa esistenza illusoria.

Angel.

Basta.

Angel.

E precipitò verso il basso, a tradimento.

E fu cadendo, nel rallentare del tempo, con l’adrenalina tra le labbra, che ebbe l’impressione di vederlo.

Anche tu hai le ali, come gli Angeli veri. Piene… di luce.

 

Di vederlo protendersi, le mani tese verso di lui. Gli occhi scuri di Angel.

 

Sei reale?

E gli sorrise.

Angel, perché ci hai messo tanto a trovarmi? Tu sai sempre dove sono…

 

Lo sapevo… non si sfugge da uno come te…

Non…lasciarmi… dormire.

Poi il vuoto.

 

***

 

Angel si fermò. E la copertura della botola gli sfuggì di mano, con rumore assordante.

Per un attimo… Angel. Sbatté le palpebre.

Per un attimo gli era sembrato di vederlo.  In fondo a un pozzo, un braccio proteso.

 

L’espressione inconoscibile di chi dorme senza sogni.

 

William... William che lo chiamava.

 

Riafferrò la maniglia, pronto a risaltare nel buio delle condotte sotterranee. Ma il rumore di una porta che si apriva e si chiudeva, alle sue spalle, nella hall dell’Hyperion, lo distrasse.

Un attimo più tardi lo raggiunse la voce di Faith.

Si mosse, veloce, svelandosi, spalancando la porta.

“Faithy.” – la vide arrivare, correndo, libera della giacca, la pelle arrossata da una corsa in moto senza protezioni – “Che fai qui?”

“Wes mi ha detto che eri….” – si fermò, respirando in maniera concitata – “non potevo... io non potevo…”

Angel le afferrò le spalle. E la sedette, quasi di violenza sul divanetto dietro di lei, piegandosi sui talloni e guardandola.

“Faith, non mi servi a nulla se non ti calmi.” – le disse, con durezza, tirandole i capelli dietro le spalle – “Mi servi anche come Cacciatrice, stanotte.”

Faith spalancò gli occhi, per la sorpresa. Per quel tono duro, che non lasciava spazio a repliche e che la faceva sentire una donnetta isterica.

Inspirò ed espirò, accompagnando l’aria con tutto il corpo, come aveva visto fare a Cordelia, nei giorni delle visioni. E annuì, per dare una risposta sensata, prima di piegarsi su se stessa, coprendosi gli occhi.

“Oddio, sono una stupida.” – gemette, mentre la mano di Angel le si posava sulla nuca, insieme a un bacio – “Sembro Rossella O’Hara…”

“Avrei detto Ingrid Bergman in Anastasia – scherzò lui, forzatamente – “Ma è lo stesso… anzi… preferisco essere Clark Gable prima di Yul Brinner. Deve essere una questione di capelli…”

Faith trattenne a stento una risata, tra le mani. Odiava quei vecchi film, li trovava noiosissimi, con tutte quelle donne in crinolina. Ma Cordelia ed Angel non ne avevano mai abbastanza.

“Scusami.” – disse, raddrizzandosi e guardandolo – “Credo di aver appena fatto di testa mia, venendo qui.”

“Lascia stare.”

“Non riuscivo più a resistere… chi ti dice che tornerà… non crede più a nessuno di noi.”

“Tornerà. Perché ti ama. E perché non lascia mai nulla in sospeso.”

 

“Lo credi sul serio?”

 

“Io devo crederlo.” – replicò, sedendosi nel posto lasciato libero – “Spike deve capire che tu non ne sapevi nulla. Poi, le cose andranno come andranno. Ma per te tornerà.”

 

Per te tornerà.

 

Ed io…

Io salirò questa china con i denti e con le unghie.

 

***

 

Riaprì gli occhi, piantando le unghie nella terra, con le ossa doloranti.

Sei metri. Come minimo sei metri di volo.

Si aggrappò a quel che restava di una scaletta metallica. E si tirò in piedi, reprimendo un gemito. Cercò di mettere a fuoco il luogo in cui si trovava, tenacemente appeso al suo sostegno.

E, in quel momento, sentì la canzone. E vide il vestito bordeaux.

“Ciao amore…” – sussurrò Drusilla, affacciandosi dal fondo del condotto – “Ti sei fermato, finalmente. Cattivo… correre veloce come il vento…”

Spike la fissò, interdetto. Poi cominciò a ridere, piano. E sempre più forte.

“Mi mancavi giusto tu, oggi.” – singhiozzò, asciugandosi gli occhi – “Ne avevo già abbastanza… del mio passato.”

“Il passato è luce... il futuro è ombra…” – gli venne incontro, le mani intrecciate dietro la schiena, l’andatura sognante – “intrappolato nel presente... sei intrappolato nel presente…”

“Il presente non esiste. Questo è solo l’incubo. Di ciò che ero, di ciò che sono…” – si lasciò scivolare a terra. E la guardò, disperato – “è tutto come avevi predetto, Dru… tutto come avevi visto…”

 

Ti illudi, amore mio. Ti illudi ancora innanzi a miraggi che non esistono.

L’Angelo rimane nero anche quando spalanca le sue ali protettrici.

L’Angelo sa uccidere, in molti modi…

 

Torna da me…

 

Torna alle stelle e alla notte buia…

 

“Amore…” – sospirò ancora la vampira, sedendosi al suo fianco e lambendogli il sangue dal viso, dalla tempia rimasta segnata nella caduta. Baci, lungo la cicatrice, sul sopracciglio.

Spike chiuse gli occhi, stordito, incapace di respingerla.

 

Era così appagante, quel contatto… così rassicurante…

 

“Sapevi di lui, Drusilla?” – domandò, lasciandosi cingere il collo con le braccia– “Sapevi di Edward?”

“Adesso… adesso le stelle me lo hanno detto.” – spiegò, come sempre – “Il flagello lo nasconde, il flagello lo protegge. Ma io lo avrò comunque, non ti preoccupare.

Vi avrò entrambi.

E staremo sempre insieme.”

Quelle parole lo percorsero come un brivido. Rialzò la testa, fissandola.

Lucido, per la prima volta.

“Hai il suo sangue sulle labbra.” – aggiunse Drusilla, carezzandogli la bocca – “lo posso ancora vedere, sentire… è il sapore del passato, eppure è vivo… caldo…”

Lo baciò, tirandolo verso di sé, lacerandogli la pelle.

Le loro bocche si inondarono del reciproco sangue. E Spike si sentì morire, come la prima volta.

 

Drusilla lo aveva baciato, prima ancora di sapere il suo nome. Era stato il primo vero attimo di passione, il primo vero fuoco. Le labbra della vampira gli erano sembrate fredde e poi incredibilmente calde. Calde della sua vita più che del loro sentimento.

Un bacio. E poi la morte, come nei migliori racconti dell’orrore. Amore e morte, come sempre, giorno dopo giorno, secolo dopo secolo.

Lo stesso sapore che ancora permeava tra lui e Faith. La vita e la morte.

Il giorno e la notte.

Si ritrasse appena, guardandola. E Drusilla gli sorrise.

Sì. Come sempre.

La consapevolezza lo fece tremare. Drusilla, come Edward, era ancora la stessa di allora.

Era bruna, bellissima, gli occhi ancora pieni di luce.

Orrendamente sbagliata eppure così intossicante.

Fredda, morta, lontana da tutto.

 

Congelata.

 

Ma Spike non poteva dire la stessa cosa di se stesso.

 

Perché si sentiva vivo. E immerso nel mutamento, in una gamma infinita di cambiamenti ed emozioni contrastanti.

Era cambiato, era cresciuto, era forgiato dal dolore dell’anima. Ed era demone, ancora.

“E’ Edward che vuoi, Dru?” – domandò, guardandola, con un mezzo sorriso – “E’ questo che mi stai dicendo?”

Drusilla gli passò le dita sulle labbra. E annuì, persa, senza guardarlo negli occhi.

“E’ come te… c’è quella musica nel suo cuore… quella musica da ballare… mi manchi così tanto…”

“Puoi avere me…” – rispose, esitando appena – “Non ti serve quell’impostore... tu puoi avere me…”

“Oh, no…” – ridacchiò, piena di segreti – “io posso avervi entrambi. Posso riunire ciò che si è spezzato. Un solo cuore, un solo cuore…”

Ancora le sue labbra. Ancora quella passione.

E quel sapore.

Spike la respirò, dissetandosene. Un bacio intenso, cedevole, una mano sulla sua pelle d’alabastro.

Eppure la mente in tumulto. Confusa e informe.

Edward e Drusilla... Edward e Drusilla…

 

No…

 

“Angel non ti lascerà nemmeno avvicinarti.” – rispose Spike, sottovoce, assaporando le sue stesse parole, gli occhi chiusi, la bocca nella sua – “Come l’ultima volta… con me…”

Drusilla si ritrasse, come scottata. Ferita.

E Spike la fissò, con gli occhi ghiaccio, dritto nelle sue ametiste.

“Anche l’ultima volta mi volevi…” – sussurrò, colorandosi le labbra con un ghigno – “e non mi hai mai avuto del tutto. Angel è come Angelus.

 

Edward è già suo… non lo dividerà di certo con te.”

 

“No.” – si era ritratta, di scatto. In piedi, i pugni stretti – “Non l’ha fatto, io lo so che non l’ha fatto.”

“Ma che lo renda uno di noi oppure no è una cosa irrilevante.” – spiegò, con innocenza, provando a mettersi in piedi – “Edward è sotto la sua protezione. Per cui risparmia la fatica. E pensa a restare viva.

Perché non vedrai un’altra notte se gli torcerai un capello.”

 

Ed ora vattene.

 

O sarò io ad ammazzarti.

 

***

 

“Bene.” - Disse Methos, alzandosi – “Appurato che il sole calerà tra meno di quaranta minuti, direi che è ora di muoversi. Ci vediamo da voi.”

“Ottimo.” – rispose Westley, raccogliendo le carte e prendendo la matita che Edward gli stava restituendo – “Fate in fretta, o andiamo senza di voi.”

“Perfetto.” – rispose, posando una mano sulla spalla di Edward, di modo che non potesse alzarsi. E premendo, con decisione. Fermo dove sei oppure saluta la clavicola – “Ciao Wes, ciao Cordy, ciao Francis.”

“Vuoi che…”

“No, Francis.” – rispose, con un bel sorriso – “Non essere inopportuno.”

“Ricevuto.” – sospirò.

E, mentre la porta si chiudeva, fu ancor udibile, la voce di Cordelia.

“Ma se si vedeva lontano un chilometro che devono parlare! Sei sempre il solito…”

 

Edward rimase fermo. E attese che la presa si allentasse.

“E’ vero?” – domandò, senza voltarsi – “Dobbiamo parlare?”

“Male non può farci.” – rispose – “Vieni con me…”

 

Angel aveva chiamato, dopo aver lasciato Faith a casa. Era nei condotti sotto la città, al momento. E li stava passando al setaccio, con la pazienza che possono avere solo gli esseri senza tempo con il dolore nell’anima.

Angel aveva parlato con Cordelia, qualche minuto. E poi con Wes, impegnato ad aggiornarlo sugli sviluppi della loro ricerca.

Se l’obiettivo restava continuare a cercare il rifugio di Drusilla, erano abbastanza vicini da iniziare a prepararsi.

 

“Wes, l’hai conosciuto?” – aveva domandato Angel, fermandosi in un punto in cui la ricezione era migliore.

E l’amico, prontamente, si era alzato, uscendo sul terrazzo. Dal tavolo.

“Se ti riferisci a Edward Coventry…” – disse, appoggiandosi alla ringhiera – “Ho avuto questo enorme piacere, a sorpresa, circa mezz’ora fa.”

Silenzio.

“Angel…” – l’uomo respirò un attimo a fondo, fissando il movimento delle macchine in strada – “Non sono qui per farti la paternale, se è quello che stai pensando.”

“Sto pensando che me la meriterei.”

“Secondo me… no.” – si interruppe un attimo, riordinando le idee – “Ritengo che tu sia in questo guaio per puro sbaglio, come Faith. E posso anche aggiungere che mi spiace per questo ragazzo... se posso permettermi di avere un’opinione su un essere ultracentenario.”

Angel sogghignò, divertito.

“Di me hai sempre un’opinione.”

“Ma tu sei Angel.” – rispose, appoggiandosi, più rilassato, alla balaustra – “Niente notizie di Spike?”

“Nulla.”

“E’ fuori di sé, vero?”

“Nella peggiore accezione del termine.”

“Ottimo. Notizie di Faith?”

“Sta mordendo il freno, all’Hyperion. Raggiungetela il prima possibile. E, se riesci, procurale qualcosa che la tenga occupata.”

“Se i miei calcoli sono esatti, tra non molto saremo tutti occupati.”

“Me ne rallegro. Adesso, se puoi, passami Edward.”

“Subito.” – Wes si raddrizzò, riaffacciandosi dentro al locale – “Edward, scusami… Angel vuole parlarti.”

 

Il ragazzo si era alzato, con prontezza. E si era appartato, su quello stesso terrazzo, dandosi il cambio con Westley.

“Dimmi.”

“Stai bene?”

“Sì.” – rispose, sbrigativamente – “Sì, sto bene.”

“Allora vorrei che stasera venissi con noi.” – Angel saltò in un altro dislivello, sperando di non perdere la ricezione – “Preferisco saperti in un covo di vampiri con loro che da solo in quell’appartamento. C’è ancora Drusilla che ti cerca. Ricordatelo, anche se so che hai altre priorità, al momento.”

“Vero. Hai scoperto dove sia la mia priorità?”

“Non ancora.”

“E mi dici perché non posso raggiungerti adesso, all’istante? Sto rispettando le tue richieste, Angel. Ma voglio che tu mi dica cosa sto aspettando.” – strinse con forza il parapetto, piantandoci le unghie – “Dimmi cosa aspettiamo, Angel, per favore.”

Gli rispose il silenzio.

E l’assoluta assenza di respiro.

Eppure Angel era ancora là, all’altro capo del filo.

E rifletteva.

“Edward.” – sentì, in un sussurro – “Hai il mio rispetto. E non sto cercando di prevaricare. Ma, al momento, penso di avere qualche possibilità in più di te, per essere ascoltato. E voglio sfruttarla.

Non voglio più assistere a ciò che ho visto stamattina.”

Edward chiuse gli occhi. E pensò, per un singolo istante, di non riuscire più a trattenersi.

“Io non voglio che ti faccia del male. Non lo voglio per te e non lo voglio per William. Io... io sono costretto a tenervi separati.” – si appoggiò al muro. E pensò che Edward, almeno, rispetto a lui, in quel momento, aveva la fortuna di poter restare in silenzio. Perché ogni parola era uno sforzo titanico – “Vorrei che bastasse trovarlo, per convincerlo che non l’abbiamo abbandonato.”

Edward chiuse gli occhi. E i polmoni si compressero, nuovamente.

“Lo capisco.” – mormorò, pensando con orrore di non avere il controllo della propria voce – “Ma non… io non…”

“Ti chiedo un’ora al massimo. Un’ora. Aspetta il tramonto, poi vai con gli altri.”

“Va bene.”

“Edward…”

“No, sul serio. Va bene, Angel.” – si raddrizzò – “Fammi un favore… bada anche a te stesso.”

 

Edward si alzò, seguendo Methos malvolentieri. Angel aveva detto un’ora. E di raggiungerli al fantomatico Hyperion. Eppure adesso c’era Methos che lo frenava.

Methos! Ci si metteva anche Methos!

“Sappilo.” – comunicò, fermandosi ed enumerando – “Non voglio farmi una doccia, non vado medicato o resuscitato, non intendo perdermi in conversazioni di concetto. Voglio solo che ti infili una giacca e ti prepari ad uscire.”

“Chi ti ha detto che vengo?”

“Non vieni? Ok, va bene, non venire. Vado solo io. Posso andare, adesso?”

“No. Andremo insieme fino all’Hyperion. Poi deciderò cosa fare della mia testa.” – replicò, sedendosi sul divano. Anzi, lasciandosi cadere, con indolenza – “Adesso però ci dedichiamo alla mia attività preferita.”

“Sarebbe?”

“La conversazione di concetto.”

“Oh, andiamo, Methos!” – esplose – “Non intendo perdermi in conversazioni sul giusto e sullo sbagliato! Ho da fare. Se per caso ti è sfuggito, c’è mio fratello là fuori…”

“Edward. Seduto.”

Si era teso, con un tempismo perfetto. E il suo tono non aveva lasciato repliche.

Il problema era che Edward fosse un Coventry. Non stava nell’efficacia di quell’approccio.

“Risparmia lo sforzo, Methos.” – rispose, restando in piedi. E sfidandolo come mai nella sua vita – “Non intendo sedermi e calmarmi.”

“Dovresti. Tu stai fuori di testa quasi quanto William.” – rispose, implacabile, allungando le braccia lungo lo schienale. E accavallando le gambe – “Lui è più plateale, con i canini e tutto il resto. Ma tu sei altrettanto bravo a fargli del male.”

Edward pensò di non aver capito. E lo fissò, come se non lo conoscesse.

“Torna in te.” – aggiunse l’uomo, fissandolo con durezza – “E prima di perdere il controllo. Qui c’è già abbastanza gente che si deve pentire.”

“Io no, secondo te? Non ho già cose di cui pentirmi?”

“E ci tieni tanto ad aggiungerne altre? Rifletti, Coventry, non comportarti come un cretino, visto che non lo sei!” – non intendeva muoversi. Lo guardava soltanto percorrere la stanza ad ampie falcate – “Tu lo sai che non hai sbagliato, nel 1857. Io c’ero, ti avrei consigliato nello stesso identico modo! E quanto a quello che hai deciso, sei mesi fa… bhe, sei partito sapendo che sarebbe successo. Che prima o poi, presto o tardi, William lo avrebbe saputo.”

Si interruppe, guardandolo voltargli la schiena, le braccia incrociate, per difendersi.

E si alzò.

“Non sei giovane abbastanza per ignorare come vanno certe cose.” – aggiunse, avvicinandosi – “E non sei abbastanza superficiale per aver fatto tutto quello che hai fatto in assoluta incoscienza.”

Edward non gli rispose. Gli sarebbe bastato un singolo respiro per andare in frantumi.

E Methos fece come quel giorno, sul terrazzo. Semplicemente gli cinse le spalle, tirandoselo contro il petto.

“Cosa farai quando l’avrai di nuovo di fronte, Edward? Crollerai? Hai accettato quello che ti è successo stamattina? Perché non credo che andrà poi così diversamente.

Io non conoscevo tuo fratello.

Ma conosco Spike, il vampiro con l’anima. Nel bene e nel male.”

“E’ così che vuoi che pensi a lui? Come a un demone?” – domandò, sentendo il calore propagarsi a quel contatto. E restando comunque fermo, le braccia ancora intrecciate, gli occhi fissi di fronte a sé.

“Ti chiedo di stare attento, qualunque cosa tu decida di fare.” – rispose, senza nessun imbarazzo per quell’affetto che non gli manifestava mai – “E ti chiedo di crollare adesso, prima di andare.”

“Non posso.” – abbassò la testa, quasi ridendo – “Non posso, Methos.”

 

Non sono mai stato bravo a cedere.

 

India, 1884

 

La jungla bruciava. Bruciava ancora.

E le urla erano assordanti.

Tra le urla, anche quelle di Edward non erano da meno.

Sporco di fuliggine, stanco allo stremo, non si rassegnava all’evidenza dei fatti. E cominciava a sembrare un pazzo furioso, considerò Methos, vedendolo di nuovo correre verso la linea esterna, dove le fiamme iniziavano a superare i tre metri.

“Fermalo!” – urlò Damodar, alle sue spalle.

“Oh, certo, parli facile!” – rispose, di rimando, tirandosi sul viso lo straccio e correndogli dietro.

Lo placcò, sollevandolo quasi da terra per riuscire a trattenerlo.

“Lasciami.”- si divincolava, furioso. Ed era solo un vantaggio che fosse sottile e slanciato. Methos, con le spalle e le braccia che si ritrovava, riusciva a malapena ad opporgli resistenza – “Lasciami, non lo vedi che serve aiuto?”

“E tu non lo vedi che ci stanno andando a fuoco anche i capelli?” – rispose, di rimando, assestandogli un colpo ai reni senza misericordia e sollevandolo per la vita – “Finiscila con le utopie, idiota, dobbiamo andarcene!”

“No. Non me ne vado, non me ne vado.” – Edward smise di scalciare e unì i pugni, per assestargli un colpo di gomito nel fegato.

Methos mollò ovviamente la presa, mentre i suoi organi si spostavano tutti a sinistra. Ed Edward ripartì, puntando ai secchi dell’acqua.

I contadini, attorno a loro, fuggivano in senso contrario. Il tempio che avevano provato a salvare, quel tempio millenario per cui Edward stava per immolarsi, sarebbe stato avvolto dalle fiamme in pochi minuti.

Senza possibilità alcuna di un miracolo.

Methos si rimise in piedi e gli corse dietro, ancora, imprecando e zoppicando.

Edward se ne stava da solo, davanti ai suoi fantasmi personali e al fuoco.

Aveva perso Mayuri. Ed ora anche l’unico posto in cui si era sentito a casa dopo la sua morte.

Methos lo afferrò, tirandolo verso di sé. E un’altra pianta in fiamme precipitò, di traverso, impedendo loro di proseguire.

Ma questo non sembrava bastare ad Edward.

Si tirò su, gli occhi azzurri pieni dei riflessi rossi che li circondavano. Il fuoco gli arrossava la pelle e le labbra. E lo faceva tossire, ma non smettere di correre.

Con Methos sempre alle calcagna.

“Basta, Edward, basta.”

“Mai.” - urlò, voltandosi – “Mai, fino alla fine.”

 

Methos sentì il cervello quasi esplodergli per la frustrazione.

 

Mai fino alla fine?

Non avevi che da dirlo, stupido idealista.

Non si fermò nemmeno, continuò a correre. E prese la mira.

E il kriss, il coltello malese che portava in vita partì, prendendolo perfettamente in mezzo alle scapole.

E uccidendolo sul colpo.

“Ecco.” – ansimò, fermandosi a fianco del corpo, per prendere fiato – “Accontentato.”

 

Estrasse il coltello, pulendolo. E si caricò il corpo sulle spalle.

 

Stupido. Stupido e masochista.

Ricordami di regalarti il kriss. Gli hai rovinato il filo con le tue ossa.

 

Le pietre del tempio erano già lucide. E l’oro che le ricopriva ancora in alcuni punti si stava sciogliendo. Troppo tardi. Era stato troppo tardi sin dall’inizio.

Methos fissò l’alta cupola accartocciarsi.

E la bellezza umana che si protendeva verso il cielo tornare ancora una volta ad esser cenere e polvere.

 

Non sono mai stato bravo a rinunciare.

 

“E’ vero.” - ammise Methos, lasciandolo andare – “Ma dovevo provarci.”

“Apprezzo lo sforzo.” – rispose Edward, sorridendo, asciugandosi gli occhi. Ci siamo fermati, solo un passo prima. Si voltò, abbracciandolo, aggrappandosi al suo collo – “Però toglimi una curiosità... perché mi sopporti ancora?”

“Bhe...” – Methos alzò gli occhi al soffitto, pensieroso, strofinandogli una scapola con una mano – “in cinquemila anni ci si può annoiare… è bene procurarsi qualche distrazione.

 

Altrimenti si invecchia… prima del tempo.”

 

***

 

Non era pronto a trovarla a casa.

Era stato così assorto dai suoi dolori da non percepirla nemmeno.

 

La guardò, ferma al centro dell’ingresso.  E si appoggiò alla porta alle sue spalle, infilando le mani nello spolverino di pelle. Con sfida.

 

E Faith non disse nulla.

Spike era ridotto in uno stato spaventoso.

Aveva ferite, lacerazioni sul viso, sulle mani, viste solo fuggevolmente. E segni di graffi, su una guancia, lungo il collo.

 

In frangenti normali gli sarebbe corsa incontro. E l’avrebbe sostenuto, rimproverandolo senza mezzi termini per la sua incapacità a difendersi. Ma ora... ora non riusciva a muoversi. E lo fissava, del tutto terrorizzata.

 

Gli occhi di Spike, solitamente azzurri e sarcastici erano bui. E gonfi, come sul viso di chi ha pianto fino a sfinirsi.

 

Eppure non c’era fragilità. Nessuna debolezza. Da lui trasudava soltanto quella furia spietata emersa con l’aggressione di Edward.

“Amore, ciao.” – disse, guardandola, facendo quasi le fusa – “Ti sono mancato?”

Le sorrideva, nel parlarle. E il sangue con cui era incoronato lo rendeva un terrificante dio della guerra.

Capelli biondi tinti di rosso. E occhi che portavano bufera.

“Spike, credo che tu abbia diritto a una spiegazione.” – azzardò, restando ferma, i sensi all’erta.

Nulla… non emanava nulla. Spike, famoso per il divenire elettrico se furioso, era come una statua di sale.

“Veramente no.” – rispose il vampiro, raddrizzandosi – “Sono venuto solo a prendere alcune cose. Puoi seguirmi, se vuoi…”

 

Si era mosso, con sicurezza. Zoppicava appena, trascinando un piede. Sembrava che la parte sinistra del suo corpo non rispondesse alla perfezione ai comandi della mente. Senza però essere un ostacolo ai movimenti.

 

Faith, totalmente in confusione, lo seguì, mentre scendeva nell’armeria.

 

“Sai, ho avuto una giornata incredibile.” – le disse, una volta che furono nello scantinato. Stava a torso nudo, prelevando una maglietta da un cumulo di biancheria da stirare – “Lascia che ti racconti… magari dall’ultima cosa che mi è successa... che è proprio incredibile.

Pensa, stavo parlando con Drusilla…”

 

Faith trattenne il fiato. Spike le dava le spalle e il suo racconto aveva l’intonazione leggera di un resoconto qualsiasi.

“Ero con Drusilla che mi spiegava i suoi progetti per il futuro, quando sono stato aggredito da sei dei suoi. Lo ammetto, ho provocato quella matta della mia ex... ma non pensavo che andasse in giro con la scorta.

E pensare che non avevo voglia di combattere, essendo caduto da un’altezza di sette metri in un pozzo... nelle fogne non sai mai dove metti i piedi.”

Faith non rispose. E Spike si strofinò via il sangue con un asciugamano inumidito. Via dalle braccia, dal torace.

 

Via, insieme all’odore di Edward, al suo inconfondibile profumo di umanità. Di pulito.

 

Via, con il sangue sparso dai baci tentatori di Drusilla.

 

Afferrò una bottiglia da sopra il ripiano. E bevve un sorso, cercando di scacciare il sapore della trasgressione.

 

“Comunque non mi è chiaro cosa volessero.” – aggiunse, riavvitando il tappo – “Forse dovremmo indagare.”

Si bloccò e si girò, finendo di infilare le maglietta sopra a vaste escoriazioni bluastre.

“Ah, già.” – le sorrise – “Scommetto che lo state già facendo.”

 

Faith incrociò le braccia. E, con gli occhi, valutò la distanza dagli oggetti che avrebbero potuto tramortirlo senza ucciderlo.

Non era certa che ci fosse un’anima in lui.

 

Può forse morire l’anima, per troppo dolore?

 

“Sì, stiamo indagando.” – rispose, stando al gioco. Cercando di restare calma – “Doyle ha avuto una visione, stamattina e…”

“E non mi riguarda.” – rispose lui, allacciandosi un anfibio e recuperando lo spolverino – “Comunque ti passo una dritta, in memoria dei bei tempi andati. Drusilla vuole Edward Coventry. Penso che sappiate anche questo... ma è meglio ripeterlo. Dopotutto, qui si parla di innocenti in pericolo…”

 

“Ah giusto!” – aggiunse, beffardo, raddrizzandosi – “Questa è la cosa migliore della giornata, devo proprio raccontartela. Pensa che sono andato a prendere la mia donna dal suo osservatore, stamattina. E mi ha aperto la porta il mio defunto fratello!

 

Chiunque abbia detto che la vita è strana deve aver avuto un’esperienza del genere.”

 

L’aveva detto ridendo, con gli occhi spiritati, pieni di un’emozione inspiegabile.

 

Rabbia, rancore? Dolore? Follia?

 

Faith non riusciva a capire.

 

“Parliamo di tuo fratello, allora, visto che l’hai nominato.” – rispose, pronta, la ragazza – “Varrebbe qualcosa ti dicessi che ho scoperto chi fosse quando l’hai chiamato per nome?”

Spike si voltò. E un lampo di sorpresa, presto dissimulato, gli transitò sul viso. Poi, gli occhi tornarono ad essere pietra.

“Ah sì?” – esclamo, piegando la testa – “Eppure il tuo profumo su di lui era delizioso…”

“Abbiamo combattuto insieme.” – rispose, innaturalmente sulla difensiva – “Lo conoscevo come amico di Methos... per quello che…”

“Risparmiami il resoconto di ciò che è successo sei mesi fa.” – rispose, a denti stretti, perdendo improvvisamente smalto – “C’ero. Me lo ricordo.”

 

Non ho compreso.

Non ho visto.

 

Ma ricordo. Ricordo tutto il necessario.

 

“Non sapevo chi fosse.” – ripeté la ragazza, con più convinzione. Era vero, doveva credere alla propria innocenza per convincere Spike – “Non ho intuito nulla, nemmeno parlandogli. Non lo sapevo, Spike, te lo posso giurare.”

“Non mi riguarda.” – replicò, con un’alzata di spalle. Aprì un cassetto, prelevando l’immancabile pacchetto di sigarette. E un accendino – “E non mi sorprende questo tuo pensare di avere una giustificante. Sei la bambina prediletta di Angel, prima di essere la mia donna.”

 

Angel… Angel che ha una scusa per ognuno di noi. E mai per se stesso.

Quale? Quale si è inventato per appoggiare Edward?

 

“E’ questo il motivo per troncare con me?” - domandò, spalancando gli occhi. Sconvolta – “Il fatto che io non stia condannando Angel? Che sia ancora qui e non in fuga da lui come te?”

Il cassetto venne richiuso, con violenza, facendola sobbalzare.

Calma Faith. Controlla i tuoi nervi.

“No. Io non tronco con te. Sei tu che lo hai fatto. Eri lì, con lui, con Methos, Doyle… eppure non me lo hai detto. Mi hai mentito, Faith. Come il grande Angel.” – si era avvicinato, fino a fronteggiarla – “Tu… mi hai… mentito!”

 

L’ultima parola l’investì, come un’onda d’urto.

 

Faith chiuse gli occhi e, senza frenarsi, mosse un passo indietro.

Faith, che non aveva mai arretrato innanzi ai suoi nemici. Ai suoi fantasmi. A ogni incubo esistente.

“Fai bene ad avere paura, Cacciatrice.” – concluse lui, avviandosi su dalle scale, alcune armi in pugno – “Fai veramente bene.”

 

Era rimasta immobile.

E aveva aspettato che il suo cuore finisse di cadere in frantumi.

Poi si era riscossa. E rialzata.

Era quella la differenza tra vampiri e Cacciatrici… le prescelte si rialzavano sempre dalle loro stesse ceneri.

 

E Faith sapeva combattere. Per scelta, destino, nelle apocalissi e in amore.

 

Spike non se ne sarebbe andato in quel modo. E, soprattutto, se proprio era deciso a fuggire, l’avrebbe fatto con delle risposte. E non con delle menzogne.

 

Si mosse. E scese in battaglia.

 

“Spike!” – lo chiamò, raggiungendolo nell’ingresso – “Fermati, Spike.”

 E il vampiro, semplicemente le ubbidì. Così come non aveva opposto resistenza a Edward che lo afferrava, adesso sostava, in attesa che Faith gli parlasse.

Ecco, l’Uccisore delle Cacciatrici in azione. Il vampiro che uccideva con il credo.

“Dimmi.” – la esortò, con gentilezza.

 

Stupiscimi. Prova a darmi nuove illusioni.

 

Era bellissimo. La bellezza perfetta dell’alabastro e dell’eterna giovinezza. L’abominio e la forza dei predatori della notte.

Era un demone. In tutto e per tutto.

 

Eppure Faith non si lasciò intimorire. Chiuse gli occhi, innanzi a lui, senza celarsi. E respirò a fondo, abbandonandosi ai suoi sensi.

Prima di fissarlo, con sfida.

“No.” – sorrise – “Sento la tua anima fin da qui.”

“E ti sorprendi? Andiamo Faith… ragiona… non c’è bisogno di essere privi di anima per essere furiosi…”

“Vero. Verissimo.” – replicò, incrociando le braccia – “E’ che questo tuo ostentare il lato demoniaco non ti si addice. E’... diciamo… stupido. Wes direbbe che è un meccanismo di difesa… che hai un… come si chiama? Disturbo post traumatico?”

Spike non le rispose. E Faith mosse un passo verso di lui.

“Bella definizione. Ma io non sono fatta per i paroloni. Per me tu sei un uomo con il cuore spezzato. Sei così disperato da sentirti morire, ogni momento. Tu hai paura, Spike.” – respirò a fondo – “Quasi quanta ne ho io di perdere te.”

 

Silenzio. Silenzio tra loro.

 

“Non abbandonarti alla rabbia per non provare dolore, Spike.” – riprese – “Io ti amo. E questo muro tra noi mi sta uccidendo. Non riesco a pensare... guardami, Spike. Hai fatto di me una ragazzetta in lacrime. Non tenermi lontana… lascia che io ti aiuti.”

“Fai ancora un passo e non risponderò di me.” – replicò Spike, fissandola dritta negli occhi. Non un battito di ciglia, non una debolezza. Solo enormi pupille in un cielo indaco – “E questa lontananza che senti non mi riguarda. E non voglio dividere con te un bel niente.”

 

Niente.

 

“William…”

 

Il vampiro abbassò gli occhi. E le sembrò stanco. E indifeso.

Quasi pentito delle sue parole.

 

E lo osservò, mentre si appoggiava a una delle colonne, per restare in piedi.

 

***

 

Spike imprecò, sottovoce, nel perdere nuovamente il controllo di se stesso.

Prima Drusilla… ora Faith.

 

A modo loro perfettamente in grado di fare breccia nelle sue barriere.

La vicinanza e i loro corpi, inebrianti e pieni di promesse. Il desiderio di abbandonarsi divenne irresistibile. Prossimo al terrore, Spike si impose di restare calmo. E si erse, facendosi disperatamente scudo dietro la realtà dei fatti.

 

Scelte.

Inganni.

Menzogne.

 

Tutti lo avevano tradito. Tutti gli avevano riservato false promesse.

La fiducia era morta, insieme a tutti loro nell’attimo stesso in cui Edward aveva aperto la porta e lo aveva fissato, uscendo dalle nebbie del tempo.

Morta, negli occhi di Angel che lo fissavano pieni di dolore, alle spalle di suo fratello. In quelli di Doyle, che aveva disperatamente cercato di fermarlo.

 

Morta.

Morta in Faith che ora si ergeva, ultimo baluardo prima del baratro.

 

Faith, come Dru.

La bellissima donna bruna che lo tentava con il miraggio della luce in fondo all’oscurità.

 

“Ti amo anche io, Faith.” – rispose, senza osare guardarla – “Ti amo. Ma non credo abbia più importanza.”

“Ne ha, invece.”

“Ah sì?  Dimmi perché. Dimmelo. Perché ha importanza? Amavo mio fratello, lo amavo e avevo il terrore di perderlo. Eppure mi ha lasciato. Amavo Angel... perché era la mia salvezza, la mia unica certezza… e amavo te, Faith. Ti amavo perché…”

Si interruppe. Non riusciva a controllare la voce, le lacrime di rabbia.

“Sì, Faith!” – urlò – “Vi amavo tutti alla follia e non c’è stata comunque verità. Mai, nel passato, nel presente.. la storia a quanto pare si ripete da circa un secolo. Non sei la prima, non sarai l’ultima.”

“Stai delirando e nemmeno te ne accorgi.” – ribatté, cercando di reprimere il dolore. E rinunciando alle distanze, camminando, per arrivargli vicino, per afferrarlo – “Rifletti, William, pensa a Edward. E’ vivo, non hai mai desiderato nient’altro…”

“Io non sono William!” – urlò, mentre le lacrime, rosate dal sangue, gli scendevano sulle guance – “William era uno stupido all’ombra della perfezione, morto perché abbandonato a se stesso e incapace di difendersi! Io non sono William!”

“Allora colpiscimi!” – urlò Faith, di rimando, le stesse lacrime incontrollabili – “Colpiscimi e dimmi chi sei!”

 

Il silenzio che seguì fu una nuova caduta libera nel nulla.

 

Poi Spike si mosse, abbandonando la scena. E uscendo, sotto al portico dell’Hyperion.

Lasciandolo, con la volontà di non tornarci più.

 

Faith non lo seguì. Immobile, al centro della hall, assaporò il sapore del distacco.

E l’aria divenuta muta e irrespirabile.

 

“Faith? Sei lì?” – la voce di Wes rimbombò, preceduta solo dallo scatto della segreteria telefonica. Perché, c’era un telefono che suonava? – “Arriviamo tra non molto. L’abbiamo trovata. E’ al porto. Il covo è in uno dei capannoni della Protomac... tra dieci minuti saremo lì…”

 

E il suono della chiamata che si interrompeva.

 

Spike si raddrizzò, con lentezza, celato dalle prime ombre della notte.

“Oh, sì.” – sussurrò, mutando i lineamenti e cancellando le lacrime con l’altro volto – “Perché non un po’ di caccia…”

 

Mi farà bene.

 

Sì. Mi farà bene.

 

[V]

 

Angel stava già risalendo in superficie quando suonò il cellulare.

“Dimmi.” – rispose, sbucando da una galleria in un vicolo. Incredibile quante uscite esistevano, camuffate da porte, nei posti meno sospettabili.

“E’ stato qui.” – gli disse Faith, finendo di allacciarsi il fodero della spada – “E’ stato qui, Angel.”

“Non sei riuscita a trattenerlo?”

“No.” – scosse la testa e prelevò una seconda lama – “E’ fuori di testa, furioso, farà qualche scemenza. Me lo sento.”

“D’accordo.” – accelerò il passo – “Sto rientrando. Sarò lì tra poco.”

“E’ inutile. Avverti Edward. Cordelia e Doyle sono già partiti. Io sono con Wes, vado al porto.” – spostò il cellulare e lanciò un’arma all’osservatore – “Se cerca rogne andrà là.”

“Ne sei sicura?”

“Respira l’aria, Angel!” – rispose, spazientendosi – “Puoi seguire la scia di sangue, se ti fa piacere.

Spike è andato. E io adesso vado a riprendermelo!”

Lanciò l’apparecchio a Westley e finì di allacciarsi un bracciale.

 

Si sentiva esplodere.

Ancora un minuto e avrebbe fracassato ogni cosa.

 

E non dubitava che Angel stesse per fare altrettanto.

Anche se non gli aveva ancora parlato. Anche se non l’aveva ancora visto.

 

“Angel.” – la voce dell’uomo lo fece sobbalzare – “Ascoltami. Abbiamo un avvistamento di Drusilla, di circa un quarto d’ora fa. Era sulla…”

Angel aggrottò la fronte. La linea era disturbata, gracchiante. Ma le indicazioni geografiche di Westley gli sembrarono un colpo di cannone.

“Sta andando a casa di Methos.” – rispose – “Va a prendersi Edward.”

“Arriviamo.”

“Me la posso cavare. Occupatevi del porto. Faith ha ragione. Spike andrà a sfogarsi.” – accelerò il passo, ed estrasse la spada, preparandosi a colpire – “Vi raggiungo il prima possibile.”

 

Ho un ragazzo da difendere.

 

Wes staccò la chiamata. E si voltò verso Faith

“Cerca Doyle, aggiornalo.” – le disse, sfilando un’ascia dalla panoplia dell’ingresso e uscendo in strada – “Prendo la Plymouth e raggiungo Angel. Faith… non prendere decisioni avventate.”

“Tranquillo.” – ringhiò lei, già a cavalcioni della moto – “Mai stata più lucida.”

 

***

 

Methos non ebbe tempo di prenderla nemmeno male. La freccia lo centrò in pieno stomaco, catapultandolo contro il muro al primo passo fuori dall’ingresso secondario di casa. E facendogli uscire dalla bocca una di quelle parolacce irripetibili in una lingua ormai inutilizzata sulla faccia della terra.

Edward, più pronto, messo logicamente all’erta, riuscì a schivare il secondo dardo e assestò una spinta all’uomo, rispedendolo in casa e piazzandosi al centro della porta.

Intanto, palesemente, volevano lui. E se ne sarebbero fregati dell’immortale, impegnato a rantolare e a strapparsi la freccia di dosso.

Sfilò le due spade che aveva nella sacca e si preparò a vender cara la pelle, proprio mentre la Plymouth si fermava, sbandando, nel cortile.

Westley non si fece spiegare nulla. Prese la mira con il balestrino manesco e ne atterrò uno, purtroppo senza ucciderlo, prima ancora di scambiare due convenevoli.

“Methos?” – urlò, saltando giù e impugnando meglio l’ascia bipenne.

“Preso. Gli ci vorrà un po’.” – gli urlò Edward, correndo verso la mischia – “Te ne servono di vivi?”

“No, sfogati pure.” – rispose l’uomo, seguendolo e tirandosi addosso metà della marmaglia – “So già abbastanza, grazie.”

“Ma ti pare.” – Edward usò la macchina di Angel come trampolino lasciandogli una bella ammaccatura. E atterrando ne ‘nuclearizzò’ un paio – “Era giusto per non complicarti l’esistenza.”

“Apprezzo la gentilezza, sei il primo che ci pensa.” – rispose, assestando un bel calcio al suo avversario. La cara vecchia educazione inglese, come gli era mancata!

Avesse chiesto, Edward gli avrebbe riservato degli ostaggi con la stessa grazia con cui si porgono i vassoi di pasticcini nei salotti della buona società.

Si voltò, sorridendo, continuando a menar fendenti.

E vide un uomo furioso emergere dal corridoio delle cantine. Impolverato e già con la spada sguainata.

Methos valutò rapidamente la mischia. Poi vi si tuffò, impugnando a due mani la sua arma. E dando priorità di morte ai vampiri dotati di balestra.

A conti fatti, Wes ed Edward avrebbero potuto anche fermarsi a guardarlo. Da solo faceva il lavoro di tre.

 

Furioso.

 

“Alla faccia degli assenti cavalieri dell’apocalisse.” – esclamò Westley, senza riuscire a trattenersi.

Poi una testa gli passò rotolando sui piedi – “Ed ecco l’altro che arriva.”

Anche Edward l’aveva sentito. Forse per l’incremento di urla. Angel arrivava direttamente dall’alto, come tutti gli eroi che si rispettano. E senza farsi annunciare.

 

“Per la miseria…” – rise, senza riuscire a trattenersi – “Batman!”

 

Angel lo fulminò con un’occhiata e gli venne vicino. Schiena contro schiena, come quella mattina. Uno sincronizzato con l’altro.

E finalmente contenti entrambi di potersi sfogare.

“Questo è il pregio di Drusilla.” – gridò Methos, sopra la mischia – “Procura sempre un sacco di distrazioni.”

“Ah, certo, intanto è il mio collo che vuole mordere, mica il tuo!” – si girò, abbassandosi per un soffio – “Angel, notizie di William?”

“Faith sta seguendo una pista. Finiamo qui e andiamo a dare un’occhiata.”

“Allora muoviamoci. Sono stanco di girarmi i pollici.” – rispose, atterrandone un altro. E facendosi largo con la sua polverizzazione – “Avanti il prossimo!”

 

I loro avversari erano particolarmente eroici. O particolarmente stupidi, in base all’ottica.

E si fecero falcidiare tutti, prima di ponderare l’idea di una ritirata.

Quando fu passato attraverso l’ultimo aggressore, Edward si guardò intorno.

Poi fissò Angel. E la mano con cui gli aveva afferrato un braccio, tirandoselo vicino.

“Non uscire dalla mia visuale.” - ordinò, mettendoselo dietro le spalle. Edward fu così sorpreso da non osare replicare. E rimase fermo, tra il vampiro e il muro.

 

Poi comprese.

 

“E lei?” – domandò – “E’ qui?”

“Sì.” – replicò lui, annuendo, spostando lo sguardo tutto intorno – “E’ qui.”

 

Posso sentirla chiaramente.

Vuole che la senta.

E ha l’odore di Spike addosso.

 

“Dove.” – domandò Wes. E Methos lo tirò a terra, dietro la macchina, prima che potesse sentire una risposta.

“E con questa sono due.” – rantolò, mostrando la scapola all’uomo – “Price, renditi utile. Era tua questa freccia, levamela almeno di dosso.”

“Sono commosso.” – ribatté Wes, afferrando il dardo e strappando senza preavviso, mentre un secondo spaccava lo specchietto sopra le loro teste – “Hai suggerimenti?”

“Solo uno.” – tossì l’altro, appoggiando la tempia alla fiancata – “Strisciamo fino alla porta, andiamo di sopra a farci un brandy e dimentichiamoci di quei due.”

“Non mi tentare, per favore.” – ribatté Wes, lanciando la freccia lontano e guardando Angel. Angel ancora fermo, con Edward alle spalle.

Come in attesa.

Ci saranno stati sei metri tra loro. Sei metri pieni di cenere scomposta della loro ultima battaglia.

Cenere e armi, rimaste abbandonate.

Respirò a fondo. E scivolò un po’ più sdraiato.

“Ok.” – sussurrò, cominciando a tirare verso di sé una balestra – “Organizziamoci…”

Methos sbuffò. E, sempre sbuffando, studiò come arrivare ad una seconda arma.

 

***

 

Nello stesso momento, Cordelia stava parcheggiando, nella zona del porto. E Doyle stava bevendo una bella sorsata dalla fiaschetta d’argento.

“Vuoi?” - le offrì.

E lei, a sorpresa, accettò, con uno spicciativo grazie. E una smorfia.

“Io non so come tu faccia a berlo…”

“Fa girare la testa ma ti rende più leggiadro.” – ribatté lui, allungandosi ad afferrare le armi sul sedile posteriore – “E non è un male, quando devi correre.”

 

E Doyle era certo di dover correre, viste le stime con cui Westley Whydam-Price lo aveva terrorizzato nell’ora precedente, prima di farsi lasciare all’Hyperion a recuperare armi e macchina.

L’espressione dieci a uno era stata ripetuta un po’ troppe volte, per i suoi gusti e per quelli di Methos. L’unico soddisfatto era sembrato Edward. Ma, del resto, lui era il fratello di Spike. Non c’era da stupirsi che fosse dotato di molto coraggio e del tutto privo di cervello.

Il fascicolo della East Protomac era stato più volte aggiornato. Doyle ed Angel avevano visto giusto, nel seguire quella pista e nell’indicarla a Cordy e Wes. I due, lasciati liberi di indagare, avevano messo assieme tanti di quei particolari da lasciarli addirittura senza parole... non una ma ben due fabbriche, se non tre, che recavano quel marchio presentavano in contemporanea una certa attività demoniaca. Non ultimo il covo ripulito quella mattina.

Insomma, una proliferazione sotto i loro occhi.

Il problema stava nel fatto che fosse come cacciare le talpe. Se non le stanavi con metodo, fuggivano per chissà quanti condotti fino a nuovi nascondigli… un bel guaio, visto che la Cacciatrice su piazza, come molte della sua stirpe, era una fautrice del ‘trova e squarta in base all’umore’.

Di certo, unica consolazione, tutto quell’agitarsi non era reputabile al ritorno di Drusilla. E, quindi, con un certo sollievo, non implicava che la Angel Investigation arrivasse alla punta dell’iceberg in meno di trentasei ore.

 

Un problema alla volta.

Prima Spike.

Poi Dru.

Infine l’indistruttibile stirpe vampirica di Los Angeles.

 

Drusilla, infatti, con buone probabilità, guidava solo una fazione o due ed era in buoni rapporti con l’attuale gerarca. Fatto che avrebbe spiegato le truppe scelte di cui era fornita e il suo raggio d’azione apparentemente vasto.

 

“Quanto al tatuaggio, probabilmente è un capriccio assecondato da alcuni particolarmente invasati.” – aveva concluso Westley, godendosi finalmente il suo the oramai freddo, seduto nella cucina di Methos.

“Il fascino innegabile della follia.” – aveva commentato il cantastorie, cupo, spingendo lontano gli appunti, disgustato.

Con Edward che lo guardava, sottecchi.

“E’ vero che lei…” – si era fermato, cercando di dosare le parole. E Doyle lo aveva tolto da ogni impaccio.

 

“Sì.” – aveva annuito, senza guardarlo, appoggiandosi allo schienale e tamburellando sul tavolo – “Lei è come me... era. Era come me. E come mia madre. Membro onorario del club.”

 

Ed ora è tutto l’opposto. Folle e perduta, la mente piena di ombre e immagini che non saranno mai utili a nessuno.

Doyle si era portato le mani alle tempie, ragionando.

Ed Edward non aveva detto nulla, lasciandogli il tempo di pensare. E ripensare alla sua visione.

 

Non aveva fatto altro, tutto il giorno, tra un colpo di scena a l’altro.

La visione vissuta due volte... apparentemente identica, replicata.

Per quale motivo?

Possibile che nella sua realizzazione, quel mattino, fosse sfuggito un particolare tale da rendere necessario riportarla all’attenzione?

Possibile?

I vampiri attaccavano Edward... e c’era una bambola con gli occhi vuoti.

Una bambola tatuata, aveva detto l’immortale. Ma era stata realmente tatuata, nella visione?

Perché non ne era così convinto?

 

“Certo.” – Cordelia interruppe la recriminazione e lo afferrò per un braccio, strattonandolo, riportandolo alla realtà – “Doyle, abbiamo un problema.”

“Uno solo?” - chiese, stupidamente, cercando di scacciare, riflessioni, ricordi e considerazioni in un colpo solo.

“La DeSoto.”

“Cosa?” – Doyle saltò fuori da sotto il cruscotto. Era la DeSoto dai vetri anneriti, indubbiamente quella di Spike – “Allora è qui…”

“Fermo dove sei. Nessuna crociata.” – replicò lei, tenendolo saldamente e afferrando il cellulare – “Non ficcare il naso.”

“Ma cosa... Principessa, se Spike è qui, io devo parlarci!”

“No che non devi. Non sei nessuno dei suoi due fratelli, tieni il naso fuor da questa storia.” – lo scrollò, perché le parole gli arrivassero al cervello un po’ più velocemente – “Senza contare che qui è venuto certamente a fare un massacro. Non a unirsi ad una causa persa!”

“E mi dici come farebbe a saperlo?”

“Ragiona! Io sono uscita di casa che la DeSoto era in garage! E’ passato dall’Hyperion, prima che noi ci lasciassimo Wes. E là c’era…”

“Faith.” – concluse il demone, per lei. E dandosi dell’emerito imbecille, per un sacco di motivi differenti. - “Se Spike è qui da solo, non voglio pensare a lei…”

“Lei quella?” – domandò Cordelia, mentre la moto nera svoltava l’angolo e li affiancava.

Cordelia abbassò il finestrino e Faith alzò quasi all’unisono la visiera del casco.

“Aspettiamo un invito?” – domandò, guardandoli entrambi.

 

Aveva gli occhi stellati, pieni di rabbia. La disperazione della cacciatrice brucia come un fuoco nero, si sorprese a pensare Cordelia.

Davanti al dolore attingiamo tutti dal nostro intimo…

 

Los Angeles, 2000

 

“Ho finito, ora?”

No, sono finita io, pensò Cordelia, spegnendo il video registratore. E voltandosi. Dietro di lei, in piedi, appoggiato alla porta, c’era Angel.

“Da quando sei lì?”

“Da quando… i ratti sono bassi.” – rispose, con voce incolore, fissando lo schermo spento – “Di tre volte fa.”

Cordelia abbassò gli occhi. Era vero. L’aveva fatto di nuovo…

Vedeva e riavvolgeva. E vedeva di nuovo.

Una, due… tre…

“Allora potevi venire a sederti.” – sospirò, raccogliendo alcuni fogli. Giusto, stava riordinando quando… quando la videocassetta le era capitata tra le mani. E il mondo così come girava le era sembrato di colpo incolore.

E silenzioso.

Niente porte che sbattono… niente camicie improponibili… niente occhi color del cielo.

Niente, in questo ufficio…

“Cordelia, forse non dovresti continuare a vederla.” – commentò il vampiro, guardandola aprire e richiudere lo schedario – “Non cambia niente.”

“Mi manca la sua voce, Angel. L’avresti mai detto? Mi manca la sua voce e le sue frasi scoordinate. Mi manca…mi manca lui…”

“Anche a me.”

L’aveva detto senza muovere un muscolo. Ma era la prima volta. La prima volta che ammetteva quell’assenza. E Cordelia si era voltata, fissandolo, in attesa.

Angel, immoto e incomprensibile Angel.

“Mi manca, Cordelia.” – aveva ripetuto, con un’alzata di spalle – “E’ solo che… una videocassetta è riduttiva, per uno come Doyle.”

“Già. Ma è tutto ciò che resta.” – rispose, sentendo male al petto. E sedendosi, con una mano sulla guancia – “Non c’è più nient’altro.”

 

Non voleva piangere. Piangendo avrebbe reso tutto ancora più reale e incolore.

Tutto più spento e freddo.

Il mondo cala di intensità, senza di te. Non sento più… non sento più i suoni della città.

 

Non sento più nulla.

 

Stupido, stupido irlandese. Piccolo stupido uomo senza cervello.

 

Angel aveva mosso un passo verso di lei.

Ma lei era Queen C. e nulla poteva farla desistere.

Con mano pronta aveva afferrato la borsetta. E lo specchietto.

 

Guardati negli occhi. 

Ricorda chi sei.

 

Ricorda Doyle e il tuo modo di chiamarti Principessa.

E non cedere. Non cedere.

 

“Passato.” – aveva dichiarato, alzandosi, un’ultima ravviata ai capelli – “E’ passato. Andiamo.”

 

“Aspettiamo gli altri.” – rispose Cordelia,   posando comunque le dita sulla sicura della balestra che teneva tra le ginocchia. E guardando Faith dritto negli occhi – “Sono veramente troppi.”

“Uno dei nostri è dentro, da solo.” – non chiamarlo per nome… o ti verrà da urlare – “Angel è bloccato, hanno attaccato Edward. Wes ha detto che cercava di raggiungerlo.”

“Quindi lei è là.” – replicò Doyle, senza attendere altri particolari, fissando un punto imprecisato, tra i magazzini – “Ha atteso il tramonto, come diceva Angel.”

“Lei chi? Drusilla?” – Cordelia si voltò, come se si fosse scottata – “Allora andiamo anche noi, possiamo essere più utili.”

“No, Cordy.” – la Cacciatrice scosse la testa, rimettendo in moto – “A Edward baderà Angel.

Noi occupiamoci di Spike.”

 

Perché Angel ha ragione, pensò, mettendo in moto e partendo.

 

Noi siamo la sua famiglia,

Puntò verso una rampa dismessa e una vetrata annerita.

 

Se non lo aiuteremo noi… non lo fara' nessuno.

 

“Oh, no, non di nuovo!” – Doyle aprì la portiera, urlando, afferrando alcune armi – “Non come stamattina, pazza furiosa!”

 

E’ mio. E me lo riprendo.

L’impatto fu indescrivibile.

I vetri si infransero. E piovvero fino in strada.

 

***

 

“Dove…” – Edward setacciò con lo sguardo tutta la zona. E strinse maggiormente le due spade tra le mani. Quel contatto con la pelle delle impugnature gli sembrò rassicurante. 

 

L’intuizione di prelevarle dalla panoplia di Methos è stato un vero colpo di genio.

 

Devo procurarmi anche io due lame gemelle, quando torno a casa, pensò, distraendosi con pensieri normali, come aveva sempre fatto, per combattere la tensione, o il dolore.

La mente di Edward si allontanava d una sfumatura dal presente, dandogli tempo di riflettere, di riacquistare controllo. Come l’esercitarsi a tirar di spada, come il correre in moto.

Edward abbandonava il reale, per brevi frazioni di respiro.

E acquisiva maggior consapevolezza.

“Tutto intorno.” – replicò Angel, sibillino. E una freccia gli si piantò nel torace, senza smuoverlo – “Resta dove sei, Coventry.”

Abbassò gli occhi e strappò la freccia, spezzandola, a pugno chiuso.

Il sangue gocciolò lungo la camicia, mentre la ferita iniziava già a rimarginarsi.

“Qualunque cosa accada.” – sussurrò, immobile come una statua – “Non toccare il mio sangue, o quello di Dru… non toccare il sangue, Edward. E fidati di me.”

“Ci son costretto.” – scherzò lui, sorridendo appena. Wes, ancora sdraiato e ormai a pochi centimetri dall’impugnatura di una balestra, lo fissò.

Illuminato dai lampioni intermittenti, a fianco di Angel, gli sembrò Spike. La feroce bellezza del combattente.

“Non ti distrarre, Price.” – replicò Methos, studiando la situazione – “Siamo in un guaio. Questo non è un cortile… è una sacca…”

Era vero. Li circondavano, da ogni lato. Erano sui tetti, gli stessi su cui aveva corso Angel, per raggiungerli. Ed erano in strada, alle loro spalle.

“Ci mancano solo i cespugli incendiati giù dalle pendici.” – borbottò, girando gli occhi allo spazio circostante.

“Hai suggerimenti?”

“La fuga?”

“Altri suggerimenti?” – rispose Westley, allungandosi ancora di un palmo.

“Diamo loro quello che vogliono.”

“…”

“Sto scherzando. Sto scherzando, Price!” – alzò gli occhi al cielo. E si piegò sui talloni per scattare – “Torno subito.”

 

Methos percorse lo spazio con una velocità che da lui non si sarebbero mai aspettati. Quel corpo magro, fatto di muscoli sottili, dunque, non era solo di bellezza.

Methos sapeva anche muoversi, e senza tenere la mani in tasca, se solo voleva.

Con una capriola fu al centro dello spazio. Le frecce, puntate verso di lui, si piantavano nella sua scia.

Dritto, fino al primo riparo.

E poi di ritorno, altrettanto inaspettato.

“Ecco, tieni.” – disse, lasciando cadere frecce e armi tra lui e l’osservatore – “Dici che bastano?”

Wes era senza parole.

“Ma non stavi solo pensando a un piano?” – mugugnò, tornando verso di lui.

“Che vuoi che ti dica… meglio fare che pensare, ogni tanto.” – rispose, con un’alzata di spalle. E con l’aria modesta – “E poi mi spiaceva saperti sdraiato nella polvere… anche se è una legge di natura…c’è chi striscia e chi vola…”

“Methos, un giorno o l’altro, io ti spaccherò i denti.”

“Sorriderò innanzi ai tuoi tentativi.” – ribatté, spicciativamente, stringendo la spada nella sinistra e impugnando la balestra armata – “Adesso che sembriamo Terminator che facciamo?”

“Quello che stavamo già facendo. Aspettiamo la prima mossa.”

 

Già. Aspettiamo.

 

Angel strinse gli occhi, spingendo al limite i suoi sensi. La freccia tirata era stata un avvertimento, una beffa. Ma lei… dove era lei?

La leggera folata di vento gli portò alle narici il suo profumo. E l’aroma intenso del sangue di Spike, facendolo imbestialire ancora di più. E mutare.

“Non ti ho insegnato che non ci si nasconde mai?” – domandò, alzando la voce, con il tono più beffardo – “Una cosa è demandare... ma il tuo è un comportamento vigliacco.”

Nulla.

“Lui è qui… io, io sono qui.” – aggiunse, spalancando le braccia – “Eppure continui a startene rintanata. Mi deludi, Dru, mi deludi veramente.”

Silenzio.

“Benissimo.” – sorrise. E incrociò le braccia. Dru poteva celarsi… ma li vedeva di sicuro – “Fai come vuoi.

Rimane il fatto che chi non si presenta in campo perde. E quindi…”

Angel fece due passi indietro. Ed Edward si appoggiò contro il muro, le braccia ancora lungo i fianchi, le mani tese sulle impugnature delle spade.

“E quindi lui è mio.” – rise il vampiro, voltandosi e chiudendolo in uno spazio angusto. Fissandolo, con il volto del demone, prima di abbassare la testa.

“Faccio che chiederti scusa.” – mormorò Angel, comprimendolo, bloccandogli i polsi con le mani, il corpo con il suo peso. E arrivando a posargli i denti nello stesso punto violato da Spike.

Edward non si mosse. Per un attimo il cervello gli fu attraversato dal flash di William che compiva gli stessi gesti, con rabbia, con disperazione. Ed rabbrividì, in quel ricordo, senza divincolarsi.

 

C’era stato qualcosa di selvaggio e inspiegabile in quel loro abbraccio. Anche ora, con la mente tesa allo spasmo verso la realtà, Edward non poteva sottrarsi alla sensazione orribile provata.

Non la vita che scivolava lungo la gola di William. Ma la disperazione di quella morsa inesorabile con cui era stato stretto.

 

William… William non andartene…

 

Angel, di risposta, gli sembrò incredibilmente freddo... e letale. Con incredibile lucidità, comprese il bluff. E, allo stesso modo, provò ugualmente paura.

Quello era il Flagello d’Europa, narrato nei libri con orrore e rispetto allo stesso tempo. Quello era il demone che aveva incatenato William alle tenebre.

I denti di Angel gli cesellarono la pelle, affondando appena, quanto bastava da rendere credibile la messinscena, e il sangue gli inumidì la bocca, provocandogli un senso di vertigine.

Sangue di Edward, eterno, eppur così simile ancora a quello di William, così forte da fargli desiderare di non fermarsi, nel bloccargli maggiormente i polsi. Nel sentirlo irrigidirsi senza potersi difendere.

 

Potrei, ora… sarebbe la stessa inebriante scelta di un tempo…

 

E Methos prese la mira, sotto lo sguardo di Wes.

Alla schiena di Angel, dritto al punto dove il cuore batteva.

Uno… due…

 

“Fermo!”

 

Wes posò la mano sulla balestra dell’uomo, spingendola verso il basso.

“Tranquillo.” – sussurrò – “Ha funzionato.”

 

Non so come… ma ha funzionato.

 

“Puntuale come sempre.” – sospirò Angel, le labbra ancora sul collo di Edward, mentre altre due frecce gli si infilavano nel costato. Un dolore non dissimile al sollievo di tornare ad essere se stessi.

“Meno male.” – borbottò l’immortale, teso come una corda di violino – “Iniziavo ad averne abbastanza di questo rozzo rituale.”

Angel girò impercettibilmente la testa. E i due si fissarono. Poi Angel, con un sorriso arrossato dal sangue, tornò ai suoi lineamenti di sempre.

“La prossima volta ti bacio.” – lo sfotté, sottovoce, prima di voltarsi.

“Provaci!” – replicò, senza riuscire a frenarsi, sentendosi allo stesso tempo sollevato e furioso. E presto distratto, dalla figura esile apparsa dal nulla.

 

Eccola, dunque.

Edward aggrottò le sopracciglia e, istintivamente, si raddrizzò, avanzando verso di lei, affiancando quasi Angel.

Quella era Drusilla.

Una bambola.

Una bambola di porcellana con occhi indefinibili.

 

Drusilla gli sorrise. E si portò le dita alla bocca, con aria estatica. Aveva labbra innaturalmente rosse e, si accorse Edward, con orrore, polpastrelli dello stesso colore.

“Sangue…” – sussurrò.

Ed Angel non osò ribattere. Perché quello era ben più di sangue qualsiasi. Sangue prezioso.

Sangue di Spike, inconfondibile.

Eppure lui non c’era. Angel ne era sicuro. Non lo percepiva.

Drusilla si addolcì. Si avvicinò, superando la Plymouth. E si fermò, ignorando Wes e Methos, ancora seduti a terra, impegnati a tenerla sotto mira.

“Sangue tuo.” – rispose, con gentilezza – “Sangue come il tuo.”

Le pupille di Edward si dilatarono. Ed Angel gli posò una mano sul torace.

“Fermo.” – disse, senza voltarsi, spingendolo appena indietro con una nocca – “Ti sta provocando.”

“Lo sai che non sto mentendo.” – ridacchiò lei.

“Angel…” – pronunciò Edward, guardando la creatura dagli occhi viola.

Non l’aveva detto come une preghiera. Era quasi un ordine a denti stretti.

“E’ sangue di Spike.” – rispose, senza mezzi termini e senza perdersi in menzogne rassicuranti – “Troppo poco per significare qualcosa. Serve solo a provocarci entrambi.”

“Allora adesso fatti dire dove ha lasciato mio fratello.” – Replicò il ragazzo, premendo contro quella mano d’acciaio – “Oppure, tra un attimo, me ne occuperò io.”

L’aveva detto fissandola dritta in faccia. E sfidandola.

“Uh…” – replicò lei, sbarrando gli occhi – “Tale e quale al fratellino.”

“Allora dovresti sapere che farà quello che ha detto.” – commentò Angel, movendo un passo verso di lei. E tirandole sui piedi le frecce che si era tolto di dosso – “E quindi affrettarti a rispondere.”

Drusilla aggrottò le sopracciglia. E fissò il vampiro.

“Spike ha detto che tu non mi lascerai prenderlo.” – lo accusò – “Che lo vuoi per te, come hai voluto lui.”

“Dru, una cosa è essere pazzi e una cosa è essere completamente stupidi.” - Angel incrociò le braccia, trattandola come una bambina – “Mi sembra evidente che non ti lascerò vampirizzare nessuno. E indipendentemente dalle illustri parentele.

Se poi vogliamo buttarla sul personale… no. Non intendo cedertelo.”

Drusilla piegò la testa, guardandolo.

“E, se non ti basta, usa i sensi.” – aggiunse – “Il problema non sono io. Qualcuno lo ha reclamato prima di me.”

“Stai…” – soffiava come una gatta – “ mentendo.”

“Mento quanto te. Edward è territorio di Spike. E’ marchiato.” – Angel si passò un pollice sulle labbra, mimando i suoi gesti di poco prima – “Un peccato, visto il sapore… questo ragazzo è fuori dalla portata. La mia e la tua.”

 

“Adesso Edward perde la pazienza.” – sussurrò Methos, prendendo bene la mira – “Non tollera essere strumentalizzato.”

“Se vuole uscire incolume da questa storia dovrà rassegnarsi.” – ribatté Wes – “E’ una trafila base tra Angel e Drusilla, questa. Digli di chiedere a Faith se ha dei dubbi. E smetti di puntare a lei.”

“Lei è la fonte dei nostri problemi. Miro, tiro, risolvo. Tu passi l’aspirapolvere dopo.”

“No. Tu miri, tiri, risolvi se ci liberiamo dei cecchini sui tetti.” – Wes puntò un dito verso l’alto – “Sacca… cespugli incendiati… rammenti?”

“Sei un guastafeste.”

“Spiacente, non mi ferisci. Spike mi chiama in un altro modo. Meno gentile. Ma il senso è lo stesso. Ed ora muoviti… abbiamo da fare.”

Methos non sapeva se picchiarlo o rassegnarsi. Come sempre, quando si trattava di Westley Whydam Price e del suo incrollabile buonsenso anglosassone.

“Prego… dopo di te…” – insistette l’uomo, indicandogli l’ingresso dell’edificio – “Sei tu quello volante… no?”

 

***

 

Nessuno aveva detto loro che le cacciatrici sapevano volare.

Nessuno.

Ma da una come Faith ci si poteva aspettare questo e ben altro.

La moto era passata sopra le teste dei vampiri descrivendo un arco perfetto. La Cacciatrice l’aveva cavalcata quasi fosse un drago, sollevando scintille nel riatterrare, nel tenere dritta la moto il tempo che bastava da ammutolire i presenti, umani e non.

E cadendo di fiancata, aveva semplicemente lasciato andare il manubrio, artigliandosi al primo gancio di fortuna individuato.

Doyle e Cordelia erano apparsi giusto in tempo per distrarre la folla vampirica. E per capire che erano in guai… guai grossi.

 E che, loro due, erano gli unici ad esserne consapevoli.

 

Perché Faith aveva ben altro per la testa, nel cominciare a combattere.

E Spike si stava divertendo troppo, votato a farsi massacrare.

“Non guardarlo.” – sussurrò Doyle, vedendo la testa bionda del vampiro.

 

Non guardarlo.

O non potrai più fare a meno di guardarlo.

 

Spike combatteva, senza mutare i lineamenti. Combatteva con tutto sé stesso, sfruttando ogni risorsa a disposizione.

Ed era bellissimo, con quelle lacrime sul viso, con quell’espressione indefinibile di dolore e rabbia. Tutto intorno, mischiata ad urla e imprecazioni, c’era la musica.

La musica di uno stereo dimenticato.

 

Spike. Spike che uccideva sulle note di un pianoforte che non si sarebbe mai fermato.

 

Anche Faith lo vide. Lo vide alzare la testa, allungare la spada e urlare. Forte, senza modulazione.

E uccidere. Uccidere.

Cenere alla cenere... Polvere alla polvere, offrendo il petto ai colpi.

 

Cordelia gli stava correndo incontro. Armava la balestra e colpiva. E quando ebbe tra le mani l’arma scarica, semplicemente se ne liberò, gettandola alle spalle. E afferrando l’ascia, adoperandola come un mulinello.

“Non ne usciremo vivi, non ne usciremo vivi.” – continuava a ripetere, come un mantra. E l’idea di morire giovane, prima di diventare incredibilmente famosa, la riempiva di rabbia. E le dava una carica incontrollata – “Non ne usciremo vivi… e quando sarà finita io ucciderò Spike. Ucciderò Spike e Faith. Spike e Faith.”

 

Spike e Faith, schiena contro schiena, al centro del disastro.

In sintonia perfetta.

“Amore, ciao.” – le disse il vampiro, ridendo, nel vederla apparire – “Complimenti, bell’entrata ad effetto.”

Rideva. Rideva e piangeva senza fermarsi.

“Ti stavo aspettando.”

Faith lo fissò, uccidendo con lui il vampiro che li separava. Sentendosi afferrare per la vita e baciare.

Baciare con violenza, il proprio sangue dalle labbra che si laceravano.

Morsa, morsa per amore e possesso.

 

Sono tua, pensò. Sono tua qualunque cosa accada.

Anche nel morire.

 

“Allora.” – urlò lui, lasciandola andare, difendendola da un nuovo attacco – “Adesso sai chi sono? Lo sai, ora?”

 

No.

Non mi importa.

Tu sei Spike.

 

E io sono Faith.

 

Si piegò, schivando un colpo. E seguendo la scia di sangue che il vampiro si lasciava dietro.

 

Doyle allo stesso modo, si stava dando da fare, senza perdere di vista Cordelia. Colpiva, mutilando, atterrando e polverizzando, creando un’apertura nella folla demoniaca.

Vampiri vestiti come lui, o avvolti in abiti retrò. Splendide donne con chignon morbidi e lunghi guanti, visi stravolti dalle cartilagini prominenti.

Oh, sì... a Edward sarebbe piaciuto. Era questa la sua idea di clan vampirico, oltremodo cinematografica e inverosimile.

 

Ed altri corpi che divenivano cenere.

 

Edward.

Fu in quell’attimo che lo vide. Lo vide di fronte a sé.

 

No. Non è Edward. E’ William. William, si ripeté, sbattendo le palpebre.

 

Ed Edward si voltò, gli occhi azzurri che si dilatavano. La mano protesa, troppo lontana dalla spada.

E Drusilla. Drusilla che, in perfetto silenzio, gli lacerava la gola.

E beveva.

 

Beveva senza che nessuno la fermasse.

 

Doyle urlò, lasciando cadere le armi, portandosi le mani ala testa.

Urlò, cadendo in ginocchio.

 

E Spike, rispondendo all’istinto di sempre, in un attimo, gli fu a fianco.

 

***

 

Drusilla aveva un viso triangolare, sotto una grande massa di boccoli scuri, lunghi e pesanti, appena scomposti dalla leggera brezza della notte.

I suoi occhi, ora visibili, apparivano viola, del blu delle genziane.

E, cosa terrificante per Edward, quando rideva, assomigliava a Carrol. Non era nel colore degli occhi, o nei capelli, la somiglianza. Era qualcosa nella bocca, nel modo di sorridere, di muoversi.

Drusilla rendeva quei gesti insopportabili, inquietanti. Ora, innanzi a lui, farneticando in maniera quasi incomprensibile.

Ma la sensazione di vedere Carrol restava. Restava.

 

Chissà se William se ne è reso conto…

 

Chissà se sono io, che non distinguo più il passato dal presente…

 

Provenza, 1852

 

Carrol aveva urlato di riprenderle il cappello.

William non se l’era fatto ripetere. Ed era saltato giù dal ponticello, dritto nel torrente.

Senza restare in piedi. Riuscendo a cadere, probabilmente, nell’unica depressione profonda più di mezzo metro.

La ragazza, si era dovuta sedere, tenendosi il fianco per il gran ridere, dimenticando il cappello, perso per una folata di vento.

Edward aveva infangato gli stivali di cuoio da cavallerizzo e, ridendo senza controllarsi, come la ragazza, si era ripescato il fratello.

 

“Edward, per favore.” – gemette William, mettendosi in piedi. L’acqua gli raggiungeva a malapena le ginocchia… ma lui era fradicio fino ai capelli, con il cappello incrinato tra le mani. Ritratto di quindicenne fradicio fino all’osso e ferito nell’orgoglio – “Non ridere…”

“Non rido.” – aveva risposto, cercando di bloccare i lineamenti. Non sto ridendo, non sto ridendo – “Non sto ridendo.”

L’afferrò per un gomito, tirandolo fuori dal fiumiciattolo. E capendo troppo tardi lo sbaglio madornale.

“No, no, Willie no!” – urlò, sbarrando gli occhi, mentre William inciampava.

E precipitava.

 

Gli precipitava addosso, con la fiducia inespugnabile di chi sa che sarà comunque preso al volo.

 

Adesso le risate di Carrol erano indescrivibili. E non c’era mano elegantemente sulla bocca che potesse celarle.

Edward inarcò la testa e la fissò. Bellissima, le guance troppo rosa, capovolta nella sua visuale. I capelli le ricadevano sulle spalle, dorando la giacca rossa da cavallerizza, il colletto rigido di velluto nero.

“Per favore… non dire nulla.” – sospirò, sentendo l’acqua passare dai vestiti di William ai suoi – “Non dire nulla.”

 

“Chi, io?” – la ragazza era rossa di labbra, gli occhi brillanti – “Io non ho visto nulla…”

 

Non ho visto nulla…

 

Carrol… morta anche lei in una vita perduta. Ed ancora così viva.

E così disperatamente distorta in quella vampira sorridente.

 

“Spike non te lo ha detto?” – stava incalzando Angel, in quel presente oscuro – “Non ti ha fatto notare questo piccolo particolare?”

“Lui…” - Drusilla piegò la testa. E gli occhi divennero vuoti, mentre muoveva le dita innanzi a sé – “Lui ha detto che è tuo… che mi ucciderà… che mi ucciderà…”

Angel sentì il cuore di Edward accelerare. Accelerare disordinatamente. Cosa provava? Paura per William, sollievo per quelle parole? Aveva forse la sensazione che il fratello volesse proteggerlo?

Chi poteva dire cosa significassero le parole riportate da Drusilla, con quello sguardo.

Drusilla, che ora avanzava, tendendo le braccia.

“Io non gli credo.” – scosse la testa, arrivando incredibilmente vicina – “Non credo che mi farà del male. E di te, non ho paura. La tua anima... la tua anima… la tua anima ti incatena.”

Era ad un passo. Solo ad un passo.

“La tua anima non mi toccherà.” – sorrise, di un sorriso folle, scotendo la testa.

 

E una freccia la colpì, penetrandole nel fianco.

Angel sobbalzò. E alzò gli occhi. In cima al tetto, con Methos a fianco, c’era Wes.

E come fossero arrivati lassù gli sembrò un mistero.

 

L’osservatore, nel frattempo, stava ricaricando l’arma.

“Bel colpo, Price.” – si complimentò l’immortale, facendo dondolare la spada. Puntando la propria balestra al tetto di fronte e guardando un altro vampiro dissolversi – “Con questo dovremmo avere finito.”

“Me lo auguro.” – rispose l’uomo, mirando di nuovo alla vampira. E osservando, con disappunto, il perfetto allineamento tra la testa di Angel e il cuore della vampira – “Dopo accetterei volentieri quel brandy…”

“Qualcosa mi dice che non avremo tempo.” – rispose Methos, rabbuiandosi. E si voltò, correndo giù dalle scale.

 

Drusilla impazzì del tutto, sotto i loro occhi. La macchia rossa che si allargò istantaneamente sul suo vestito, la fece gridare. E scattare verso di loro, con i lineamenti già mutati.

Angel fu pronto ad afferrarla per la vita e scagliarla indietro, frapponendosi tra lei ed Edward. Dru volò scompostamente alcuni metri oltre ed il vampiro le fu subito addosso, in un furioso corpo a corpo.

La donna si divincolò, difendendosi con le unghie e con i denti. E, infine, afferrando una freccia, piantandola, con tutta la forza che aveva, nel corpo del vampiro, inchiodandogli assieme il braccio e il torace, fermandosi un soffio troppo lontano dal cuore.

Angel urlò e mutò, colpendola con violenza inaudita. E rialzandosi, barcollando. Preparandosi a colpirla nuovamente.

Le loro posizioni si invertirono, quando Drusilla lo atterrò, cavalcandolo.

E alzando il viso, colta di sorpresa, dal colpo che la prese in pieno viso, sbalzandola e facendola rotolare via. Edward lasciò cadere il tubo metallico e riafferrò la seconda lama, avanzando verso di lei.

Westley lo seguì, spasmodicamente, cercando di arrivare a prendere la mira prima che Edward raggiungesse la donna.

Ma Coventry, incredibilmente slanciato e esile, le due spade tra le mani, i capelli biondi gettati alle spalle, si moveva troppo veloce.

 

Per mio fratello.

Perché adesso voglio vedere questo tuo sangue velenoso, una volta per tutte.

 

“Edward, no!” – urlò Angel, puntellandosi e cercando di rimettersi in piedi. Imprecò, sfilando la freccia e girando su se stesso, giusto in tempo per vederlo camminare, sinuoso e furibondo, verso di lei. Di lei, che si rialzava e lo attaccava, con gli occhi gialli e il viso demoniaco stravolto dalla rabbia.

 

***

 

Spike, nello stesso istante in cui vide cadere Doyle, si frappose tra lui e il primo assalitore, colpendo con la sua precisione leggendaria e dimenticando come il demone fosse un traditore spregevole.

“Faith, qui!” – ruggì, facendola voltare e afferrando contemporaneamente Cordelia, per metterla al sicuro – “Mi serve una mano!”

Faith non se lo fece ripetere due volte. E, mentre lei e Cordy facevano fronte comune, Spike trascinò indietro Doyle, fuori dalla mischia.

“Edward.” - disse il demone, alzando gli occhi vitrei verso di lui – “Edward, alle tue spalle.”

“Cos…” – Spike lo fissò, sorpreso, prima di voltarsi. E combattere, per la sopravvivenza di entrambi.

Scivolò su un ginocchio e si protesse la testa.

“Faith.” - Chiamò ancora, difendendosi con entrambe le braccia. E tornando da Doyle, non appena la vide subentrare alla lotta.

“Guardami.” – ordinò, afferrandolo per le spalle – “Guardami bene. Cosa hai visto…”

Doyle scosse la testa, senza rispondergli. E Spike sentì montargli dentro qualcosa di molto simile al terrore.

“Doyle!” – urlò, scrollandolo – “Devi dirmi cosa sta succedendo a Edward!”

 

1854, Kensington

 

Il maggiordomo che si era incaricato di annunciarlo camminava troppo lento. E William non aveva voglia di aspettare.

Allungò il passo, superandolo. E spalancò la porta.

“Chiedo scusa.” – disse, con il suo tono più bellicoso – “Ma ho assoluta necessità di parlare con mio fratello.”

Doc, l’amico di Edward, lo fissò sorpreso.

Quello, dunque era il fratello minore di Edward. Ne aveva sentito parlare come di un topo di biblioteca… non come di un despota.

E Edward abbassò lo straccio con cui si tamponava la fronte.

“Prima che cominci a urlare.” – disse, guardandolo – “Sappi che non ho fatto nulla.”

“Quello lo chiami nulla?”- replicò William, puntando il dito al segno rosso, all’attaccatura dei suoi capelli – “Dimmi che è marmellata e non sangue, se hai il coraggio!”

“E’ marmellata.” – rispose Doc, senza vergogna. Ed Edward lo fulminò con lo sguardo.

Se vuoi scusarci…

“Ma certo.” – rispose allegramente Methos, obbligandolo a ri-piazzare la mano e lo straccio sul taglio – “Ma tieni premuto. E sappi che poi voglio darci un punto.”

“Sì, dopo.”

Edward alzò gli occhi verso William, mentre il suo amico batteva alla ritirata.

“Non mi sono fatto nulla.” – ripeté.

 

 Suo fratello, per una volta tanto, non sembrava né remissivo né conciliante. Era appoggiato alla libreria. E a braccia conserte.

 

“Adesso pensi di uccidermi, senza testimoni?” – domandò ancora, guardandolo da sotto lo straccio e il braccio alzato – “Non credi che dovrei almeno spiegare cosa è successo?”

“Potresti.” – rispose William, senza muoversi – “Ma hai già detto due volte che non hai fatto nulla. Un nulla talmente insignificante che adesso quel Doc ti ricucirà la testa.”

Edward sospirò. Era una di quelle volte. Una di quelle rarissime volte in cui William prendeva in mano la situazione. E diventava il fratello maggiore.

“Mi dici a cosa stavi pensando?” – esordì, lasciando che si avverassero le previsioni di Edward – “Non mi hai detto dove stavi andando, che intenzioni avevi e, sul più bello del mio romanzo, vengo informato che hai avuto un piccolo e irrilevante incidente. E mi sento ripetere quanto è piccolo questo suddetto incidente tante volte quante bastano da convincermi che sei già pure passato a miglior vita!”

“Addirittura…”

“Addirittura, Edward!” – scattò – “Scavezzacollo senza cervello!”

Ecco.

Adesso si era accorto della sua veemenza.

E si stava dominando.

Con profonda vergogna.

Edward abbassò lo straccio, con un sospiro. E lo piegò, cercando di ignorare tutte le macchie rosse che vi aveva lasciato.

“Hai ragione.” - Rispose, senza guardarlo – “Sono senza cervello.”

“Non… non sempre.”- replicò, impacciato, pulendosi gli occhiali.

“Ma spesso.” – alzò gli occhi verso di lui – “E’ più forte di me. Mi piace rischiare, come ora. Ho ventun anni e tutta la vita per diventare ansioso e noioso. Oggi mi andava di saltare un muro troppo alto. E l’ho fatto… purtroppo senza prendere bene le distanze.

Mi spiace. Non volevo ti preoccupassi.”

“Purtroppo mi sono preoccupato.” – replicò suo fratello, buttandosi a peso morto nell’altra poltrona – “Ma non è grave, è che… dannazione, Edward, ma che ti costa saltare solo quando ci sono io nei paraggi a raccoglierti?”

Edward lo fissò sorpreso. E gli sorrise, addolcendosi.

“Vieni qui.” – replicò, battendo una mano sul bracciolo. E, una volta seduto, aggiunse, fissandolo dritto in faccia – “Non posso prometterti che ci sarai ogni volta che cercherò di rompermi l’osso del collo. Ma ti garantisco che non mi metterò più nella condizione interrompere in questa maniera le tue importanti letture.”

William lo fissò senza parole. Con la testa sanguinante, un livido enorme in fronte e un’escoriazione spropositata sulla mano sinistra, Edward aveva ancora lo spirito necessario per prenderlo in giro.

E per ridere, in quel suo modo assolutamente contagioso, di occhi e bocca.

“Stupido.” – mormorò, ridacchiando rassegnato e assestandogli una spinta, mentre fingeva di ripararsi con entrambe le braccia – “Sei proprio matto, Edward.”

                                                                                                       

Il demone alzò gli occhi verso di lui. Vedendolo, finalmente.

C’era Spike, Spike che lo sosteneva, pieno di preoccupazione. Una visione quasi in grado di provocargli un sollievo senza definizioni.

“Spike, devi… Drusilla.” – disse, con voce roca – “Edward… e Drusilla.”

 

E Spike lo lasciò andare, pronto a scattare in piedi.

“Dove.”

“Non… non lo so…”

 Spike strinse la mascella. E gli occhi divennero di pietra.

“Allora scoprilo.” – mormorò, tornando a combattere.

 

Scoprilo.

 

E in fretta.

 

***

 

Drusilla si proiettò in avanti, la bocca già aperta, pronta a ferire.

Edward, pronto a un attacco del genere, non se lo fece ripetere due volte, centrandole il viso con l’impugnatura dell’arma. Obbligandola ad arretrare, in piedi, ma barcollante, le mani sulla bocca violata.

“Non ci riprovare.” – disse, tendendo la spada innanzi – “Ne ho abbastanza di questa storia dei morsi.”

Respingendola. Un’altra volta.

“Ho detto cuccia!” – insistette, facendola cadere. E arrivando, questa volta, ad appoggiare la lama alla gola – “Non obbligarmi a…”

Drusilla non gli lasciò finire la frase. E le sue parole si persero in un gorgoglio quando una delle due lame le penetrò lo stomaco, inchiodandola a terra.

“Ti avevo avvertita.” – sibilò, affondando, con tutto il suo peso nel corpo della donna, fin nella terra che si andava arrossando sotto di lei – “Ed ora dimmi dove hai lasciato William.”

“Non posso.” – rise lei, inarcandosi lungo l’acciaio con suono indescrivibile – “Spike non vuole... Spike non vuole che te lo dica.”

“Me lo dirai comunque.” – un altro giro alla lama. Un altro gorgoglio – “E anche in fretta. Per cortesia.”

Era bellissimo. Drusilla gli sorrise, al di là di ogni dolore. Era una bellezza paralizzante.

Quasi quanto il suo principe.

“Rifulgente….” – tese una mano, cercando di carezzarlo – “Rifulgente, come diceva lui... voleva la luce, e la luce non c’era più, non c’era più…”

“Smettila.” – i topazi azzurri con cui guardava il mondo si strinsero. E lui si piegò verso di lei, la mano ancora crudelmente sull’elsa dell’arma – “Finiscila con i tuoi giochetti.”

“La luce... quanto dolore in lui. Ma io l’ho trovato, l’ho salvato, salvato.” – cantilenò. E le sue dita risalirono la spada cercando la mano dell’uomo – “Tu esiti, esiti perché lo sai. Io gli ho dato la vita che tu gli avevi tolto.

Traditore.

Traditore!”

 

Edward si raddrizzò, rischiando di lasciar cadere l’arma.

Sbattendo le palpebre, cercando di trattenere la furia che gli stava montando nell’anima.

E la disperazione.

 

“Hai preso la sua forza.” – urlava Drusilla, cercando di rialzarsi, dibattendosi lungo l’acciaio – “Tu, tu gli hai insanguinato le mani senza rimorsi, prima di abbandonarlo. Tu, con il tuo corpo che sapeva di morte, che imputridiva innanzi a lui.

Tu, che lo hai condannato e sei fuggito.

Mostro, sei un mostro quanto me. Sei un mostro, un abominio, traditore del suo stesso fratello, assassino.

Assassino fra gli assassini.”

 

Piegò la testa e rise, mentre il sangue cominciava a uscirle dalla bocca.

 

Ed Edward, incapace di controllare la sua rabbia, fece uno sbaglio madornale.

Sfilò la spada da quel corpo. E alzò la destra, la seconda lama, ruotando il busto e preparandosi a decapitarla.

 

Drusilla scattò verso di lui, inaspettata, ancora troppo viva. In piedi, fronteggiandolo per un millesimo di secondo. E Methos placcò Edward con una presa perfetta, per la vita, passando quasi tra loro mentre Angel gli arrivava alle spalle, rallentato dalla ferita. Lo slancio di Drusilla, mancando l’immortale, lo centrò in pieno petto, facendolo arretrare.

Alzò il paletto, pronto a colpire.

Ma Drusilla lo morse alla gola, penetrando la trachea e stringendo, facendogli esplodere il dolore dritto nel cervello. E distaccandosi da lui, colpita da Wes alle spalle, correndo, quasi calpestandolo quando cadde.

In preda al terrore.

Ferita. E ormai sola.

Per fuggire, fuggire nella notte.

 

[VI]

 

I vampiri incalzavano.

Da tutti i fronti, chiudendoli in un angolo.

 

La sola idea di poter abbandonare Doyle, Cordelia e Faith per correre dietro qualche nuova chimera venne rapidamente abbandonata. E Spike si ritrovò a combattere per la loro vita come per la sua.

Con la stessa concentrazione, l’assoluto assorbimento che non lascia spazio a null’altro.

Un colpo dietro l’altro.

Con le armi, con le mani, semplicemente con tutto il corpo.

 

Senza fermarsi.

 

E senza riuscire a trovare una via d’uscita alla situazione.

 

“Siete stati dei geni, a infilarvi in questo posto.” – urlò, frapponendosi per l’ennesima volta, tra i non morti e Cordelia Chase.

“E solo per seguire te e lei.” – fu la risposta implacabile della ragazza. Ormai impugnava l’ascia con entrambe le mani, cercando di non lasciarsela sfuggire. Stanca, ormai ad un passo dall’essere solo un automa da guerra, menava fendenti alla cieca, a rischio e pericolo anche dei suoi compagni di lotta – “Doyle, per favore, smettila!”

 

Doyle non la ascoltò. Non era mai stato tipo da accettare un ordine. E ora meno che mai, impegnato a picchiare, con il suo lato demoniaco a vista e le mani strette intorno a due coltellacci.

“Tu cosa faresti al mio posto!” – rispose, secco, di rimando – “Te ne staresti in un angolo a guardare?”

“Forse lo farei, mi avessero appena trivellato il cervello!”

“Dobbiamo andarcene di qui. C’è da raggiungere Angel, potrebbe servirgli una mano.”

“Potrebbe o può?” – sbraitò Faith. Si teneva un fianco, con una smorfia – “Cerca di scoprire questa sottile differenza un po’ in fretta.”

“Stai troppo con Wes, Cacciatrice. Accontentati della soffiata!” – replicò. E Spike si interpose tra loro.

“Cambiamo registro!” – comandò, mutando i lineamenti – “E leviamoci da qui!”

Senza attendere risposta, si avventò contro il primo malcapitato, lacerandogli la gola con i denti e dissetandosi del sangue di un suo simile, prima di spezzargli il collo.

E dopo il primo, ne afferrò un secondo, senza riuscire a trattenersi, senza dimostrare alcuna misericordia.

 

Il liquido lo inebriò, probabilmente arricchito di una qualche droga.

La testa gli girava, mentre i suoni continuavano ad amplificarsi.

Forse, avesse potuto respirare, Spike si sarebbe sentito soffocare, nel continuare il massacro, investito dall’aroma del sangue e dall’odore del terrore.

 

Voltandosi, a metà di quel banchetto, cercando Faith con gli occhi.

“Andatevene.” – ordinò – “Raggiungete Angel.”

Faith esitò. E abbassò l’arma che aveva in pugno, guardandolo.

E Spike mutò i lineamenti, tornando a quella bellezza sua tipica, fatta di ossa sottili e zigomi troppo scavati.

Bello ed esasperato, come la prima volta che si erano visti.

“Vai, Faith.” – ripeté, gli occhi azzurri pieni di emozioni – “Vi raggiungerò, te lo prometto.”

 

Te lo prometto.

 

La Cacciatrice annuì, riprendendo a menar fendenti e proseguendo verso l’uscita improvvisata, con Doyle a fianco, un Doyle abbastanza esasperato da mostrare il suo lato demoniaco e a tenere per un braccio Cordelia.

Quando emersero nella via, correndo a perdifiato, li seguirono in pochi. E Faith, operando da retrovia, se ne occupò nel migliore dei modi.

“Andate.” - disse, raggiungendoli alla macchina – “Io torno dentro.”

“Faith.”

“Non me ne vado, Cordelia!” – replicò Faith, zittendola. Voltandosi cosi in fretta che i capelli si mossero, di vita propria – “Lo sai benissimo.”

 

Sì. Cordelia abbassò l’arma. Lo sapeva.

Lo sapeva benissimo che Faith non l’avrebbe mai lasciato solo.

“Stai attenta.”

“Come sempre.” – sorrise la Cacciatrice. E accettò una seconda lama da Doyle.

“Meglio abbondare, non credi?” – commentò lui, senza aggiungere null’altro, affidandosi solo al potere dei suoi occhi.

 

Faith non rispose.

 

Semplicemente corse, lungo la direzione da cui erano venuti, incontro al suo destino.

 

***

 

Faith non credeva nell’amore narrato dagli uomini.

 

L’amore non era mai veramente esistito, nella sua vita.

Non fino a Spike, per lo meno.

Spike era stato il segno nella sua esistenza.

Amore.

Ma amore secondo regole mai scritte.

 

Spike aveva riabilitato quel sentimento che le si agitava nell’anima.

Quel sentimento che non aveva un vero nome, mischiato a una negatività che non sapeva spiegare. Era il buio, l’ansia delle corse nell’oscurità.

Era il cuore che batte senza ordine nel silenzio.

Era una forza che poteva ogni cosa, poteva distruggere e portare verso la luce accecante.

 

Sì. Era stato Spike a chiamarlo amore, per la prima volta.

 

E Faith aveva sentito di avere finalmente un posto.

Un posto nel grande schema delle cose.

Tutto era divenuto di colpo più lineare, incredibilmente afferrabile.

Faith era la Cacciatrice. Come Buffy prima di lei, e più ancora, la predestinazione si mischiava con l’amore per il proprio nemico.

E diveniva completezza, nel convergere degli opposti.

La Cacciatrice con l’oscurità nel cuore, il pezzo mancante di un vampiro con l’anima.

 

Quella notte, correndo per raggiungerlo, incerta sul loro futuro, Faith ebbe un’altra di queste sue inspiegabili intuizioni. Sarebbe venuto un giorno in cui nulla di tutto questo lottare avrebbe più contato.

Un giorno privo di battaglie, un giorno senza il peso del mondo sulle spalle.

In quel giorno, apparentemente così lontano, Faith avrebbe continuato comunque a correre. E lei e Spike sarebbero comunque stati insieme.

 

Quando irruppe nuovamente nel magazzino, lo trovò vuoto.

La battaglia si era spostata oltre, verso spazi più angusti, lungo i corridoi oscuri tra un capannone e l’altro.

Spike, probabilmente, cercava zone più idonee alla battaglia, più controllabili, trascinandosi dietro i suoi nemici.

Faith percorse lo spazio aperto, seguendo i suoni attutiti dei corpi contro il metallo, della lama contro la lama. Saltò giù da un dislivello, atterrando in una strada deserta, grigia e uniforme.

Il rumore dell’acqua in caduta attutiva gli altri suoni facendo rimbombare solo i passi.

E Faith corse, le due spade sguainate in pugno, il corpo proiettato già verso la lotta. Alcun vampiri della retroguardia improvvisata le vennero incontro, senza riuscire propriamente a fermarla, rallentandola di qualche centesimo di secondo.

 

Fu la freccia, trapassandola, a porre un freno alla sua corsa.

 

***

 

Cordelia inchiodò. E Doyle puntò entrambe le mani contro al cruscotto, per salvarsi la faccia.

Prima di voltarsi e valutare l’ostacolo a centro strada.

La Plymouth di Angel era piazzata di traverso e ne stavano saltando giù sia Wes che il vampiro.

Ed Edward, con quello stile di guida su cui si sarebbe potuto discutere ad oltranza, stava facendo slalom tra le due macchine.

Ed era, quel che si suol dire, un uomo alterato.

Doyle aprì la portiera e saltò giù, andando incontro a Angel.

“Uomo, non sono mai stato così contento di vederti!” – esclamò. Angel era contuso, arrabbiato e sporco. Ma aveva la testa sul collo, proprio come Edward Coventry, il quale stava parcheggiando la moto con abbastanza foga da piegare e far stridere i cavalletti.

“Non dirlo così in fretta.” – ribatté Angel, secco, massaggiando la spalla sinistra con una mano arrossata di sangue – “Sono qui per comportarmi male. Lui dov’è!”

“Nei magazzini. Si sta tirando dietro gli ultimi. Faith lo sta raggiungendo, noi venivamo a cercare voi.”

Angel si voltò, fissandolo.

 

C’era un solo motivo per cui Doyle avrebbe lasciato un amico in pericolo.

Un pericolo maggiore per un altro amico.

 

Edward li raggiunse correndo, gli occhi azzurri spiritati.

“Allora? Ci perdiamo in chiacchiere?” – domandò, irrompendo nella conversazione quasi fisicamente.

Che fosse furibondo, lo si poteva intuire già solo dai capelli. Non era più un’aureola bionda. Era una criniera leonina.

“Taci Coventry.” – Angel gli scoccò un’occhiata incendiaria – “Doyle, cosa hai visto?”

“Lui.” – Doyle puntò un dito verso Edward – “Morsicato, massacrato, molto morto. Successo qualcosa di simile?”

“Assolutamente no.” – replicò l’interessato, facendo girare l’impugnatura della spada nella mano in cerca di un bilanciamento migliore – “Possiamo andare adesso?”

“Allora o l’hai evitato, o succederà.” – concluse il demone, aprendo il bagagliaio e recuperandosi una balestra – “Muoviamoci… non c’è motivo per lasciare quei due soli ancora a lungo.”

 

***

 

Il sangue defluì rapidamente, dando a Faith l’impressione di scivolare via proprio corpo, insieme al calore. Istintivamente si coprì la ferita con le dita, respirando in maniera affrettata, sorprendendosi a pensare a Buffy, a quel coltello che le penetrava l’addome quasi a tradimento, gelandola.

Ad anni di distanza, dopo centinaia di ferite, la sensazione si ripresentava uguale, spaventandola. Il senso ineluttabile di dover morire, contro la propria volontà. La sensazione di non potersi arrendere, di dover combattere sino alla fine e forse ancora oltre.

Si raddrizzò a malapena, atterrando il primo vampiro che osò avvicinarsi, senza riuscire a ucciderlo. E dando quindi un margine d’azione e speranza ai pochi altri che lo seguivano.

Sbatté le palpebre ripetutamente, strisciando contro il muro, per mettersi in piedi, impugnando strettamente l’arma.

Non se ne attiverà una nuova, stanotte, sussurrò, cercando di concentrarsi. Nessuna nuova Cacciatrice.

 

Ho ancora troppo per cui vivere.

 

Per combattere.

 

E Spike mi aspetta, in fondo a questo corridoio.

 

Menò un fendente, cercando di essere precisa, non solo disperata. Barcollò, ma ebbe l’impressione di poter controllare la debolezza. E colpì di nuovo.

Piegò un ginocchio, poi si tuffò in avanti.

E un altro vampiro cadde.

Seguito da un secondo.

 

Sì, poteva farcela.

 

Il terzo fu più rapido nell’assestare un colpo, mancandola per pura sfortuna.

Il sangue di Faith sembrava mandarli su di giri, renderli euforici. Per quanto si difendesse, per loro era già morta, già buona solo per gli sciacalli.

 

Noi siamo mille… la Cacciatrice è una sola… abbiamo tutto il tempo del mondo…

 

Oh, Spike... portate questa consapevolezza dentro ogni cellula, vero?

Ve ne convincete, al momento della vostra rinascita, nell’istante in cui sentite parlare della Cacciatrice per la prima volta.

 

Ma una cacciatrice che ha qualcosa per cui lottare non può morire. Tu lo sai… ma loro no.

 

Loro no, ripeté, affondando l’arma fino al polso nel torace del suo avversario, imbrattandosi di cenere.

 

Sentendosi cadere. Svanire.

 

E finendo dritta tra le braccia di Angel.

 

Spike, rantolò la ragazza, Spike è poco oltre.

“Ci penserà lui.” Rispose il vampiro, sbrigativamente, voltandosi a fissare il giovane immortale che gli aveva corso a fianco per quell’interminabile tratto.

Edward rallentò appena, uccidendo l’ultimo degli attaccanti. Il suo braccio si stese, in un arco perfetto che, agli occhi appannati della ragazza, lo fece sembrare un paladino.

Un brivido la scosse ancora, in quella visione. E le sembrò di poter vedere la furia dell’uccisore delle cacciatrici sui suoi lineamenti.

 

Coventry… L’arte guerriera vi scorre nel sangue…

 

 Il sangue di Faith sgorgò rosso e cupo, tra le dita di Angel, macchiandolo.

“Vai.” – ordinò Angel, guardandolo, un lampo di durezza onice negli occhi. Faith svanì contro il suo petto, tra le sue braccia – “Mi occupo io di lei.”

Pensa a lui.

Sei qui per questo.

Edward annuì. Faith, dalle braccia intrecciate di Angel protese le dita, indicandogli la via.

“Là.” – sussurrò, pallida come un cencio – “Corri.”

 

Edward non se lo fece ripetere. Tese le dita, le sfiorò la mano resa appiccicosa dal sangue.

Poi si voltò.

E riprese la sua corsa, allungando le falcate, sentendo il cuore battergli disordinatamente.

 

Poco oltre, i suoni di battaglia si fecero più intensi, scomposti ed armonici allo stesso tempo. E, svoltando un ultimo angolo, Edward si parò innanzi a una visione di terrificante bellezza.

 

Spike combatteva, elettrico nell’oscurità. Lo spazio circostante era vasto, battuto da un leggero vento che apriva la cenere ad ampi ventagli intorno ai sopravvissuti. In mezzo a loro, incolume e furioso, Spike non smetteva di colpire, atterrare e infliggere dolore con i soli sensi demoniaci. Combatteva a mani nude, senza arretrare, senza cedere.

 

Era William. E non lo era più.

 

Edward si fermò, la fitta al petto di nuovo viva e bruciante, la lama abbassata, quasi a riposo.

William ruotò su se stesso, svelando il volto della caccia, uccidendo con un’elegante rotazione.

 

E fissandolo dritto in viso.

Occhi negli occhi.

Occhi che tornarono azzurri per la sorpresa.

 

La battaglia rallentò. E divenne macchia soffusa.

Entrambi immobili, in un respiro che nessuno dei due si concesse.

Di nuovo insieme, a meno di dieci passi uno dall’altro.

 

Il tempo scomparve. E furono solo loro, insieme, come erano sempre stati.

Da vivi, da morti, nel passato e nel presente, nei reciproci sogni e incubi.

 

Poi il nulla svanì. E fu dolore.

Nuovamente dolore.

E battaglia.

Cercando di ignorare il proprio torace e la gola bruciante per un morso ormai fantasma, Edward si lanciò, nell’attimo stesso che un colpo ben assestato allo sterno fece imprecare Spike.

Con pochi passi gli fu addosso. Pronto a spedirlo con una spallata fuori dalla mischia, a prendersi pure la sua parte di antagonisti, facendolo infuriare maggiormente.

Spike si rialzò, con lentezza, la mano premuta al fianco. C’era Edward, che combatteva, adesso, nel posto che fino ad un attimo prima era stato suo.

E combatteva senza smettere di guardarlo, di voltarsi, fendente dopo fendente, per saperlo al sicuro.

Con i gesti dolorosamente identici a quelli di un tempo, la stessa sollecitudine, la stessa discreta attenzione.

 

Le ginocchia gli avevano ceduto, era caduto rovinosamente a terra. Ed Edward, con la preoccupazione dipinta sui lineamenti, si era mosso, continuando a combattere, a contrapporsi tra lui e il pericolo.

“Finiscila!” – urlò Spike, rialzandosi e uccidendo uno dei demoni, spezzandogli il collo senza esitazioni – “So badare a me stesso.”

“Allora fallo!” – replicò Edward, deciso come una frustata, mentre gli aprivano uno squarcio su un braccio – “Non restare impalato!”

Non sapeva perché aveva osato parlargli in quel modo. Forse era stata l’agitazione di sentirlo così vicino, l’atroce sensazione del bagno di sangue che si consumava intorno a loro, ad entrambi.

Ritrovarsi, duecento anni dopo ogni sogno e ogni aspirazione condivisa con la consapevolezza di aver visto svanire tutto, il desiderio di William di studiare, di conoscere, la passione di Edward per quel mondo che amava e che voleva mantenere tale.

Tutto scomparso, William il poeta, Edward il sognatore.

Su quel campo di battaglia, tra la cenere e il sangue, i loro cuori battevano ancora, vicini, oltre il tempo, oltre il cambiamento. Ma erano il cuore di un immortale e di un vampiro.

Ed Edward, con il sangue martellante alle tempie e nel petto, non poteva che domandarsi cosa restasse realmente di loro.

“Oh, certo!” – esplose il vampiro, posandogli una mano sulla testa e spingendolo verso il basso per salvare quel suo prezioso cervello in tumulto – “Me la cavavo benissimo anche senza di te!”

E quella frase gli fece quasi nuovamente piegare le ginocchia. Assestò un colpo deciso a un malcapitato, cercando di mantenersi coerente e lasciò andare il fratello, tornando al proprio cinquanta per cento di massacro.

Edward… Edward così vicino da poter essere sfiorato, toccato, afferrato.

Edward, così vicino da avere calore, profumo, sentimenti tangibili e potenti.

Edward, a cui aveva mentito per la prima volta in vita sua.

 

Me la cavavo benissimo senza di te.

Cazzate.

Tutte cazzate.

Come si poteva vivere senza un fratello di quel genere? Solo dannandosi, ecco come.

Solo dannandosi.

Senza luce.

 

Londra, 1857

 

Aveva rotto una vetrata. Aveva inferto il primo colpo quasi senza rendersene conto. E i successivi, sulla cornice, sui vetri, non avevano lenito il dolore.

Aveva lanciato tutto il contenuto del capanno, preso a calci le paratie, fatto quasi imbizzarrire i cavalli rinchiusi nell’altra ala della scuderia.

Poi tutto aveva cessato di avere un senso. Ed era svanito anche il poco di consapevolezza che restava.

Per ore, forse.

E quando si era risvegliato, le mani sanguinanti e intorpidite, era buio. E il profumo del fieno lo aveva investito, mischiato a quello dei gelsomini.

 

Nessuno era venuto a cercarlo.

 

Meglio così.

 

William si era alzato, zoppicando, ed era uscito. Aveva camminato con lentezza, fino a raggiungere la panchina in pietra. E si era seduto, fissandosi i piedi.

E il nulla gli si era aperto innanzi, come una voragine.

Edward era svanito.

Non restava nulla di lui.

Nulla, se non il ricordo di una promessa impalpabile.

 

Torno, torno presto.

 

Nulla. Il nulla inconcepibile della casualità, della presenza che muta in assenza, del tutto che diventa il vuoto.

Su una terra fatta di bellezza e poesia, di eterne lotte e inconsapevoli scelte. Su di una terra piena di vita, era scesa la notte.

 

Edward non c’era più.

Edward se ne era andato.

 

E William, nel ripeterlo ancora una volta, sottovoce, comprese. Comprese che mai nessuna vetrata rotta e nessuna parete presa a calci avrebbero cambiato la realtà dei fatti.

 

Era solo.

E non avrebbe mai più saputo cosa significava essere protetto.

 

Il pugno lo colse il pieno viso, facendolo quasi girare su se stesso.

I lineamenti mutarono prima che potesse fermarli e gli diedero nuove risorse, da demone.

Afferrò il suo aggressore e gli spezzò il collo, senza pensare troppo. Il sangue lo colpì, a schizzi, facendolo andare su di giri.

Ne afferrò un altro. E uno ancora.

Dimenticò tutto, divenne battaglia stessa.

Ed Edward gli fu subito a fianco.

 

Si aprivano un varco, senza smettere di uccidere, si lasciavano alle spalle una perfetta scia di sangue in cui tutto svaniva in nubi di polvere. Spike sorrise, di derisione, per se stesso e per quella situazione.

“Occupati di quelli.” – urlò, alzando un braccio e indicandone alcuni, più defilati.

“Con piacere.” – rispose Edward, deviando e falciando con le due lame – “Tu prendi l’altro fronte.”

Si parlavano. E non se ne rendevano realmente conto.

Spike aveva il volto della caccia in vista, Edward sembrava non averlo notato. Per lui era solo William. Un William adulto e deciso che sapeva cosa stava facendo.

Privo delle esitazioni e della timidezza della sua adolescenza.

 

Avevi vent’anni… ti ho perso prima di vederti divenire uomo…

 

 

Non potrò mai cambiare tutto questo.

 

Gli occhi gli si riempirono di lacrime, il respiro si fece pesante. Mosse la spada quasi alla cieca, cercando di snebbiarsi, incontrando la consistenza indescrivibile della carne, lacerandola.

E uno dei vampiri gli arrivò abbastanza vicino da colpirlo in pieno, ad atterrarlo.

 

“Edward!”

 

L’urlo rimbombò per le gallerie, per i depositi deserti, giungendo fino ad Angel e Doyle, facendoli voltare. Ed era un urlo furioso e inorridito.

 

Edward allungò le lame di fronte a sé, trapassando il suo aggressore. Spike lo aveva già afferrato. Levandoglielo di dosso e finendolo.

“Stai bene?” – domandò, mutando i lineamenti e tendendogli istintivamente una mano.

“Tutto a posto. Ma è ora che leviamo da qui, che ne dici?” – rispose, afferrandogli le dita e sentendosi strattonare con decisione. Senza osare guardarlo – “Non stiamo risolvendo niente al momento.”

“Inizi a sentirti carne da macello?” – ribatté, con prontezza, sorridendogli beffardo, mentre si rimetteva in piedi.

E rendendosi conto, in quell’istante, mentre gli occhi di Edward si posavano su di lui, che lo stava apostrofando come faceva con Angel, come si fa con una persona di cui ti fidi e a cui ti affideresti.

 

Come Angel.

 

Ma che non era Angel.

 

E che quello era Edward, era veramente Edward.

 

Lo contemplò, stordito, come se una impossibile verità gli fosse appena passata per la testa e penetrata nell’anima.

 

Edward.

Edward vivo.

 

E al suo fianco nella battaglia.

 

“William!” – Edward gli teneva ancora le dita. E lo stava tirando verso di sé – “Attento.”

Lo aveva tolto dalla traiettoria, colpendo con decisione un demone alla bocca, con un pugno ben dato. E Spike, raddrizzandosi e fuoriuscendo quasi da sotto quel braccio protettivo, lo fissò con occhi sorpresi.

“Bel colpo.” – si complimentò, senza riuscire a trattenersi, rapito dall’espressione determinata e dall’assenza di indecisione. Cogliendolo di sprovvista, per un solo istante.

Edward piegò la testa. E gli sorrise. Gli sorrise, osservando i suoi lineamenti fini, il sangue e i lividi che a malapena li nascondevano.

“Grazie.” - rispose, con quella luce che Spike aveva lasciato in una sua vita passata – “Anche tu non te la cavi male.”

 

***

 

La battaglia si protrasse ancora, per un tempo indefinibile. E i ragazzi Coventry la vinsero, dimentichi di loro stessi, per l’istinto di sopravvivenza e il senso di giustizia che da sempre, volenti o nolenti, seguivano.

Combatterono, senza arretrare, portando i loro nemici su terreni più consoni allo scontro, dritti in trappole decise istintivamente, fino a ritrovarsi soli.

E nuovamente in compagnia dei loro fantasmi.

 

Il vento portò via le nubi e i resti della loro personale guerra, sorprendendoli insieme, sotto un cielo pieno di stelle, consci del fatto di essere ancora vivi. E incredibilmente soli, a nudo, con i loro rimorsi e i loro rancori.

Edward fece ruotare l’impugnatura della spada nella mano e si voltò, sorridente.

Ed il sorriso si spense nella consapevolezza.

 

Spike era in piedi, di fronte a lui, le mani lungo i fianchi, le armi a terra.

Lo sguardo di condanna fisso, assolutamente privo di una forma di lettura.

Nulla traspariva, dal suo restare fermo, elegante, dritto e composto, freddo e spietato nell’assoluta immobilità.

Bello e letale, come un predatore, delineato da muscoli sviluppati e sottili, da un look moderno e deciso, dalle tinte scure.

Il sangue gli macchiava i capelli eccessivamente biondi e gli marcava una tempia, segnando la linea della guancia e della mascella con una traccia carminia. Un grosso livido andava svanendo sotto i suoi occhi. Lungo un braccio, un lungo taglio si stava rimarginando con la stessa rassicurante lentezza.

Come stavano facendo i tagli di Edward.

Abbassò gli occhi, sorpreso, fissandosi il dorso di una mano, guardando la nocca tornare a rivestirsi di pelle, richiudersi su se stessa. E li rialzò, tornando a lui.

A suo fratello, che voltava le spalle e si incamminava.

 

E sentì la rabbia salirgli, nitida e sbagliata, dal centro del petto, mentre piantava a terra entrambe le spade e moveva un passo.

 

“Finisce così, dunque?” – sferzò, nell’aria tersa della notte, obbligandolo, istintivamente, a fermarsi – “Te ne vai?”

 

Un sorriso cinico e crudele illuminò il viso di Spike.

“Quello sei tu, Edward.” – rispose, voltando giusto la testa, una breve rotazione per donargli uno sguardo carico di disprezzo – “Sei tu quello che fugge, a quanto ne so.

Questa è la mia città

La città mia e di Angel.

Vattene.”

La morsa allo stomaco si fece ghiaccio. Ma Spike non si fermò. Deliberatamente, voltandosi e tornando verso di lui, continuò a parlare.

“Non mi serve il tuo aiuto. E non mi interessa chi tu sia, ora. Stammi alla larga.

E se ora io vado in quella direzione” – aggiunse, indicando con un dito un passaggio coperto – “tu vai in quella opposta.”

Edward strinse le labbra, gli occhi gli divennero grigi. Come quando doveva combattere, come quando, in piena giovinezza, era costretto a imporsi su elementi non abbastanza educati da saper tacere a proposito.

“Non avrei mai voluto lasciarti.” – disse, dopo un attimo interminabile.

Tutto comincia da questa verità.

Non ho mai voluto.

Non ho mai voluto lasciarti.

Sei mio fratello.

E il mio migliore amico.

“Lo hai fatto.” – ribatté Spike, quasi serenamente – “E senza troppo rimorso. Non una… due volte.”

Alzò la mano, il segno della vittoria.

“Due, Coventry.” – sputò, fissandolo. Denigrandolo nel rifiutare di chiamarlo per nome – “Interessante casualità, se già la prima volta è stato così doloroso…”

Edward non gli rispose.

Non provò a farlo ragionare, a parlargli.

Ricambiò semplicemente l’occhiata, lasciando trasparire a malapena il malessere che provava.

 

Ma Spike poteva sentirlo ugualmente. E non poteva ignorarlo.

Il cuore era forsennato, come il respiro che stava trattenendo a forza.

Era ferito, sporco del suo sangue e di quello demoniaco dei loro avversari. Eppure era ancora della bellezza di sempre, quella quasi disturbante per cui era divenuto leggenda nella sua generazione.

La bellezza pura della coerenza, interiore ed esteriore.

Era ancora Edward.

E faceva male fargli del male.

“Lo sai benissimo che non è stato facile.” – replicò, quasi sottovoce, guardandolo – “Non sono mai stato pronto a lasciarti…”

Non si riferiva più all’inganno. Ma a ben altro, con quegli occhi, con quel cuore irregolare.

E Spike ebbe paura.

Una paura forsennata e irrazionale che credeva di non poter più provare. E si rivide.

Rivide se stesso, ed Edward.

 

E, senza riuscire a frenarsi, arretrò di un passo.

 

Kensington, 1857

 

Edward si alzò di scatto, tossendo, accasciandosi su se stesso. E il rumore di passi non si fece attendere.

Due mani lo afferrarono e lo fecero sedere, la schiena contro un torace magro e forte.

Due mani gli piegarono la testa indietro, fermandolo, tirandogli i capelli e sembrandogli comunque rassicuranti.

“Calmati, sono io.” – sussurrò William, nell’orecchio. Una voce bassa e adulta, incredibilmente rassicurante.

“Lo so.” – ansimò Edward, sbattendo le palpebre, allungando una mano indietro per afferrargli la nuca – “Tranquillo, non è nulla. Abbiamo passato di peggio.”

“Sicuro?” – domandò William, afferrando la brocca sul tavolino, con il braccio libero e versando una generosa dose d’acqua nel bicchiere e sul ripiano.

Non tremare, dannazione.

Non tremare.

“Lo sono.” –annuì, senza smettere di stringergli il collo tra le dita – “E’ stato un incubo.”

 

Rifiutò il bicchiere con un cenno e represse una nuova ondata di nausea.

Un incubo.

Un incubo da cui aveva temuto di non svegliarsi. Un incubo in cui William rantolava e non riusciva a respirare.

Ed Edward non poteva raggiungerlo. Gli tendeva le mani, invano. Urlava il suo nome.

E William moriva, nello spegnersi di un ultimo respiro, lasciandolo solo.

“Oh, William.” – mormorò, sentendosi scuotere da un sussulto – “Oh, Willie…”

 

William si tese, quando la mano di Edward lo abbandonò e il suo corpo si protese in avanti, i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani, lunghe dita sottili impigliate nei capelli biondo oro.

“Oh, William…”

Lo ripeteva, senza smettere di piangere.

 

Edward piangeva.

Senza frenarsi, la sua schiena scossa da quel dolore che non riusciva a controllare, per quei colpi involontari di tosse, per quelle lacrime inattese.

Per la prima volta, in quei mesi di silenzio, di fitte traditrici che gli stravolgevano i lineamenti. Mesi trascorsi, con la rapidità ossessiva dei valzer di Chopin, dopo infinite sfide con la propria morte, resistendo strenuamente… Edward piangeva, per il dolore antico di chi sa di dover partire e mai più tornare.

Di chi sa cosa si lascia alle spalle.

 

“Non posso perderti…” – sussurrò Edward, la testa alta, le mani strette in un unico pugno, contro le labbra. E gli occhi ancora pieni di lacrime – “non posso… non ne ho la forza…

 

Non posso lasciarti, William. ”

 

Non voglio morire.

 

Non voglio.

 

William rimase fermo, lontano meno di un respiro eppure con l’atroce consapevolezza del muro che ormai le separava.

Non potrò seguirti…solo ora lo so. Non potrò seguirti dove stai per andare.

 

Istintivamente si protese, lo abbracciò stretto. Chiuse gli occhi, cercò di dominarsi.

 

Veglierò io, se tu stanotte vorrai riposare.

Ti proteggerò io, come tu proteggi me.

 

Non voglio perderti nemmeno io…

 

“Non succederà.” – rispose, imponendo alla voce di non tremare, stringendolo forte – “Tu non puoi perdermi… non me ne andrò mai…”

non andrò mai via…

e resterò, sotto questo cielo, in questo silenzio.

 

E avrò la tua morte, per compagna, fino alla fine dei miei giorni.

 

“Non ho mai voluto perderti…” – sussurrò ancora l’immortale, fissandolo, con infinita pena – “avrei dato di tutto per restare con te. E tutto per saperti libero.

E non potevo avere entrambe le cose.

Ho scelto la tua libertà, William.

 

Non puoi condannarmi per questa mia decisione.

 

Sapevi che non ne avrei mai compiuta altra. ”

 

Gli occhi di Spike si riempirono di lacrime. E divennero cristallini.

Strinse i denti, quasi mostrandoli, nell’alzare il pugno e colpirlo.

Il dolore si propagò dallo zigomo, fino al centro del cervello, facendolo volare a terra, con i palmi dolorosamente a contatto con il cemento.

Tossì, senza riuscire a trattenersi, la schiena inarcata per alzarsi, anche se a fatica.

“Il mio amore per te è immutato.” – replicò, cocciuto, in risposta a quel colpo, raddrizzandosi – “Lo stesso di allora.”

“Cazzate.” – ringhiò il vampiro, cercando di non perdere del tutto il controllo, per non ucciderlo – “Tu ami solo te stesso, Edward. E la tua idea di perfezione. Solo scelte nobili, grandi decisioni, destini inevitabili. Tu ami solo te stesso e l’idea che hai di te, come il peggiore degli egoisti.”

 

Gli era arrivato vicino, passando dal sibilo alle urla.

“Ed è per questo che te ne sei andato… era più adatto alla parte, non credi? Immortale e libero dal tempo, perché intristire gli altri con l’evidenza della morte inevitabile!” – denunciò, con un’atroce verosimiglianza con la realtà dei fatti, facendo rabbrividire Edward – “Perché è questo che hai pensato, vero?”

Un altro pugno.

Ma Edward, questa volta, riuscì a restare in piedi.

E prepararsi a parare un terzo colpo che non si sarebbe fatto attendere.

“Sì, è questo.” – rispose, l’espressione seria e decisa – “Ero immortale. Non potevo restare, anche se avevo la certezza che avresti compreso questa mia natura.

Non me ne sono andato perché ti ritenevo uno stupido, William.

O perché non volevo che tu lo sapessi.

Me ne sono andato perché avevi una vita da vivere. E io non avrei più potuto farne parte.”

Con prontezza gli afferrò la mano, bloccandola nella sua traiettoria. E strinse, fissandolo dritto in viso.

“Puoi colpirmi fino ad ammazzarmi, se ti fa piacere.” – soffiò, accendendosi di una durezza inusuale – “Ma ti ricordo che per un lavoro ben fatto occorre una spada.”

L’aveva detto per ferirlo, per vedere una reale reazione. Perché quel vampiro che aveva di fronte, che urlava e lo aggrediva, era opaco e privo di sentimento.

Non c’era nulla in lui.

Era il vuoto pulsante di un’emozione troppo forte da esprimere e vivere.

 

La reazione di Edward lo colse di sprovvista. E lo atterrì allo stesso tempo, rallentandolo, facendogli quasi perdere il filo del discorso, la fitta trama di accuse che gli vorticava in testa.

 

Edward lo aveva appena provocato.

 

Edward era cambiato.

Era sempre stato forte e risoluto, senza prepotenza.

Ma ora, nei suoi occhi, brillava una tenacia indescrivibile, un sentimento che il tempo e l’eternità gli avevano permesso di raggiungere. Al di fuori delle regole della natura, così consapevole della precarietà, della necessità di possedere una forza tale da sopportare un’esistenza infinita.

Cambiato, maturato.

 

Come me.

 

Spike riacquistò lucidità, liberando la mano dalla sua, allontanandosi di un passo.

 

“Sei furioso con me, lo so.” – aggiunse Edward, fissandolo dritto in faccia – “Ma domandati cosa vuoi, adesso. Vuoi che muoia, vuoi che me ne vada… o vuoi che resti.

Perché io resterò, lo sai. E non me andrò tanto facilmente, se non mi darai una motivazione per farlo.

Decidi, William.

Oppure ascoltami.

E perdonami.”

La voce gli si era strozzata in un singhiozzo.

“Perdonami, William.” – ripete, piangendo, senza frenarsi – “Perché non credo di avere la forza di lasciarti.”

 

***

 

Adesso lacrime identiche erano nei loro occhi. E in entrambi erano dominate a stento.

 

“Tu mi hai lasciato…” – la voce di Spike tremava, come la sua bocca – “Mi hai lasciato Edward, ti ho creduto morto. Mi hai mentito, hanno mentito tutti per te. Ed ora vieni a parlarmi di amore, amore immutato, del fatto che andartene ti uccide… e ti…”

La voce gli morì sulle labbra. Eppure si impose di continuare.

 

“nulla è stato più lo stesso, dopo che te ne sei andato.” – aggiunse, a voce bassa, guardando lontano – “hai distrutto la nostra famiglia, Edward. Hai fatto morire dentro i nostri genitori, li hai lasciati soli e disperati.

E te ne sei andato…”

 

Non ti importava nulla di me, di loro.

Sei solo uno stupido, un egoista.

 

“Sarebbe successo comunque.” – replicò Edward, con lentezza. Se solo i polmoni avessero smesso di bruciare… - “Stavo morendo, William.”

“Lo so. Lo ricordo.” – fermo, le braccia lungo i fianchi. E il dolore martellante alle tempie – “Ma tu non sei morto. Lo hai fatto credere a tutti, con quella capacità di decidere sempre per gli altri…

ma dove era il meglio, Edward, in ciò che hai deciso.

Dove era il meglio nel dolore in cui ci hai lasciato…”

 

Ci hai costretti ad accettare la tua morte.

Non hai saputo dividere con noi la tua vita.

 

Si interruppe. Deglutì.

“Ti rendi conto di ciò che hai fatto, almeno in minima parte?” – chiese, guardandolo con occhi incredibilmente azzurri.

 

Non era più il vampiro che diceva di essere.

Non era più Spike, il demone tormentato dall’anima o il feroce combattente.

Era di William quella voce.

E c’era di nuovo la luce, nei suoi occhi.

 

William, pensò Edward, senza osare pronunciarlo. Piegò la testa, quel tanto che bastava per scorgere il cielo sopra di loro.

Pregando, per una risposta nell’universo.

 

Ho fatto soffrire mio fratello.

E solo perché non ho mai saputo ascoltarlo veramente.

 

“Io ti odio, Edward.”

 

Ecco, le parole della condanna.

 

[VII]

 

Angel portò fuori dal condotto Faith, rassicurato dal fatto che gli stesse continuando a stringere il collo con entrambe le braccia.

Una specie di frase in codice per dirgli che stava bene.

Faith aveva un cuore saldo e stabile, appena indebolito dalla perdita di sangue. E ad Angel bastò un’occhiata, per rassicurare Cordelia che correva loro incontro.

“Tranquilla, la ragazza è un osso duro.” – commentò, adagiandola nell’abitacolo e scostandosi – “Ma io vorrei che tu la portassi dal nostro medico di fiducia. Io voglio tornare indietro, a occuparmi del resto.”

“Vengo con te.” – commentò Doyle, sbucando da uno dei vicoli.

“Dove eri andato?”

“Mi piacerebbe dirti che ero a farmi una birra, ma credo di essere stato a fare a botte.” – la ferita meticolosamente suturata da Methos sanguinava di nuovo – “Credo che oggi il sangue di demone porta visioni sia molto richiesto.”

Si sporse, cercando di cogliere maggiori particolari. E Faith ne approfittò per aprire gli occhi e guardarlo.

La sua domanda inespressa gli fu chiara, nel momento in cui ricambiò l’occhiata.

“Non so nulla, mi dispiace.” – replicò, serio.

Nessuna visione, nessun indizio.

 

E, in quell’attimo, risuonò l’urlo, portato dal vento.

Faith si rianimò all’istante, mentre Doyle ed Angel si fissavano, sorpresi e preoccupati.

Poi, prima che la ragazza potesse anche solo provare a scendere dalla macchina. Angel la bloccò contro il sedile.

“No.” – scosse la testa – “Me ne occupo io. Cordelia, portala a casa e chiama Methos. Lui e Wes stanno battendo un paio di zone a caccia di Drusilla. Digli di lasciar perdere, i ragazzi sono entrambi qui.”

Si rimise in piedi, chiudendo lo sportello.

“E io non me ne vado finché non li ho trovati.” – aggiunse.

 

***

 

“Ti odio con tutto il cuore e con tutta l’anima.

Dovevi morire, dovevi veramente morire. Mi hai abbandonato, lasciato solo…

Tu sei stato la mia dannazione.

Vattene Edward. Vattene e non tornare.”

 

Quelle erano parole nate per far male. Transitavano per la gola a fatica, spezzando, distruggendo. E uccidendo.

Spike si voltò, piano, incamminandosi. Piano, perché non vedeva dove andava. Piano perché forse, forse, il cuore gli si stava spezzando.

Adesso morirò… adesso…

 

“William.”

 

Non avrebbe voluto.

Ma si era comunque fermato. Perché da sempre, quando Edward parlava, William ascoltava.

 

“Io non sono William.” – mormorò, stancamente, dandogli le spalle. E chiedendosi, con la stessa spossatezza, quando mai sarebbe finito quel dolore.

Illudendosi, per un attimo, di poterlo non sentire. Di non averlo sopportato, giorno dopo giorno, per più di un secolo e mezzo.

 

Edward.

Edward è il mio infinito dolore.

 

“Tu sarai sempre William. E io sarò sempre Edward. Anche se siamo cambiati… tu ed io saremo sempre fratelli.” – il dolore ci distrugge, ma non ci riduce al silenzio – “Puoi odiarmi… e io mi sentirò per sempre colpevole, per ciò che ho fatto, per quello che ti è successo…”

 

Non smettere di parlare. Non smettere.

 

“Ma sarò sempre tuo fratello.” – abbassò la testa e sorrise, con la disperazione negli occhi – “E l’eternità è un tempo infinitamente lungo da affrontare per pensare di non poter trovare una soluzione.”

 

Si fermò. E si sorprese ad assaporare un lungo respiro. Non ricordava di poterlo fare.

 

“Per tanto.” – riprese, con lentezza – “Non ti sorprendere troppo, se adesso cercherò di fermarti e convincerti. Me ne scuso, William, dal più profondo del cuore. So che vorresti ben altro.

 

Ma io, come ti ho già detto, non me ne andrò, se non avrò una buona motivazione per farlo.”

 

La sua voce era riecheggiata tersa, ferma. Era scivolata intorno a loro, nel buio, nel silenzio interrotto solo a tratti dai clangori del porto.

Eppure nessun rumore avrebbe mai potuto coprire la volontà che trapelava da quelle parole. Spike rimase per un attimo in ascolto, la testa piegata, lo sguardo che lentamente si rialzava, verso il cielo.

 

“L’incrollabile volontà di Edward Coventry.” – commentò, senza sentimento, guardando le stelle, l’espressione quasi perplessa – “Me ne ero quasi dimenticato…”

Si voltò. E le cartilagini emersero dalla pelle sottile del suo viso, rivelando il demone. E guardandolo con perfetti occhi ambra.

“Peccato che io non sia più lo smidollato di un tempo. Ti avrebbe reso tutto più semplice.” – aggiunse, portando la propria natura demoniaca con orgoglio, nel rialzare la testa – “Recepito il messaggio?”

“Non cerco la semplicità.” – Edward scosse la testa, incamminandosi, avvicinandosi – “Non mi è mai interessata. Mi interessi tu, non i sacrifici che devo fare.”

“See, raccontatela.” – Spike il demone sorrise, piegando la testa e andandogli incontro, le mani protese, quasi beffarde – “Secondo me, invece, è un problema di vanità. Edward Coventry non fa sbagli... se ne fa, rimedia al meglio.”

“Come suo fratello William, se non ricordo male.”

“Ricordi male.” – era cosi vicino che avrebbe potuto urtarlo. E il suo viso era tornato umano, con occhi calcedonio – “William Coventry ha sempre fatto solo sbagli. E non ha mai avuto tempo per rimediare, visto che è morto a ventidue anni dannandosi l’anima…”

Lo disse sibilando, le labbra in un movimento liquido, gli occhi appena visibili sotto le ciglia. Lo sguardo di chi bacia, non di chi uccide.

“E, a titolo di informazione…” – aggiunse, con un sorriso maligno – “A Spike il vampiro non è più interessato dare un’aggiustata al mondo. Quando esci dalla bara, la tua prospettiva si rivela subito più interessante…”

Camminò a ritroso, accennando un passo di danza nell’aprire le braccia e guardarlo.

“Innanzitutto” – spiegò – “Sei morto. Non c’è più il giorno, non passa più il tempo, non devi preoccuparti di cosa penserà la gente.. e sai perché? Perché la gente è cibo. Semplice patetico cibo che cammina. I sogni e le speranze danno un ottimo sapore al sangue, lo rendono corposo. E non si è mai sazi.

 

Credimi, ne so qualcosa.

 

Non ti basta mai quello che ti offrono. Le donne per strada, i bambini nei parchi, gli uomini a caccia… ogni età ha il suo aroma.”

 

Edward non si mosse. Lo guardò, mentre assumeva un’espressione estasiata, mentre strofinava le dita tra loro con malignità inequivocabile.

Gli parlava di massacri, senza battere ciglio.

No.

Inesatto.

Non erano state morti. Era stati banchetti.

 

“Vuoi sapere altro?” – insistette il vampiro – “Ho un sacco di aneddoti... piccanti… che potrebbero piacerti.”

Edward lo fissò.

Senza un’espressione.

“E dopo?” – chiese.

“Dopo?” – Spike strinse gli occhi - “Dopo cosa?”

“Sai benissimo dopo cosa.” – lo fissò, piegando appena la testa, lo stile elegante che riservava ai salotti in cui erano cresciuti – “Dopo l’anima, William. Dopo il ritorno dell’anima. La gente, aveva ancora quel sapore?”

Il sorriso di Spike si indurì. I suoi occhi divennero pietra, nell’incontrare quelli del fratello.

“Non ti riguarda. E’ affar mio.” – e di Angel. Il pensiero fu veloce. E letale.

Angel, il vampiro con l’anima. Il suo amico, il fratello del presente… il traditore.

Sbatté le palpebre, cercando di mantenere la visione a fuoco.

 

Non è veramente Edward, si ripeté. E’ un’allucinazione, solo un’illusione.

Edward è morto. Non mi avrebbe mai lasciato solo per tutto questo tempo.

Edward è come Angel…

 

Per me farebbe tutto.

 

“E’ affar mio.” – ripeté – “Di nessun altro.”

 

E di Angel. Edward abbassò gli occhi, cercando di controllarsi, di non dare modo a Spike di recepire il terrore che stava provando. Lo nascose, come aveva sempre fatto, in ogni frangente, nel bene e nel male.

Lo aveva fatto perché William avesse un appiglio nella sua esistenza, in ogni istante.

Ed ora faceva male pensare di non esser stato quell’appiglio, per lungo tempo. E che, nel presente, ogni risorsa ideata per rassicurarlo serviva solo per fronteggiarlo.

E provocarlo.

“Vero.” – replicò, con voce pacata, celando ogni forma di agitazione – “Tu sei un vampiro. E io un immortale. Due diverse nature, due diversi punti di vista. Ma ciò non toglie che io possa comunque capire quando mi stai prendendo in giro.”

Spike lo fissò, stringendo gli occhi.

“Continui a sbattermi in faccia la tua natura, vuoi a ogni costo provocarmi ribrezzo, allontanarmi. Sei furioso con me per ciò che ho fatto... ma c’è altro.” – Edward mosse un passo verso di lui. E, per la prima volta in vita sua, lo sovrastò per dominarlo – “ Cosa allora, William, se non questa anima che ti brucia dentro, questa ferita sempre aperta di sapersi di una natura ma con ben altra vocazione.

Non è questo un vampiro con l’anima?

Non è uno scherzo della natura in cui il sentimento vince sull’istinto?”

 

Il colpo lo scagliò a terra.

 

Stordendolo e facendogli percepire con certezza il proprio passo falso.

Edward, in un attimo di incontrollata disperazione, si posò una mano sulla nuca, piegando il capo.

E un calcio lo colpì, in pieno.

 

“Non è un pensiero così aulico.” - gli sussurrò ad un orecchio, afferrandogli i capelli e tirandogli indietro la testa – “Non è una cosa così elegante, non è una solo una bella ed eroica leggenda. Non credere a tutto ciò che vedi in Angel, lui è bravo quanto te ad essere stoico.

Io sono Spike il vampiro. Lo sarò sempre, anima oppure no.

E il reprimere alcune pulsioni non significa negare di averle.

O di avere ricordi splendidi della mia vita demoniaca.”

Lo lasciò andare. E si voltò.

 

“E continuano a non essere affari tuoi.”

 

“Tra i tuoi ricordi ci sono io.”

 

Spike si voltò. E lo guardò rialzarsi, tossendo.

“Come?”

“Ci tieni tanto ai tuoi ricordi… Spike.” – Edward si asciugò il sangue dalla bocca. Inspiegabile sangue sulle labbra – “Ai tuoi ricordi vampirici… e ai tuoi umani.

Lo so. Lo sento. Me l’hai insegnato tu, William.

Combattiamo con forza per ciò che amiamo... e combattiamo con ancora più forza ciò che non avremmo voluto perdere.

Ricordi... ricordi William?”

 

 “Veramente Edward… non ci sto pensando.”

“Sul serio?” – si era appoggiato al davanzale su cui il fratello stava seduto – “Eppure non sono convinto.”

“No, sul serio.” – scosse la testa, con calma – “Non intendo pensarci… o crucciarmi. Significherebbe dargli un’importanza che non merita.”

“Interessante come teoria.”

“Funziona.” – una lieve alzata di spalle che lo fece sembrare ancora più giovane – “Nella vita bisogna tenersi strette le cose, ad oltranza… ma solo se ne vale la pena. E quando qualcosa va storto, come ora… pensarci significa dargli importanza, rendere tutto basilare.

Ma, se una cosa è sbagliata…non è niente…”

Si interruppe, come se avesse perso il filo del discorso.

“Mettiamola così, Edward.” – concluse – “Combattiamo con forza per ciò che amiamo… e combattiamo con ancora più forza ciò che non avremmo voluto perdere. Il resto non ha nessuna importanza.”

 

“Mi stai attaccando perché non avresti mai voluto perdermi, perché ancora ti importa. E perché io non ho rispettato questo tuo desiderio.” – lo fissò, il petto aritmico – “Hai passato tutta la tua vita a credere che io fossi la miglior cosa che ti fosse capitata. E non hai mai capito che ero io quello fortunato, quello che aveva un fratello eccezionale e perennemente incompreso.

Incompreso, William.”

Spike restò fermo, guardandolo.

Edward che gli parlava, illuminato di quella forza interiore che aveva sempre inseguito.

Di quell’anima palpitante che aveva sempre desiderato per se stesso.

“Incompreso anche da me, alla resa dei conti.” – aggiunse l’immortale, abbassando la voce – “Pensavo di conoscerti, di poter fare la cosa giusta. Avevo sconfitto la morte, non volevo che tu vivessi all’ombra di questo fatto. Non c’è mai stato merito in questo dono che ho avuto. E’ stato caso, destino, natura… non ho fatto nulla per meritarmelo.

Ma tu l’avresti comunque pensato.

Hai sempre pensato che io fossi perfetto, di non avere altro posto in cui vivere che la mia ombra…”

“La tua luce.” – rispose Spike, automaticamente. Poi qualcosa gli si spezzò in petto. Urlò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni – “Non era ombra, dannazione. Era luce, l’unica che conoscessi, quella in cui vivevo!  E un giorno sei venuto a dirmi che mi avresti lasciato, che dovevo prepararmi.

L’ho fatto, Edward, mi sono preparato a restare solo perché, per la prima volta in vita tua c’era qualcosa che non sapevi… che non potevi cambiare. E ho passato tutto il tempo che abbiamo ancora avuto insieme a pregare per un miracolo.”

Restò muto, i pugni stretti. E sentendo, con chiarezza, di avere lacrime sul viso.

“Il miracolo c’è stato, vero Edward? Mi sembra di essere stato esaudito…” – aggiunse, rauco – “peccato che io non l’abbia mai saputo.”

 

Non meritavo di saperlo.

 

William Coventry non ha meritato nulla nella sua vita.

 

Scattò verso di lui, atterrandolo. E colpendolo, con forza.

Tempestandogli il petto e il viso di colpi, senza fermarsi.

E senza smettere per un attimo di piangere.

 

“Per te mi sarei fatto uccidere... e non mi sarebbe importato. Avrei dato la mia vita per saperti vivo!”

 

E invece l’ho ceduta perché ti sapevo morto.

Mi sono dannato per te.

 

Per te.

 

Ho rinunciato alla luce perché ti avevo perso.

 

Si fermò, il pugno ancora levato. E si alzò, lasciando Edward a terra, insanguinato. Vivo o morto, un fatto di poca importanza. Rimase a lungo a fissarlo, senza neanche tentare di pensare. Era come se tutto fosse tornato indietro, il tempo si fosse riavvolto ad un’epoca rimossa.

Davanti a lui, riverso su un fianco e immerso in un sonno profondo e privo di sogni, stava Edward. Una figura sottile e allungata, i capelli biondi e ondulati, pettinati ad arte. Il perfetto quadro di se stesso, il monumento impeccabile di una bellezza giovanile eppure non fragile ed effimera.

Edward era riemerso dalle sabbie del tempo recando con sé la promessa di un’eterna giovinezza.

E Spike si vide ad alzare la spada su di lui.

E porre fine a quella sofferenza.

 

Mosse tre passi a ritroso, stringendosi le tempie tra le mani.

La lama, in quella visione, luccicava e calava inesorabile.

Calava e uccideva.

Calava.

 

E uccideva.

 

Arrivò fino alla parete, come quella mattina posò le mani, cercando un appiglio, cercando un freddo che gli impedisse di sentire ancora la fronte e il petto bruciare in maniera così orrenda.

Alle sua spalle, Edward si mosse, stringendo i denti per non urlare, mentre gli squarci si richiudevano, sul viso, sul petto. Si voltò con lentezza, cercando un appiglio, un modo per rialzarsi, ignorando il dolore alla spalla, alle costole.

“William…” – ansimò.

Non sapeva quanto tempo fosse passato, se suo fratello fosse ancora presente.

E se, ormai, non restasse altro che una sconfinata solitudine.

“Ti prego…”

“Cosa, Edward.” – gli rispose, senza nemmeno voltarsi. Con voce pacata, fissando la parete grigia – “Per cosa mi vuoi pregare…un’altra occasione… una fine rapida… il perdono… non so più cosa dire, a riguardo.”

 

Non so più cosa fare…

 

“Vattene. Rimane il mio consiglio migliore.” – strinse la mascella, abbassò gli occhi grigi – “E’ un consiglio da amico. Nessun rancore. Vattene.”

 

Restiamo morti, per piacere.

 

“Io non…”

“Edward.” – Spike si raddrizzò, zittendolo – “Non continuare questo gioco. Non ho nessuna intenzione di lasciarmi convincere per sfinimento. Voglio evitare di fare qualcosa di cui potrei pentirmi. Per cui, adesso, ascoltami bene.”

Si voltò, avvicinandosi e piegandosi sui talloni, per guardarlo bene in viso.

“Vuoi una motivazione per non inseguirmi più?” – chiese, con calma – “Va bene, ti accontento.

 

Io ho ammazzato Carrol.”

 

***

 

Angel si fermò un’altra volta, i sensi tesi fino allo spasmo.

Lui e Doyle erano rimasti coinvolti in una breve schermaglia da cui, comunque, si erano presto cavati d’impaccio.

Purtroppo, insieme al tempo avevano perso anche le tracce dei due fratelli.

Dove, in quel dedalo di corridoi e magazzini?

Dove?

“Li senti?” – domandò, affiancando Doyle.

“No.” – l’uomo si massaggiava la fronte, cercando di concentrarsi – “Vedo qualcosa.. ma è nella mia testa.

“Altre visioni?”

“Non del tutto. Sono frammenti di cose già viste… e che dovrebbero non essere accadute…”

“Di nuovo Edward?”

“E quella bambola. Angel, non capisco. E’ ciò che è successo stamattina. Eppure continua a passarmi per la testa.

E sono stufo che continuino a farmelo notare! So già che è in pericolo cronico.

Lo so benissimo… oh…”

Si coprì gli occhi con una mano e si appoggiò alla parete.

Una lama.

Spike, con gli occhi incredibilmente splendenti.

Edward a terra, un mare di sangue, i segni della lotta sul corpo.

“Come non detto…” – bofonchiò – “di nuovo Coventry... ma questa volta il carnefice non è Drusilla. E’ peggio… peggio…”

 

***

 

Portogallo, 1860

 

“Coventry…” – Methos puntò il dito – “Ma non ti tenta nemmeno un po’? Galeone…carrozza… galeone… carrozza….”

“Smettila.” – Edward rise e buttò un’occhiata distratta al porto – “Sai benissimo le intenzioni. Fino a Parigi… poi in treno fino a Istanbul. Da lì vedremo.”

“Ma… galeone?”

“No, Doc. Niente America. Smettila.”

“Ma…”

“Io vado verso est.”

“See… perché sei un seccatore.”

“Lo sono.” – Edward si raddrizzò, perdendo il sorriso. Le sopracciglia bionde si aggrottarono e lui fissò gli occhi verso un gruppo di persone.

Methos si voltò, seguendo quell’occhiata.

“Ma…” – disse, cercando di concentrarsi.

“E’ Dave. Il fratello di Carrol.” – Edward mosse un passo a ritroso, celandosi.

L’avrebbe riconosciuto tra mille, anche in quello stato.

Quelle erano mani e lineamenti che non si scordavano.

Era un relitto d’uomo quello che veniva verso di loro. Ubriaco, l’aria incolta di chi da giorni dorme su di un pavimento.

Edward fu pronto a nascondersi. Methos non altrettanto.

E il ragazzo gli finì tra le braccia, cercando di tirarlo per terra.

“Ehi… io ti conosco…” – biascicò, investendolo con una zaffata d’alcool – “sei… sei il medico…”

“In persona.” – borbottò l’uomo, risentito. Lo reggeva per il torace non potendo fare altrimenti. E, con spirito umanitario, pensava solo alla sporcizia che gli si stava attaccando addosso.

“Vado in america…”

“Buon per te…”

“Qui non ho più nulla.” – rise, senza allegria, gli occhi accesi per l’ubriachezza – “Morti tutti… perso tutto…”

“Come?” – Methos lo fissò meglio. Alle sue spalle, gli sembrò quasi di sentire Edward irrigidirsi. E cercò, rapidamente nella memoria le informazioni necessarie per ottenere notizie… notizie di lei – “Ma… la tua famiglia… avevi una… due sorelle.”

“Morte.” – spiegò, passandogli un dito sulla camicia e cercando di mettersi in piedi – “Tutte morte. Incidente dicono. Ma sono morte. Carrol e L… Lynette. Morte. Pazienza come.”

La pietà passò negli occhi dell’immortale.

Ecco la fine dei fiori dell’Inghilterra, non avvezzi al dolore, cresciuti nella dolcezza.

Follia.

Follia e morte.

“Vado in america io, però.” – ripeté l’uomo, orgoglioso, indicando l’oceano – “Vado là. Là diventerò ricco.”

“Lo spero.” – sospirò, aiutandolo a rimettersi diritto – “Buona fortuna.”

“Grazie amico.” – gli stringeva la mano, riconoscente. E dio solo sa quanto ne avesse bisogno – “Grazie, amico, grazie.”

 

Si allontanò incespicando, raggiungendo un altro come lui. Un derelitto ancora vestito con eleganza ma con, sul viso, già i segni della miseria.

Quella interiore.

 

“Hai sentito?” – chiese, senza voltarsi. Senza ottenere risposta.

“Edward?”

“Sto bene.” – gli rispose la voce. La voce attutita di un attimo di dolore.

Methos abbassò la testa, pensando se dire qualcosa oppure no. Poi tornò a fissare gli uomini, quegli uomini che ridevano sguaiatamente e sapevano comunque guardare con fiducia al loro futuro.

“Sai…” – mormorò, pensoso – “Adesso l’America non mi sembra più così attraente… l’est andrà bene…”

 

Edward lo fissava. I suoi occhi erano perfettamente trasparenti.

E Spike, pregando di avere la forza d’animo che richiedevano quelle parole, ne sostenne la forza.

“Non sto scherzando.” – spiegò, serio – “Mi è sembrato il caso di lasciare le cose in ordine, prima di andarmene dall’Inghilterra.

Una capatina a salutare papà, innanzitutto. Ha urlato parecchio, in effetti. Non sembrava contento di vedere un fantasma nel suo studio

Spettacolo interessante.

Nel frattempo, per la cronaca, mamma stava morendo. Manco si sarebbe accorta se ero presente oppure no. Mi risulta che non le abbiano nemmeno detto che me ne ero andato. Intanto, a casa nostra, non c’era già più distinzione tra i figli morti e quelli vivi. La malattia ha solo esasperato un po’ la situazione, ci chiamava entrambi, indipendentemente fossimo o no ai piedi del suo letto.”

Abbassò la testa, in maniera studiata.

E disegnò alcuni ghirigori nella polvere con la punta di un dito.

“Poi sono andato da Cecily. Cecily Darshwood, non so se te la ricordi.” – continuò – “Mi sono divertito talmente tanto da tornare parecchie volte. Credo che alla fine si divertisse pure lei.

E, nel frattempo…”

Lo fissò. E gli sorrise.

Ed Edward si sentì morire.

“Carrol.” – concluse. E si sedette a gambe incrociate – “Sai, Edward, continua a sfuggirmi qualcosa di quella ragazza. Non era la tua quasi fidanzata? Perché allora la mia foto nel cassetto? Quasi quasi mi è spiaciuto non averlo scoperto prima… d’altro canto, spero che abbia almeno goduto la nostra prima notte… a modo mio l’ho indubbiamente sposata.”

Rise, divertito. E si dondolò all’indietro, sembrandogli spiritato.

E cattivo.

“Mio dio, tu non immagini quanto fosse bella! Si è fatta inseguire... e per un po’ è stato divertente... fino a quando non ha trovato Lynette in fondo alle scale ed è scivolata sul sangue. Si è messa ad urlare... e io odio le persone che urlano…”

“William smettila…”

“Non sono William. Il sangue, dicevo. E’ caduta. Ed io ne ho approfittato. Poi, con le gambe spezzate non ha potuto più correre. Sai cosa mi ha detto, alla fine? Che donna…” – scosse la testa, ammirato – “I purosangue azzoppati si abbattono. E’ un atto di misericordia.”

Si fermò. E si piegò verso di lui, carezzandogli il viso.

“E tu lo sai, Edward.” – scandì, occhi negli occhi – “Che io so essere misericordioso.”

 

Si era alzato. Così rapido da essere appena visibile nel movimento.

 

“Credo non abbia sofferto.” – aggiunse, consolatorio – “Mi sembrava morta, quando ho incendiato la villa.”

Poi alzò le spalle.

“Del resto…” – gli sorrise, in maniera perfetta – “Non lo sapremo mai.”

 

Scese il silenzio.

E giunse l’immobilità.

Ogni alito di vento era cessato, ogni stella, sopra di loro, sembrava congelata e incastonata.

Era il freddo, ciò che percepivano, nel fissarsi.

 

“Adesso sai chi sono.” – aggiunse il vampiro, mettendosi le mani in tasca – “E sai che ho ragione.”

 

Non volevi avessi la tua immortalità sotto agli occhi.

Ma adesso hai ben presente la mia dannazione.

 

Siamo pari.

 

E su due diverse barricate dell’eternità.

 

Oggi siamo di nuovo morti, entrambi.

 

Edward si era rialzato. E non gli parlava.

Non c’era nulla sul suo viso. Nulla.

 

Era come se il suo cuore non stesse battendo, come se non avesse bisogno di respirare.

Edward era una statua, innanzi a William.

“Adesso hai la motivazione che ti serviva.” – spiegò, con pazienza. Rendendosi conto di non poter restare in silenzio un attimo di più – “Per cui puoi scegliere quale sia la cosa giusta.

Puoi vendicarla… o andartene rinnegandomi.

Non mi oppongo a nessuna scelta.”

 

E fu allora che Edward lo colpì.

Uno schiaffo, ben dato.

Uno solo, così preciso e inaspettato da troncargli le parole in gola. Spike si portò la mano al viso, istintivamente. E pensò a Wes. A Wes che lo difendeva nello stesso modo da Xander Harris.

 

"Se ti comporti da bambino, ti trattero' da bambino."

 

Poi realizzò, con atroce lentezza. Realizzò l’accaduto e alzò la testa, le spalle curve.

Edward lo aveva colpito.

Edward non lo aveva mai colpito.

Solo adesso.

Solo ora, per la prima volta.

E senza battere ciglio, senza un’emozione.

 

Qualcosa vibrò nel cuore di Spike. Qualcosa di ben diverso dal rimorso, dal rimpianto patito nella sua esistenza a partire dal giorno in cui, ormai vampiro, un’anima era tornata a battergli in petto.

No. Quello che stava provando era più semplice.

E più letale.

Era vergogna.

 

Umana vergogna.

 

Vergogna per quel dolore così deliberatamente inflitto a Edward.

 

Dolore per dolore.

Morte per morte.

 

E mai odio.

Mai odio negli occhi di suo fratello.

Nemmeno ora.

 

Solo che, ora, non poteva più sostenere quello sguardo.

Non poteva.

 

Rimase incerto, rigido sulle gambe, cercando disperatamente di fuggire, così lontano da far perdere le sue tracce. Eppure senza muoversi.

La consapevolezza gli scorse nelle vene, come gelo, snebbiandolo. Le parole dette, vere e malvagie gli balzarono alla mente, gratuite. Superflue rispetto al sentimento.

 

Rabbia per dolore.

Furia per amore.

 

Quello era Edward.

Non un incubo.

Non un fantasma.

Edward.

 

Spike lo contemplò, gli occhi incrinati, le dita ancora sulla guancia, a contatto con la pelle fredda e marmorea, a caccia di un segno bruciante che non c’era, se non nella sua mente.

 

Oh, Edward… adesso sono io a pregarti… a pregarti per una singola parola…

 

Volevo te ne andassi… ma non con questo ricordo di me.

Avrei tanto voluto essere ancora il William che cercavi, e non questo assassino.

 

Vattene… o resta… ma perdonami.

Perdonami.

 

Lentamente, senza cercarlo oltre con lo sguardo, Edward si voltò.

E si avviò, con lentezza, raccogliendo le proprie spade.

E svanendo, per una via, nel buio.

 

***

 

Camminò a lungo, a passo sostenuto, le spade strette nelle mani.

Il cuore, nel petto, sembrava essersi fermato.

Ed Edward teneva gli occhi fissi di fronte a sé, senza percepire, nel suo corpo, un singolo muscolo, un singolo respiro.

Nulla. Il suo corpo camminava, ma senza una sensazione, senza che nemmeno un passo rimbombasse.

Era il buio a circondarlo, l’unica certezza.

Solo il buio. E le spade nelle mani.

Sono un guerriero, pensò, con voce distaccata. Sono sopravvissuto a mille battaglie. Sopravvivrò a questo.

Ho perso Mayuri.

Ho perso la terra che avevo scelto per me stesso.

Ho perso la mia vita.

Ho perso le mie certezze e la mia famiglia.

Sopravvivrò a tutto questo.

E Carrol… Carrol è stata pianta, tanto tempo fa. Che… che riposi in pace.

 

Sopravvivrò.

Sopravvivrò a tutto questo.

Come sempre.

 

Senza cambiare l’andatura e senza esitazione, saltò giù da una paratia, atterrando poco lontano dalla moto. Fletté le gambe, posando una mano a terra, per bilanciarsi.

E non si rialzò. Gli occhi bassi, fissi a terra, la mente vuota.

 

“Adesso hai la motivazione che ti serviva.”

 

Si raddrizzò, ricominciando a camminare. I passi allungati, l’andatura dinoccolata con cui era conosciuto.

 

“Andiamo, Coventry… non puoi aspettarti che non ti conoscano. Io disapprovo, certo… sono tremila anni che insabbio le mie tracce. Ma tu… tu sei una specie di irritante cherubino biondo… è impossibile dimenticarti.”

 

Forse. Ma in questo momento vorrei solo svanire dalla faccia della terra. E non essere mai esistito.

 

“Io ti odio, Edward.”

“Non avrei mai voluto lasciarti.”

 

Credimi, Methos. Vorrei non essere mai esistito.

 

Le lame scivolarono nei foderi a lato del serbatoio, con lo stesso rassicurante suono di sempre. Ed Edward mise in moto, facendo scattare i cavalletti, gli occhi ancora fissi in un punto sfuocato della via.

 

“Finisce cosi', dunque?Te ne vai?”

“Quello sei tu, Edward. Sei tu quello che fugge, a quanto ne so.

Questa e' la mia citta'. La citta' mia e di Angel. Vattene.”

 

L’aria lo colpì in viso, fredda, nell’oscurità che precede l’alba.

Ed egli accelerò, sperando di non doversi mai più fermare.

 

[VIII]

 

La macchina di Cordelia non era ancora propriamente ferma innanzi al cancello quando Wes  afferrò la maniglia e spalancò la portiera, tendendo le braccia alla sua Cacciatrice e sollevandola senza fatica.

“Allunga un dito e te lo stacco.” – ringhiò, nel voltarsi, vedendo Methos raggiungerlo.

“Se sai suturare dillo subito, prima che mi sporchi di sangue.” – ribattè l’immortale, scostando le bende arrossate e guardando la ferita – “Altrimenti chiudi il becco e portala dentro.”

 

Methos non amava perdersi in questioni infinite. Anzi, il più delle volte, quando la gang dell’ Hyperion inscenava grandi drammi, si preparava del caffè e leggeva il giornale aspettando l’ultimo atto. Allo stesso modo, quando si trattava di prendere in mano la situazione, semplicemente smetteva di chiedere. E comandava.

Stranamente nessuno obbiettava, quando Methos si imponeva.

Non Doyle, di certo, avvezzo al suo ignobile carattere. O Cordelia, sempre in bilico tra il nervoso e l’ammirazione per l’immortale. E nemmeno Wes, in frangenti normali.

Frangenti che non implicassero l’incolumità e la persona di Faith.

“Che intenzioni hai?” – domandò dunque bellicoso, adagiando la ragazza sul divano del piano terra.

“Lascialo lavorare, Wes.” – replicò Faith, pallida, tenendosi una mano sulla fronte e guardandolo – “Intanto lo sai che non ti risponde.”

“Oh si che mi risponde!” – replicò l’altro, sbarrando gli occhi chiari – “Avanti, Pierson, che intenzioni hai.”

“La spoglio e la sevizio.” – ribattè l’uomo, finendo di asciugarsi le mani e piegandosi sui talloni – “Ovviamente puoi guardare.”

Faith gli sorrise, sforzandosi di ignorare il dolore.

“E credi di avere qualche chance, uomo pigro?” – lo punzecchiò, sentendo la sua maglietta strapparsi e il freddo sulla pelle – “Intendo difendermi…”

“Non saresti tu non lo facessi.” – replicò Methos, sorridendole e finendo di mettere a nudo la spalla – “è una sciocchezza, sei solo una donna plateale. Westley, per favore, aiutami, visto che ci tieni tanto…”

L’uomo non se lo fece ripetere, sostituendolo e iniziando, con delicatezza a ripulire e disinfettare la ferita. Era precisa, un segno scuro netto da cui il sangue ormai usciva a malapena.

“Hai una buona mano…” – lo incoraggiò la ragazza, respirando piano e guardandolo – “Stai tranquillo, non è nulla.. ha ragione lui…”

“Lui non ha mai ragione.” – ribattè Wes, inumidendo un’altra garza, prima di sorriderle, complice – “Confessa, lo hai fatto perché sapevi che mi sarei arrabbiato perché hai fatto di testa tua. E che se torni anche solo con un graffietto io divento una mammola.”

“Ti prego.. se mi fai ridere fa più male… comunque è vero, mi hai scoperta.”

“Allora, ragazza.” – si intromise Methos, riapparendo con il necessario per rattopparla – “Pronta per lo show?”

 

Wes arretrò, lasciandogli spazio. Incrociò le braccia e mosse due passi indietro, restando di guardia. E sentendo la mano di Cordelia posarsi sulla spalla.

“Vieni.” – sussurrò la ragazza, indicandogli la sala – “Qui non serviamo. Ho bisogno di parlarti.”

Wes la seguì senza rispondere e si sedette dandole quasi le spalle, continuando a seguire i movimenti precisi di Methos e la conversazione sommessa che i due stavano intavolando.

Faith non era tipo da abbandonarsi alle debolezze o a cedere innanzi al dolore. Restava cosciente, tenacemente aggrappata alla consapevolezza di ciò che le accadeva intorno. Scherzava, addirittura, piegando la testa verso l’interlocutore.

E Wes, a metà tra la preoccupazione e la tensione, si sentiva quasi scoppiare di orgoglio nel fissarla.

La sua Cacciatrice.. coraggiosa fino alla stupidità.

“Dimmi.” – disse, riscotendosi e guardando Cordelia sedersi – “Che è successo…”

“Non mi chiedere cose che non so.” – replicò lei, tirandosi indietro i capelli. Aveva vistose ecchimosi, sul collo e sulle braccia – “Abbiamo combattuto fino alla nausea.. se non era una trappola era comunque qualcosa che le assomigliava….”

“Vi aspettavano?”

“No, non penso. Ma è stato comunque un bagno di sangue.” – Cordelia si massaggiò gli occhi, stancamente. Il suono della voce di Faith, mischiata a quella di Methos, le sembrava rassicurante – “Angel e Doyle sono là.. stavano cercando di raggiungere quei due..”

quei due.. Wes sapeva benissimo a chi si stesse riferendo. E, per quella sua indole riservata, non si sentì in dovere di immischiarsi.

“Di cosa volevi parlarmi…” – insistette, con garbo, abbassando al voce.

“Di visioni.” – rispose la ragazza, in un soffio – “Credo che Doyle abbia un problema.”

 

***

 

“Io non sono William.”

 

E’ vero, dunque. Io non sono più William.

Non lo sono più.

 

Piegò la testa, fissando il leggero movimento della polvere.

 

Non sono più il William di Edward.. non sono più il William di Angel…

Resta solo Spike, il vampiro. Il carnefice. E la sua anima difettosa.

Chiuse gli occhi, serrando la mascella. Strinse i pugni, sentendo le tempie quasi scoppiargli.

Non sono più nessuno… se non il demone.

Il demone.

 

Oh, Faith…deglutì, sentendo la testa divenire un dolore pulsante.

Che cosa ho fatto…

 

“L’ho rivista, la mia adorata Carrol. Adorata una notte, spogliata di ogni dignità, resa folle e cieca per lenire la malinconia di Drusilla.” – aveva sussurrato, giocando con i capelli della Cacciatrice – “Ho storpiato le sue snelle gambe da cavallerizza e attinto sangue dai suoi seni. Avevo giocato con l’eccitazione di Drusilla, con i brividi che la scuotevano. Non avevo smesso di guardarla, nel possedere la mia amica di infanzia senza rimorso.”

Faith gli aveva carezzato la pelle, senza parlare.

“Le gambe deformate a penzoloni dai miei fianchi.  La gola ormai istericamente contratta sotto le mie dita. Morta così, mentre ancora bevevo da lei sangue ormai freddo.” –  aveva immerso le labbra tra le ciocche brune, ricercandone il profumo – “Amore chiama amore, le avevo sussurrato.

E ancor oggi, mi domando a cosa mi sono riferito, nel profanare così il suo credo.”

“E’ tutto cambiato, Spike.. tutto cambiato da allora. C’è l’anima…” 

“Lo so. Ma a Carrol, si son susseguiti Loro.

Loro. Tutti gli altri. Ed ora li incontro, Faith. Li incontro in ogni mio incubo.”

 

Ho reso reali i miei incubi.

Oggi ho fatto divenire carne i mie peggiori terrori.

Edward, innanzi a me, con la condanna negli occhi. Edward, che si volta e si allontana.

E io resto solo, un’altra volta.

 

Fu allora che i passi di Angel, alle sue spalle, gli sembrarono gli stessi di sempre. Gli stessi, rassicuranti, eppure di un presente che non sentiva più suo.

Una mano gli si posò sulla spalla. E Spike, meccanicamente, si voltò, le mani abbandonate lungo i fianchi, seppellendo il viso nel giaccone di pelle, senza osare incontrare il suo sguardo.

 

Respirando il profumo del suo sangue.. di quello di Dru.

E di Faith.

Sangue di Faith su Angel.

 

Angel, con lentezza, impacciato, alzò un mano, posandogliela sulla nuca, voltando appena la testa verso di lui. Ma non osò parlare.

Spike aveva i vestiti che sapevano di battaglia, di fumo, di rabbia. E del sangue di Edward.

L’aveva chiamato, certo che lo sentisse. Eppure il vampiro non si era mosso, non gli aveva risposto, in nessun modo, nemmeno con l’odio, o con il rancore.

Non gli importava di essere ignorato, o che Spike provasse a cacciarlo. Non se ne sarebbe andato.

Ma mai si sarebbe aspettato una reazione del genere, nell’avvicinarsi.

Doyle, dietro di lui, non fiatò. Rimase discosto, studiando lo spazio circostante. Cercando Edward, domandandosi dove fosse, cosa fosse successo.

 

Edward era stato lì. Anche con i suoi sensi demoniaci perennemente tenuti a freno poteva comunque sentirlo. Poteva sentire l’odore del sangue, vederlo, a terra, in gocce perfette, sferiche. Poteva quasi respirare la furia che si era scatenata in quello spazio coperto.

 

Ma ora.. perchè Spike era solo?

Possibile che…

 

Spike si raddrizzò, con lentezza, allontanandosi dalla mano di Angel. Per tutto quel tempo, il tempo eterno in cui si era appoggiato a lui in cerca di un appiglio, non aveva pensato a nulla.

Nulla di veramente importante.

Ma ora.. ora doveva prepararsi ad affrontare tutto.

Il tutto.

 

Fissò il vampiro bruno, senza una vera sfida. Ma con durezza, senza sentirsi in dovere di dire nulla.

Poi, con calma, fissò Doyle, alle spalle di Angel.

 

Non credo che tu abbia bisogno di sentirtelo dire.

 

“Se ne è andato, vero?” – domandò il demone, ricambiando l’occhiata.

Una voce sommessa sulle labbra. E una verità atroce nelle parole.

Spike non annuì. E nessuna emozione sembrò trasparire dai suoi lineamenti.

Doyle non era tipo da farsi intimorire. L’aveva conosciuto da demone senz’anima e, una vita dopo, l’aveva sfidato per guadagnarsi la sua fiducia. Sapeva di Spike il vampiro cose che il vampiro stesso ignorava. Sapeva che poteva essere feroce e ostinato. Appassionato e vulnerabile. E forte, forte nel sopportare il dolore come il pericolo.

Si. Spike sapeva essere molte cose.

Ma ora, nel fissarlo, ebbe solo l’impressione di vedere un infelice. Un infelice allo stato puro.

E null’altro.

“Non è più un problema.” – rispose Spike, con lo stesso tono asettico.

Non è un problema per voi.

Così sarebbe dovuto essere sin dall’inizio.

 

Spike spostò la sua attenzione, da Doyle ad Angel.

“Faith?” – domandò, senza una vera emozione.

“E’ ferita, ma non è grave. Cordelia la stava portando a casa.”

“Bene. Allora la vedrò là.” – casa… - “All’ Hyperion.”

“E’ là che stai andando?” – domandò Angel, vedendolo incamminarsi.

“Dove se no.” – si voltò, le mani in tasca, la testa gettata indietro per guardarlo – “Dove…”

Angel lo fissò, assorto. E Spike non si mosse. In silenzio, senza smettere di osservarsi.

“E poi?” – chiese, rompendo quel gelo.

“Poi me ne andrò.”

“William.”

“Non sono William. Non lo sarò mai più per nessuno.”

 

Il suo profilo era pallido. Una maschera di cera. I suoi occhi erano cobalto, come la notte che si erano conosciuti.

Riverso e fragile, ai suoi piedi. Eppure ancora così vivo, così caldo.

 

E così giovane.

 

“Sei riuscito a perdonare me.” – disse, d’istinto, guardandolo – “Ti ho ucciso, dannato, abbandonato. Eppure hai saputo perdonarmi.

Cosa ha fatto Edward di peggio…”

Non aveva realmente osato porre quella domanda. Aveva sussurrato quella frase, sentendo la propria voce divenire più flebile, fino a morire, rispondendosi quasi da solo, con il silenzio.

 

“Cosa…” – ripetè.

 

Ma Spike non disse nulla.  E non si voltò indietro, allontanandosi.

 

***

 

“Cosa intendi per problema?”

“Sono ininterrotte, da stamattina. Continua a vedere la stessa scena, credo. Ma si tratta di un episodio già avvenuto.”

“Te ne ha parlato lui?”

“Siamo stati a lungo appostati.. e Doyle parla da solo quando pensa. Si, si può dire che ne abbiamo parlato.” – tagliò corto, cercando di mettere insieme le poche informazioni. Era istinto, e sull’istinto di Cordelia chase non si discuteva! – “stamattina è iniziata così. Ha avuto una visione, probabilmente su Edward, visto che si è premurato di non dire nulla a Spike.. e poi…”

“E poi ha continuato a rivederla ad oltranza.” – aggiunse Methos, attraversando la sala e sparendo in cucina.

“Hai già finito?” – Wes era già in piedi, pronto a inseguirlo.

“E quanto credi che ci voglia a ricucire tre centimetri quadri di pelle?” – rispose, fissandolo e scotendo le mani bagnate riempiendo di schizzi l’immacolata cucina – “Fila da lei, o uomo paranoico. Ci parlo io con la ragazza.”

“Cordy.” – aggiunse, visto che Wes non si fece ripetere l’invito – “Cos’altro ti ha detto?”

“Nulla. Sai come è fatto.” – sospirò Cordelia, fissandolo, mentre la raggiungeva – “So della visione perché si è lasciato sfuggire qualche mezza frase di troppo. E tu?”

“Si è ripetuta parecchie volte e ha a che fare con l’agguato di stamattina, a quanto sembra. Continua a rivederlo sempre uguale. Eddy lo ha confermato, c’erano dei particolari comuni.”

“Gli è successo anche mentre combattevamo. Continuava a ripetere che Edward era in pericolo, che doveva stare attento, guardarsi le spalle…” – la ragazza scosse la testa, irritata – “Non capisco, non era mai successo prima. Non ha mai più volte la stessa visione…soprattutto se è qualcosa di già accaduto.”

“Infatti è strano.” – Methos si era recuperato una birra. E beveva direttamente a muso – “Passi la ripetizione.. anche a sua madre succedeva e poteva anche essere un vantaggio. Ma non per il passato. Sempre per il futuro.”

“Dobbiamo preoccuparci? È questo che mi stai dicendo?”

“Io mi preoccupo delle sue dannate visione da quando gli ho insegnato ad andare in bicicletta.” – ribattè l’uomo, con semplicità – “L’unica cosa che posso fare è parlargli, non appena torna.

A volte chi subisce l’anomalia ha anche la risposta.”

 

***

 

“Non c’è niente da dire.”

“Doyle… perdona la franchezza, ma non ho tempo da perdere.” – Angel svoltò, accelerando e sapendo, allo stesso tempo, di aver perso di vista la DeSoto da almeno due isolati – “Per cui parlami della visione e finiamola, una volta per tutte.”

“Allora se sai cosa vuoi sapere.” – replicò il demone, senza smettere di massaggiarsi le tempie e piegando la testa indietro per posarla contro il sedile – “Fai la domanda. Intanto sono qui… di certo non scappo…”

si morse la lingua, per quella frecciata. E respirò a fondo.

“Spara, uomo. Sono disarmato.”

“Continua a ripetersi, maledizione.” – Angel picchiò un palmo contro il volante – “Non puoi andare avanti in questo modo, lo sai benissimo. Ti si fotterà il cervello, una volta per tutte.”

“Prospettiva confortante.” – sospirò, stringendo i denti per l’ennesima fitta – “Attualmente è solo come avere la London Simphony Orchestra tra le orecchie.. non voglio immaginare il peggio.”

“Doyle…”

“Smetti di ripeterlo. Tanto so che stai parlando con me. “ – respirò a fondo, fissando il cielo – “Va bene, facciamo un passo indietro.

Edward è stato aggredito stamattina. Alle spalle, mentre parlava al cellulare, da un tizio con una bambola tatuata che, attualmente, è passato a miglior vita. Edward è ancora vivo ed è passato in almeno quattro mie visioni.”

Angel frenò bruscamente, rispettando il semaforo. E il demone, per poco, non gli rise in faccia,.

Rispettoso del codice stradale anche nella più totale disperazione. Sei unico, uomo…

“Ho visto lui e Spike incontrarsi. E Spike morderlo.” – enumerò – “ho visto i covi vampirici, l’attacco di Drusilla, probabilmente persino un fotogramma dello scontro che ha avuto con Spike.. e ho continuato a vedere l’aggressione di stamattina. Di continuo…”

Si interruppe. E si massaggiò la fronte.

“Di continuo.” – ripetè.

 

E non ho la più pallida idea di cosa significhi…

 

Voltò la testa, guardando il vampiro.

“So solo una cosa. Si sono realizzate tutte.” – concluse, con aria assorta – “ad eccezione dell’ultima che ho avuto… c’era un qualcosa di strano.”

“Più delle altre?”

“No. “ – scosse la testa – “Non era strana la visione… era un particolare. Era Spike, con una lama in pugno.. con Edward steso ai suoi piedi.”

Angel rabbrividì, al pensiero.

Edward steso ai piedi del fratello. Aveva già vissuto in quel quadro. E non voleva vederlo ripetersi.

Sbattè le palpebre. E. al posto di Edward, ebbe la raccapricciante certezza che, a terra, morta in un lago di sangue, ci fosse Kathie.

 

Io so cosa si prova, ad uccidere il proprio sangue… ancora adesso…

 

“E’ già accaduto, Angel.”

“Come?” – sobbalzò. E lo fissò in viso. Doyle, pallido, gli occhi vitrei.

“Ne sono certo. Siamo stati nel posto giusto.  Ma Edward è ancora vivo” – si interruppe, si inumidì le labbra – “Spike non l’ha ucciso. Chi può averlo salvato se…”

“William.” – a risposta gli sfuggì dalle labbra, con certezza – “E’ stato William. Lo so, l’ho sentito.”

“Scusa?” – il demone si raddrizzò – “Visioni anche tu? Concorrenza sleale, Angel!”

“Sai benissimo a cosa mi sto riferendo.” – tagliò corto il vampiro – “Posso percepire William, non Spike.”

 

Non è nella demonicità la nostra telepatia. È sempre stata nell’essere ciò che siamo. Nell’anima.

 

“Quello che ti sto dicendo è che non l’ha ucciso. È vero.

Continua a dirlo,  a pensarlo… ma non l’ha fatto. Quando ne ha avuto l’occasione si è fermato.” – il semaforo tornò verde. E Angel infilò la marcia rischiando di distruggere il cambio – “Oggi, anche mettendomi di impegno, non sono mai riuscito a rintracciarlo. Se non in due momenti.

Due, Doyle. Gli unici due in cui non è stato predominante il demone, probabilmente.

Quando era nei sotterranei, probabilmente in pericolo. E nel momento in cui ha avuto la certezza di poter uccidere il fratello. Negli attimi in cui ha avuto paura… paura di cedere.

Hai ragione è strano. Ma non riguarda le visioni.”

Doyle rimase zitto, assimilando l’informazione. William era un eroe, facile dimenticarlo.. un eroe abbastanza forte da proteggere gli innocenti persino  nell’identificarsi con il carnefice.

“Spike lo ha salvato da se stesso.” – mormorò – “Concordo con te, non riguarda le visioni… ma significa che puoi ancora raggiungerlo, che non è come vuole farci credere. E che tra lui e Edward non è ancora tutto perduto.”

“Lo so.” – Angel fissò la strada – “Lo sapevo già. Non mi serviva un aiuto dalle alte sfere per accorgermene.”

“Lo so… è che speravo ci fosse un nesso con il mio problema.” – Doyle si strofinò la nuca, assorto, dandosi dello stupido.. e domandandosi il perché di quella sensazione  – “Ma allora... perché... perché quella visione mi tormenta...”

 

***

 

“Vattene. Rimane il mio consiglio migliore.

E’ un consiglio da amico. Nessun rancore. Vattene.”

 

La porta di Methos si chiuse con uno scatto pulito, rassicurante, facendolo sprofondare nella penombra dorata dell’appartamento.

Le luci della via filtravano dalle tende lasciate discoste, riflettendosi sugli acciai cromati degli arredi, del soppalco.

Rimase per un lungo istante immobile, assorto, gli occhi persi nell’ombra sul pavimento. Le fronde dell’albero, innanzi alla finestra. Poi accese la luce, cancellando quei movimenti silenziosi e quieti

Methos non c’era. Meglio.

Attraversò la sala, con calma. E si lasciò andare sul divano. Gli occhi puntati al soffitto, quella voce ancora nella mente.

Quella voce…

 

Tu sei stato la mia dannazione.Vattene Edward. Vattene e non tornare.

 

Si coprì gli occhi con entrambe le mani. E un singhiozzo, roco e represso gli distorse le labbra.

 

Mi hai abbandonato, lasciato solo…

 

Respirò a fondo, cercando di calmarsi, sedendosi,  stringendo le nocche fino a farle divenire bianche.

 

Il mio amore per te e' immutato. Lo stesso di allora.

 

L’amore immutato… Che abominio... In base a cosa, William, avresti potuto credermi? E’ vero, vero tutto ciò che mi ha rinfacciato.

Ti ho tradito…abbandonato… e tutto dopo un anno di pura angoscia…

 

E un giorno sei venuto a dirmi che mi avresti lasciato, che dovevo prepararmi…

 

Avevo bisogno di te, per sopravvivere, per combattere… volevo che potessimo avere tutto, insieme, finchè  ci fosse stato tempo…

Ma quanto ti ho logorato con la mia malattia… quando abbiamo superato il punto di rottura, senza nemmeno badarci…

 

Ho passato tutto il tempo che abbiamo ancora avuto insieme a pregare per un miracolo…

Un miracolo…

 

Ancora una volta torna il quesito. Ho preso la tua forza, ti ho prosciugato fino all’ultima goccia nell’attesa di una morte inevitabile.

 

Il miracolo c’e' stato, vero? Mi sembra di essere stato esaudito.

 

Peccato che io non l’abbia mai saputo.

Una morte mai avvenuta.

Peccato che io non l’abbia mai saputo.

 

Una nuova vita solo per me stesso… una vita che non ho diviso con te…

 

“Mi aveva detto che mi avrebbe dato anche la sua forza… io l’ ho fatto. Ho attinto da lui ogni volta che mi mancava… e poi l’ ho lasciato. L’ ho abbandonato, Methos… l’ ho lasciato solo…”

Tossì. E si mise in piedi, con fatica, puntellando le mani alle ginocchia, sbilanciandosi quasi in avanti.

Camminò lento, fino di fronte alla finestra, le mani al vetro, la fronte.

E gli occhi di nuovo chiusi.

Ho fatto la cosa giusta.. giusta per il gioco in cui mi stavo addentrando. Giusta per un immortale. Ma sbagliata per noi.

Per te, per me… sbagliata per te, William.

 

“Non dirò nulla a William…I miei sono anziani, non reggerebbero il colpo. E mio fratello… capirebbe, credimi. È in grado di accettare molto più di quanto non sembri… ma io non voglio. Ha già troppe illusione che si spezzeranno…”

 

Erano già infrante, quando pronunciai questa frase.

Solo che non volli pensarci.

Un altro singhiozzo, mani ad artiglio sul vetro freddo.

Non ho voluto…

 

Tu ami solo te stesso, Edward. E la tua idea di perfezione.

Smettila…

Solo scelte nobili, grandi decisioni, destini inevitabili.

Non sono così.. non lo sono…

Tu ami solo te stesso e l’idea che hai di te,

come il peggiore degli egoisti.

 

Non potevo accettare che mi amassi così tanto.. e ora… ora…

Respirò a fondo. E le fiamme gli passarono nel petto, come artigli. Con uno scatto si strinse tra le dita lo sterno, piantando quasi le unghie, rilassando con lentezza le dita nel cercare di controllarsi… Controllarsi ancora.

 

Tu mi hai lasciato… Mi hai lasciato Edward, ti ho creduto morto.

Mi hai mentito, hanno mentito tutti per te.

Ed ora vieni a parlarmi di amore, amore immutato, del fatto che andartene ti uccide… e ti…

 

Si asciugò gli occhi, con rabbia, sentendo male nel respirare.

Non c’era molto da aggiungere. Will.. Spike aveva dato una buona motivazione, dopotutto.

C’era Carrol, certo. Ma, sopra ogni cosa, c’era quell’odio… l’odio incontrollato con cui aveva

parlato, che non aveva celato o sminuito, quell’odio su cui Edward sarebbe passato sopra all’istante, senza fermarsi se solo...

Se solo, sopra ogni cosa, non ci fosse stata la scelta personale. E la natura.

 

E’ così che vuoi che pensi a lui? Come a un demone?

 

Inutile mentirsi.

 

William… William non esisteva più. E Spike era un vampiro, con istinti ed esigenze che un immortale non poteva comprendere. Aveva una famiglia, una missione… e aveva scelto l’ombra.

“Angel.” – pronunciò, la fronte ancora contro il vetro e gli occhi fissi in strada.

 

Ha scelto Angel.

E quel nome, risuonandogli nella mente, sembrò quasi una preghiera.

 

***

 

Faith si era voluta sedere. E le preghiere di Wes riguardo il restare a riposo erano rimaste del tutto inascoltate. Pallida, nauseata e incredibilmente minuta al centro del divano, con la sue gambe incrociate e i suoi capelli sciolti sulle spalle, era rimasta testardamente sulle sue decisioni.

“E ringrazia il cielo che io mi fidi di Angel.” – specificò, all’ennesimo cuscino che le veniva offerto – “Ha detto che lo troverà… e io gli credo.”

 

Gli credo.

 

Wes si sedette, con un sospiro. Aveva corso tutta la notte, in cerca di Drusilla, o di una traccia visibile del suo passaggio, senza risultato. Svanita nel nulla, dietro un angolo. Probabilmente ferita e ormai priva delle sue truppe scelte, decimate dalle ripetute scaramucce.

Ormai erano più di diciotto ore che stavano combattendo, nei rifugi, per strada,  in vere e proprie sortite.

C’erano stati i molteplici attacchi a Edward, i repulisti compiuti da Angel e dalla Cacciatrice, i massacri che Spike aveva portato a termine nelle fogne, per calmarsi.

Gli informatori di Wes non facevano che parlarne. Una catastrofe sembrava essersi abbattuta sulla stirpe vampirica di LA.

L’ennesimo segno dei tempi ormai maturi, avrebbe aggiunto Doyle, con aria cupa, se interpellato.

I tempi maturi per le profezie.

Il sangue destinato a riunirsi…

Wes sospirò ancora e si portò le  mani intrecciate alla bocca. Faith si tormentava i capelli, assorta,  ignorando la fasciatura che le stringeva il torace, gli occhi fissi di fronte a sé. Il suo terrore all’idea di aver perso Spike emergeva, a tratti, impreciso. Ma estremamente intimo, tanto da non poterne parlare, in nessun modo.

Westley abbassò gli occhi, riflettendo. Faith e Spike… secondo Doyle tutto era più di un semplice legame.

C’era qualcosa nel loro amore che travalicava le regole umane e naturali, proiettandosi verso l’assoluto delle cose, verso gli equilibri precari tra il giorno e la notte, il bene e il male.

Nati per essere insieme…

 

LA, Due mesi prima

 

“Dobbiamo parlare.”

Wes alzò gli occhi sorpreso, mentre Doyle lasciava cadere sulla scrivania un tomo in cuoio color ruggine. Dietro di lui, con una camminata quasi serafica, arrivava Methos.

Le mani in tasca, la bocca piegata in un sommesso fischiettare.

L’osservatore tese le mani verso il volume, per sollevarlo e gettargli un’occhiata.

“Un’altra edizione?” – domandò – “Non ti sembra di essere un po’ paranoico?”

“Vedi?” – Methos sprofondò nella poltrona, guardandosi le unghie – “Te lo sei fatto dire pure da lui.. se non è questo un segno…”

“Wes, ti prego.” – Doyle lo fissò con sopportazione – “Ti ho visto quasi in preda a un’erezione davanti a scartoffie ben meno importanti di questo! E l’argomento dovrebbe starti a cuore!”

“Sai benissimo che è così.” – ribattè, girando il libro e leggendo nel punto indicato – “Ma sono mesi che non fai altro che darmi il tormento con questo brano. L’abbiamo tradotto e ritradotto, allineato con tutti i calendari possibili e siamo ancora al punto di partenza.

E ti assicuro che, se ci fosse da preoccuparsi, il Consiglio sarebbe il primo a contattarci.”

“Vacci piano, Price.” – brontolò l’immortale, allungando le gambe e arrivando a occupare un angolo della scrivania con i talloni – “Confidare così in quei gruppetto di vecchi ammuffiti. Non è detto che sia di loro interesse come argomento. Dopotutto sarebbero i primi a trovarsi disoccupati.”

“Un motivo in più per fare chiarezza.” – Wes assesto uno spintone ai due anfibi, spedendoli a terra con un tonfo insieme al loro contenuto – “Non è detto che la Cacciatrice sia lei.”

“Certo che è detto! E a lettere plateali!” – Doyle riafferrò il libro – “Parla degli eroi, dei tempi, degli eventi. E del riunirsi del sangue! Ci saranno massacri, eclissi... e infine la stirpe…”

“Si, Doyle, lo so.” – Wes lo interruppe,  fissandolo con irritazione – “So tutto questo. E sono stato presente a tutte le anomalie citate riguardo alle cacciatrici. E nessuna è stata l’ultima. Abbiamo avuto tre prescelte negli ultimi cinque anni. Cosa ti fa credere che l’eletta sia Faith?”

“Spike.” – fu l’implacabile risposta – “E’ lui che me lo fa credere.”

Su di lei, se vuoi, dubita. Ma lui è certamente chi penso io.

Methos alzò gli occhi al soffitto, approfittando del silenzio imbarazzante calato nella stanza.

“L’uccisore, William the Bloody.” – ridacchiò, quasi fosse una cosa divertente – “William Coventry, chi lo avrebbe mai detto…”

“Come?”

Methos sobbalzò, rendendosi conto di aver parlato. E, soprattutto, di quello che aveva detto.

E Doyle li scoccò un’occhiata omicida, con gli occhi trasparenti.

 

Bravo, veramente bravo.

Imbecille proprio come predicava mia madre.

 

“Wes, puoi non credermi.” – esclamò, cercando di distrarlo, voltandosi a fissarlo – “Ma accadrà. E sarà meglio cominciare a prepararsi all’evenienza.”

Wes annuì, levandosi gli occhiali e gettandoli sul ripiano. Prima di tornare a scoccargli un’occhiata penetrante.

Doyle,.. sai essere snervante.

E il fatto che tu continui a imbrogliarmi in questo modo mi irrita. Sappilo.

“Va bene.” – disse, puntando l’indice su una riga della pagina – “Parti da qui a spiegarmelo, allora. Parlami del ritrovarsi del sangue. Tutto quello che sai.”

E Doyle, con inquietudine nello sguardo, aveva sviato la domanda.

 

Era bastato trovarsi di fronte Edward Coventry quel pomeriggio per spedire a posto tutti i pezzi dello sconclusionato puzzle che il demone predicava.

Edward Coventry.

Il riunirsi del sangue.

Di certo Wes, avesse avuto tra le mani Doyle e Methos, avrebbe usato uno per picchiare l’altro.

Avevano preteso che capisse, nascondendogli con estremo candore quell’ irrilevante particolare, immortale e biondo. Quel singolo particolare che poteva assestare una spallata a tutto il suo cinismo e lacerare il velo dei se.

I tempi forse stavano maturando… ma nulla lasciava presagire che fosse  veramente giunto il momento. O che loro fossero… Wes si impose di non pensarci. Non era il problema primario nel presente.

Si interruppe. E fissò la porta.

Perché Spike, nel silenzio innaturale dell’alba, stava varcando la soglia.

 

***

 

Tu sei quel passato che Spike non può più avere, quello di cui non si sente più degno.

 Tu eri una cosa troppo pulita perché il suo demone osasse anche solo rammentarti.

 

E’ davvero così Angel? Oppure è un’utopia?

 

Il suo demone, non la sua anima. Ed è stato un bene che fossi morto. Perché altrimenti ti avrebbe ammazzato, come ho fatto io con mia sorella, con tutta la mia famiglia.

Un demone distrugge il meglio dell’uomo, senza remore.

 

I purosangue azzoppati si abbattono. E’ un atto di misericordia.”

 

Carrol... Carrol, cosa è successo veramente quando me ne sono andato...

Io... non riesco a immaginarlo...

 

“Ti odio con tutto il cuore e con tutta l’anima.

Dovevi morire, dovevi veramente morire.”

 

Dovevi morire, dovevi veramente morire.

 

Dovevi veramente morire.

 

Morire.

 

La parole di William gli rimbombavano in testa, senza lasciargli pace. Edward chiuse gli occhi, cercando di scacciarle. Poi, con forza di volontà, si raddrizzò, inalando un profondo respiro.

E fu in quell’attimo che accadde.

L’aria gli corse nel petto, come una fiammata, senza giungere ai polmoni. Le gambe gli cedettero, senza preavviso.

Con occhi sbarrati di terrore riconobbe quelle sensazioni. E provò il desiderio di gridare, tanto forte da far crollare il cielo.

Respirò ancora, inutilmente, posando le mani a terra. E gli parve di sentire una porta sbattere. Rantolò, senza sapere chi fosse arrivato, per cosa chiedere aiuto. Non riusciva a respirare, non c’era altro da aggiungere.

Forse, dopotutto, i desideri di William si sarebbero realizzati. Ed Edward sarebbe morto, come avrebbe dovuto allora.

Gli venne da ridere. E i polmoni sembrarono sfondarsi nuovamente. Un attimo dopo, il sapore del sangue gli inondò le labbra sorridenti.

 

***

 

In ogni giorno della mia esistenza non è mai esistita luce che valesse piu' di Edward.

 

Non sono io che non capisco. Siete voi che non mi conoscete.

 

Aveva l’impressione di avere occhi vuoti, che il ghiaccio colasse dalle sue iridi dentro la testa.

Fissò Faith, contemplò l’ampia cupola dell’Hyperion. E discese lentamente i gradini, cercando di restare diritto, saldo sulle proprie gambe.

Faith tentò di alzarsi, questa volta, per raggiungerlo. Ma Wes, prontamente, la respinse.

“No, parlagli.” - mormorò, quando la sentì irrigidirsi - “Ma non ti muovere.”

 

“Ha ragione.”

 

Alzarono gli occhi, entrambi troppo sorpresi per rispondergli.

E Spike camminò verso di loro. Opaco, spento.

 

Assente.

 

“Ha ragione, Faith.” - ripetè, aggiungendo il suo nome, in una forma di preghiera - “Hai perso sangue…”

Si interruppe, la sensazione di poter dire sono banalità, di non poter parlare la lingua se non a fatica, con indecisione. Li fissò, entrambi, piegando appena la testa, con quel gesto lievemente interrogativo che Wes e Faith riconobbero all’istante.

 

All’improvviso Spike sembrò smarrito, stranamente indifeso. Aveva pupille dilatate in un mare di azzurro troppo terso, la bocca arcuata, quasi priva di una vera emozione.

Solo. Incredibilmente solo.

E, se Faith non poteva alzarsi, non c’era motivo per non aiutarlo.

 

“Spike…” - Wes gli andò incontro, lentamente - “Vuoi sederti.. solo per un attimo…”

 

Westley Whindam Price.

Spike alzò lo sguardo verso di lui. L’osservatore aveva gli occhi come sempre pieni di preoccupazione ma privi di ombre.

Un uomo pulito, senza segreti realmente pericolosi, un uomo incapace di mentire o celare se questo si fosse rivelato scorretto.

Oh, si, pensò Spike, fissandolo.

Wes gli avrebbe parlato di Edward. Se non altro, per educazione.

 

Annuì, senza manifestare riconoscenza, senza fargli intendere di averlo riconosciuto del tutto. E si sedette sulla vecchia poltrona di velluto ormai consunta per le battaglie e le parole.

 

Quante parole… lasciò vagare lo sguardo nel grande ingresso, sostando su ogni più piccola modanatura, su ogni infinitesimale particolare. Poi la guardò.

 

Perché, dopotutto, era per lei che era tornato.

 

“Te lo avevo promesso.” - disse, semplicemente. E Wes li lasciò soli, sparendo in uno dei saloni.

 

***

 

Angel aveva abbandonato Doyle sulla porta dell’Hyperion. E non si era sentito in dovere di dire o spiegare perché non aveva spento il motore e non era corso in casa.

Ma a Doyle, non dubitava, non servivano spiegazioni.

Nemmeno vedendo la DeSoto di traverso in strada, aveva ritenuto di dover abbandonare la propria decisione. Non c’era motivo per piombare su Spike, tutti assieme, con tante parole superflue quanto la comprensione che potevano esercitare nei suoi confronti.

Aveva accelerato, tagliato le curve.

Aveva corso, come un pazzo, perché la distanza già breve divenisse nulla.

Correva da Edward. Sceglieva Edward.

E mai avrebbe potuto ammettere con se stesso come tutto, tutto ciò che pensava, che desiderava, che voleva, riconducesse a William.

Il suo William. Non quello di Edward, non quello di Dru. Solo il suo. Il vampiro con l’anima, il ragazzo disperato e indifeso che era andato a prendere a Sunnydale. Perché era suo, di nessun altro. E non esisteva qualcosa che non avrebbe fatto per lui.

 

Tutto, per William. Ma non bugie, non parole senza senso.

 

E, se Spike voleva solo Edward, allora Angel lo avrebbe preso e trascinato per i capelli!

 

Frenò nel cortile e volò su dalle rampe di scale, letteralmente, una mano sulla ringhiera, le gambe tese al massimo in una falcata quasi innaturale.

Percorse il corridoio ignorando l’odore del sangue che ancora vi aleggiava. Il sangue e le lacrime con cui i ragazzi Coventry avevano salutato il loro ritrovarsi. E spalancò la porta, appoggiandosi con il proprio peso.

 

E la porta cigolò, spalancandosi, sbattendo.

 

Sangue.

L’odore lo fece quasi piegare su se stesso, sconvolgendo.

 

Sangue.

 

Sangue.

 

William. il cuore fu più pronto dell’istinto. Sangue di William!

No, impossibile.

Sangue vivo, pulsante.

Sangue…

 

Dappertutto.

Angel ne fu quasi stordito, tanto da realizzare con un attimo di ritardo la realtà della scena a cui stava assistendo. Sangue di Edward, dappertutto.

 

Ed Edward stesso, al centro di quel mare, la mano ad artiglio sul petto.

 

[IX]

 

“Tu…” - Faith inspirò profondamente. E riprese - “Tu vuoi andartene…”

 

Nessuna risposta.

 

“Se, dopo tutto quello che è successo…” - mormorò, ancora, chinando la testa - “Vuoi andartene... allora non sprechiamo tempo in un addio. Vattene. E basta.”

 

Basta. Basta con questa vita, basta con questo amore. Basta.

Vattene e non farti mai più vedere.

 

“E non chiedermi se è questo che voglio.” - aggiunse, gli occhi arrabbiati e pieni di lacrime fissi sul pavimento - “Perché ne ho abbastanza dei giochetti di parole.”

“Basta giochi.” - replicò Spike, senza sfumature - “Basta.”

Inarcò la testa, posandola contro lo schienale. E chiuse gli occhi. Non gli importò di quelle due lacrime che sentì correre sulle guance, come non gli importò di quel silenzio.

 

Faith piangeva. Immobile, senza un suono.

Piangevano entrambi, lontani, incapaci di sfiorarsi con il proprio dolore, con il proprio amore.

 

“Spike…” - mormorò lei, mordendosi le labbra per non urlare - “Non ho più niente da perdere, a questo punto. E voglio dirti una cosa una sola cosa.

 

Non importa chi lo sapesse… non importa chi non abbia potuto dirtelo.

Ciò che importa, l’unica cosa… è che lui sia vivo.”

 

Spike non rispose. Ma aprì gli occhi, senza guardarla.

 

“Vivo.” - ripetè Faith, alzandosi, con lentezza. Un passo dietro l’altro, per avvicinarsi - “E’ finito il tempo della nostalgia, Spike. Finito.”

 

Il tempo della nostalgia… è finito.

 

LA, Giugno 2000

 

“Ti muovi?” - gridò ancora Faith, facendo rombare il motore - “Vampiro, sei diventato sordo o cosa?”

“Sono diventato scrupoloso.” - fu la risposta, salendo a cavalcioni della propria motocicletta - “E sordo lo sarò presto, se non smetti di fare quello che stai facendo.”

“Sei odioso.”

“Vero.” - Spike abbassò gli occhi, accarezzando il serbatoio. Gli occhi cambiarono sfumatura, divenendo grigi, uniformi. E Faith immaginò che, come gli succedeva talvolta, fosse volato lontano con la mente.

Ma non resistette al desiderio di impicciarsi.

“Dove sei, ora?” - lo provocò.

“Perché, non mi vedi?”- fu la risposta.

“Intendo con la mente.” - ribattè, con tono petulante -“Cosa stai pensando, vedendo o ricordando?”

Spike non rispose.

Sorrise solo, un po’ storto,  percorrendo ancora una volta il metallo freddo con la mano.

“Pensavo a quanto…” - iniziò. Poi si riscosse, con una scrollata di spalle - “Non ha importanza.”

“O forse è così importante che non sono degna di sentirlo.”

 

Le era sfuggito. Con irritazione. E Spike aveva alzato la testa di scatto, guardandola, sorpreso.

E, per la prima volta, in difficoltà.

 

“Faith, io non…” - si fermò. E tornò all’abituale tono strafottente - “Non dire sciocchezze! E non prenderla sul personale.”

“Allora dimmela e non pensiamoci più.” - adesso non si trattava più di una questione di curiosità. Era orgoglio, considerazione. Era ora che Spike la notasse, al posto che passare tanto tempo con lei e basta!

“Va bene.”

 

Come prego?

 

“Cosa?”

“Va bene.” - Spike annuì, guardandola, serio. - “Ti dirò cosa stavo pensando.”

“Ok… Allora ti ascolto.”

“Pensavo a Edward.” - replicò. Soffiato, deciso, per levarsi il pensiero - “Questo secolo gli sarebbe potuto piacere. Ha molte delle doti che mio fratello apprezzava.”

 

Adesso era il momento dell’imbarazzo. Fissandosi, in silenzio.

 

“non volevo impicciarmi.” - borbottò Faith, cercando di scusarsi.

“Hai fatto bene.” - rispose il vampiro, prima di sparire dentro al casco, con la solita incurante ironia - “Non mi spiace, ogni tanto, parlarne ancora. Dopotutto, era mio fratello. Avrei voluto fargli vedere la mia moto.”

 

Non era mai stata una grande oratrice. Né ora né allora. E non si illudeva che le parole adesso scaturissero come da una fonte infinita. Forse, a dirla tutta, non era nemmeno una grande pensatrice…. Ma nella sua missione non aveva poi molta importanza.

Non aveva le capacità di Wes di intuire o spiegare. E nemmeno quelle di Doyle di comprendere, di Cordelia di semplificare e con Angel… con Angel non cercava nemmeno di competere.

 

Ma era comunque Faith. Apparteneva a Spike, in tutto e per tutto. Spike le apparteneva, fino in fondo. E non gli avrebbe mai permesso di dimenticare chi fosse.. o chi fossero loro assieme.

Si fermò, salda sulle proprie gambe e con la certezza di non poter compiere ancora un passo senza crollare. e allungò una mano, afferrandogli il mento, con decisione, obbligandolo a guardarla, sentendolo docile, sotto la sua presa.

“Per piacere.” - aggiunse - “non farlo per William. hai ragione quando dici che quella parte di te è morta. Ma fallo per Spike, per ciò che sei ora. Perché Spike, il vampiro che amo, ha sempre avuto un fratello di nome Edward.”

 

***

 

“Gente…” - salutò Doyle, entrando in cucina dalla porta secondaria - “Come va?”

Cordelia non ebbe esitazioni. Lo lasciò sedere e lo picchiò con lo strofinaccio.

“Ma che ho fatto, adesso!”

“Cosa pensi di aver fatto! Ciao gente… ciao gente! Sei di ritorno da un pub, per caso?”

“No. Da una festa.” - aveva occhiaie profonde e orripilanti. Tagli, abrasioni, sigaretta in bocca ed espressione da postumi. Era credibile - “E tu? Come va qui?”

“Vuoi sapere di Faith?” - gelida.

“No. Parla con Spike nell’ingresso. È persino in piedi.” - rispose, svagato. Niente sembrava sorprenderlo. Qualcuno gli stava porgendo un bicchiere di succo d’arancia - “Per questo sono passato da qui. Ciao, Methos… Wes…”

L’osservatore era in piedi, la testa rivolta verso il corridoio, in attesa. Ma, al saluto, si voltò e si sedette al tavolo.

“Il riunirsi del sangue, vero?” - disse, grondando sarcasmo.

E Doyle, si strozzò.

“Una cosa alla volta.” - commentò Methos, incrociando le braccia - “E, al momento, per quanto incredibile, dobbiamo occuparci del suo cervello prima che si frigga del tutto.”

“Sto bene.”

“Starai bene se noi decideremo che è così.” - rispose l’immortale, restando in piedi e camminando con calma attorno al tavolo - “ricominciamo da principio. Una visione, quella di stamattina. Quante volte si è ripetuta.”

“Io non…”

“Quante.”

“Ho perso il conto.” - ammise, abbassando gli occhi - “Due volte, prima che si realizzasse. E due… tre, forse, dopo.”

“continui a rivedere la stessa scena?”

“sembrerebbe.”

“Oppure…” - Wes alzò lo sguardo e fissò il demone.

“oppure…” - incalzò Cordelia.

“Oppure la risposta è più semplice.” - concluse Wes, riflettendo.

 

E il telefono, facendoli sobbalzare, cominciò a squillare.

 

***

 

Spike non rispose. Non con le parole.

Si alzò con lentezza e, con lo stesso ipnotico movimento, l’abbracciò. Si aggrappò a lei, con una disperazione che sapeva di poter condividere.

 

Faith non aveva avuto ruolo in quella tragedia. Eppure ne era rimasta vittima, nel cuore, nel corpo.

Senza scusanti. Eppure non aveva mai smesso di agire, senza perdere energie in una reale difesa di se stessa.

Spike non aveva auto parola nel gioco delle decisioni. Il suo cuore, spezzandosi, aveva coperto ogni altro pensiero, ogni altra possibile reazione che non fosse dolore.

E aveva distrutto tutto ciò che ancora non si era infranto.

 

“Non restare spezzato, Spike…” - aggiunse Faith, aggrappata a lui, il viso sul sangue, sulle lacrime, nell’odore della pelle e della furia - “E’ ancora un passo, possiamo.. possiamo andare avanti.”

 

Si allontanò, lo afferrò, il suo viso freddo tra le mani, le lacrime rosse sulla pelle. Rosse… per sempre rosse…

 

“Guarda indietro, se non  mi credi… “ - sussurrò, cercando di essere forte, decisa - “Non mi è mai importato di vedere un senso negli eventi ma… dio, Spike, guardati! Guarda! Angel, Darla, Buffy, Dawn, Tara, Anya… persino Cecily, William! La tua anima… non c’è stato giorno, in questi anni, in cui tu non sia andato avanti affrontando i tuoi fantasmi, risolvendo gli irrisolti della tua esistenza.”

 

Lo scrollò, con la poca forza che ancora aveva. Lo scrollò senza ottenere una singola parola dalle sue labbra.

 

“Ragiona, William! ragiona… abbiamo affrontato tutto, perché.. perché questo dovrebbe essere diverso. Perché questo.. non vuoi…”

“E’… tardi.”

 

Lo aveva pronunciato sottovoce, inudibile.

Spike alzò gli occhi verso di lei. Quegli occhi che mai, mai, aveva abbassato.

“E’ tardi, Faithy.” - sussurrò ancora, rauco - “Io… io ho fallito.”

 

Ho fallito. Con me stesso, con Angel, con Edward.

Ho fallito con ogni parola, con ogni gesto, ho fallito in tutto. Non ero pronto a questa battaglia, ho provato paura. Così tanta paura da non …

 

“Ho parlato con Edward.” - confessò. E le spalle tremarono, sotto le mani della Cacciatrice. Tremarono - “Io… io ho… avrei potuto ucciderlo.”

Singhiozzava. Singhiozzava senza un vero controllo, stravolto.

“Avrei potuto ucciderlo con un solo gesto, ero pronto a farlo.” - aggiunse, un tono sempre più profondo, urlato - “E, quando non sono stato in grado di farlo davvero, ho usato le parole, le parole, perché sapevo che, qualunque cosa avessi detto, Edward mi avrebbe creduto.”

 

Stava innanzi a me e voleva credere a tutto ciò che gli stavo dicendo.

Perché non sapeva chi fossi e si sforzava di capire.

Anche lui ha perso un fratello. E io.. io non sono William.

Sono il mostro. Il mostro di cui Will ha sempre avuto paura.

 

“E se non riuscissi, Edward? Se non fossi così?”

“Così? Così come…”

“Così civilizzato, così calmo, così… sincero come sembro. Se io fossi… se ci fosse in me qualcosa di sbagliato di .. buio…subito sotto la superficie…”

“Allora, in quel caso, dovresti fare una sola cosa…”

“Una?”

“Si. Limitati a ricordare che è dall’oscurità che si scorge la luce. E che nulla ti impedisce di inseguirla.”

 

Oh, Edward… ho attraversato il tempo con queste parole e questi ricordi.

Ed ora… ora, l’unica cosa che ho saputo fare… è stato trascinarti nel buio, con me.

 

***

 

Lo aveva sollevato di peso, rendendosi conto vagamente di non capire. Lo aveva gettato sul divano, ascoltando istintivamente il suo corpo.

Il cuore, il cervello… i polmoni…

Ma si, certo, i polmoni. Erano come contratti, compressi, come se qualcosa li avesse martoriati. E le mani di Edward, da sempre posate sulla ferita del dardo, si erano spostate, affondando nella carne, incidendo istericamente, scavando.

 

“Dimmi cosa succede.” - Angel lo aveva scosso, gli aveva afferrato il viso, cercato disperatamente un contato visivo, consapevolezza - “Edward, parla!”

nulla. E abbastanza da fargli prendere una decisione assurda.

 

“Sono io.” - disse soltanto, quando qualcuno gli rispose - “Devo parlare con Methos.”

La voce gli rispose, disturbata, irriconoscibile.

“Non mi importa.” - rispose  Angel. Qualunque sia la domanda, non mi importa - “Non perdere tempo, devo parlare con Methos.”

 

I miei spazi, i tuoi spazi. E io non so nulla di immortali. Sono il tuo settore, se non erro.

 

“Eroe…” - mormorò d’improvviso una voce serafica, dritta nel suo timpano.

“Sono a casa tua, con Edward.” - disse soltanto, allungandosi ancora verso l’immortale, quello stupido immortale pieno di poesia che non voleva più svegliarsi - “Cosa provoca emorragie in uno di voi?”

 

Methos rimase un attimo in silenzio, sbalordito.

 

Poi, sotto gli occhi di Wes, Cordy e Doyle, tornò padrone di se stesso. Strinse le palpebre, si irrigidì e sembrò che la sua pressione avesse un’escalation.

“Non ne ho la minima idea.” - ringhiò, arrancando tra le proprie infinite nozioni - “Ma trattandosi di lui, potrebbe essere una qualsiasi follia… sei certo che non abbia.. sei sicuro che…”

 

La rosa di opzioni che stava per ventilare, uno più folle dell’altra, conobbe un azzeramento.

 

Edward non ha fatto nulla.

Edward… Edward si sente morire.

 

Il tempo in queste ore si è solo riavvolto per lui. Indietro… indietro, fino ad allora.

E al dolore del lasciare William con una menzogna.

 

Istanbul, 1861

 

“Sei in casa?Edward?”

La reminiscenza rispose per lui. Il resto fu silenzio.

C’era un baule già chiuso nell’ingresso. E rumore di armadi sbattuti, poco oltre.

“Eddy?” - Methos si affacciò nella zona delle camere - “Che stai facendo?”

“Me ne vado.” - fu la risposta. Poi apparve anche l’interessato, già vestito per il viaggio - “torno in Inghilterra.”

“E cominci adesso a fare i bagagli? Ci tornerai… Ma non prima di un trentennio... o un cinquantennio.”

“no, Methos.” - una cassetta in legno venne chiusa con violenza e lanciata dentro una sacca sDrucita, con rabbia - “Adesso. Torno in Inghilterra adesso.”

“Ehi!” - lo afferrò per un gomito, mentre gli passava a fianco - “Sei impazzito?”

“No.” - Si divincolò, con gli occhi che mandavano lampi - “Sono tornato in me e sono pronto a comportarmi nel modo più giusto. Quindi torno a casa, da mio fratello.”

“scordatelo.”

Lo aveva inseguito. Edward sembrava impazzito, furibondo. Come se qualcosa lo stesse corrodendo e rendendo folle.

“No, Methos!” - urlò, fermandosi al centro dell’ingresso e voltandosi - “Non ti illudere che io stia a guardare.. che io …”

 

Si interruppe, ansimando. E si piegò, tossendo, posando le mani sulle ginocchia.

Methos non credeva ai suoi occhi. Le spalle di Edward erano scosse, tremavano. La tosse sembrava lacerarlo dall’interno.

Poi, con orrore, alcune gocce di sangue macchiarono il pavimento.

In un lampo gli fu a fianco. Lo sollevò, afferrandolo per il torace, senza incontrare resistenza. E il solo gesto gli riportò alla mente gli anni ormai dimenticati, lasciati alle spalle con sollievo e con un colpo di pistola.

“calmati.”- sibilò, obbligandolo a sedere, le spalle alla parete - “Non hai nulla ai polmoni, Edward. Calmati.”

“non posso calmarmi.” - ululò, singhiozzando. Il sangue gli segnava la bocca, il mento - “Voglio andare a casa, a casa, da mio fratello, perché ha bisogno di me, Methos! Ora!”

“perché ora!” - lo scosse. Non era capace di essere comprensivo a scatola chiusa. O capiva, o non si arrendeva ai sentimentalismi - “Edward, ora devi calmarti, per te stesso e per la mia salute mentale. Calmati e spiegami. Subito!”

“mio…” - ansimò. E la testa gli scivolò contro il suo torace - “Mio padre.”

Methos non gli chiese altro.

Non gli chiese come lo avesse scoperto, come fossero andate le cose.

La colonia inglese chiacchierava. Forse non di tutto ma, tra le frivolezze, ogni tanto potevi scorgere una frase vera. Si, doveva essere andata così.

Si limitò a lasciarlo in pace. A lasciarlo piangere, tra parole sconnesse su William, sull’abbandono e sulla nostalgia, la sua prima nostalgia.

 

Non gli disse nulla. Non ci sarebbe stato nulla da dire che non fosse banale o razionale, nulla che non sarebbe suonato patetico o inutile.

La morte.. la morte era alla fine giunta davvero alla porta di casa Coventry. Ed Edward non era stato lì a sbarrarle il passo. E mai se lo sarebbe perdonato.

 

“Uccidilo.”

 

Doyle sussultò. Cordelia di coprì la bocca con entrambe le mani, per non urlare.

E Methos voltò le spalle ad entrambi. perché ci voleva fegato anche a dirlo… non solo a farlo.

 

“Hai capito giusto, Angel.” - ripetè, il gelo nella voce - “Prendi una spada. E piantagliela nel cuore.”

 

***

 

La baciò. La baciò senza pensare, senza smettere di piangere. E le mani di Faith, perennemente bollenti sulla sua pelle, divennero umide di quella disperazione.

“Non posso cambiare ciò che ho fatto.” - mormorò, cercandole la bocca, ancora. E ancora - “Io ho fallito…”

 

Era Edward. Ho negato fino all’ultimo che lo fosse, per dover ammettere con me stesso che.. che ero io a non essere più William.

 

“Tu puoi fare tutto, Spike.” - replicò Faith, stringendogli il viso, le dita sulle labbra - “Tu sei il vampiro dell’impossibile e…”

Esitò.

“Ed Edward ti vuole bene.”

Spike tentò di sciogliere l’abbraccio. Ma Faith lo trattenne, pronta, un fiotto innaturale e caldo sotto le bende .

“Edward non parla molto.” - aggiunse, rapidamente - “Ma il poco che dice… è unico.”

 

Unico.

Unico come le sue intuizioni.

 

Spike la guardò. E un sorriso, isterico e disperato, si mosse sui suoi lineamenti.

 

È sempre stato così. È la sua magia. È ancora in grado di compierla?

È ancora così… dopo.. dopo tutto questo…

 

“Ha sbagliato e lo sa.” - aggiunse, implacabile - “Lo sa. E sconta questo peso probabilmente dal giorno in cui ti ha lasciato. Ma mai... mai come ora… ha desiderato tornare indietro.”

Avrebbe voluto divincolarsi. E allontanarla. Ma non ne aveva più la forza.

No. Non aveva più la forza.

 

Mi arrendo. Si, mi arrendo.

 

“E non contano le parole che sto dicendo… perché tu queste cose già le sai. E io non dovrei sprecare tempo, mio o tuo… non dopo che voi Coventry siete riusciti a buttarne così tanto.” - cosa non darei per il tuo sorriso, William. Cosa non darei, ora - “Ma ormai credo che non abbia più importanza. Potreste avere l’eternità davanti, William. Per rimpiangervi e odiarvi… o per parlare.”

“Faith, smettila.”

“No, non credo che lo farò. Non sono capace di cedere, o essere razionale. E voglio che mi ascolti. Tu sei William. Sei il mio William e quello di Angel, ora. Ed è vero, non sei più il William di allora, nessuno di noi è tanto stupido da crederlo. È passato tanto tempo… anche per Edward…”

 

Tempo. Tempo senza di te.

 

Gli cancellò le lacrime con gesto pulito, deciso. E conclusivo.

“Ciò che esisterà per sempre, è l’amore che avete uno per l’altro.” - sussurrò, ancora. E gli sorrise - “E io credo che tu non sia pronto ad affrontare un’eternità senza tutta quella luce…”

 

***

 

Methos chiuse la chiamata. E allungò una mano verso la giacca, abbandonata come sempre in giro.

“Come avrete intuito, sono richiesto altrove.” - mormorò, nel silenzio innaturale - “Occupatevi delle visioni. Ci sentiamo.”

“Tutto qui?” - Cordelia si riscosse, sbarrandogli la strada - “Pensi di non dovere spiegazioni a nessuno?”

“Io non devo spiegazioni.” - rispose, mettendo il giaccone e guardandola - “Devo solo andare.”

“Vengo con te.”

“No, Cordy. Qui serve una persona calma.” - aveva imboccato il corridoio, inseguito dalla ragazza - “E quella sei tu. Spremi Doyle e trova la risposta semplice che vuole Wes. Poi parlatene a quei due, se potete.”

“Non è così facile.”

“Niente è facile.” - ribattè con filosofia. E, quando si fermò, obbligando cordy a frenare alle sue spalle, si sentì in dovere di aggiungere - “Non è facile nemmeno uscire da questo albergo… figuriamoci restare.”

 

Spike era fermo, innanzi a loro. E sbarrava il passo.

 

***

 

Uccidilo.

Sintetico e non travisabile.

Prendi una spada e piantagliela nel cuore.

 

Una sciocchezza, a vederla con occhio pratico. Non sarebbe morto.

E, sempre con approccio cinico, si poteva paragonare al riavvio di un computer.

Ucciderlo non avrebbe prolungato le sue sofferenze, avrebbe fatto guadagnare tempo e avrebbe riparato quel corpo impazzito.

Ma non era comunque facile.

 

Angel afferrò un’arma dalla panoplia, uno stiletto affilato, dall’impugnatura liscia e minimalista. Poi tornò al divano, inginocchiandosi.

Ed Edward aprì gli occhi, fissandolo. Occhi così trasparenti e simili a quelli di William da provocargli un brivido.

Lo fissò, senza paura. Non ne aveva mai avuta, si sorprese a pensare Angel.

In quegli occhi non aveva mai visto paura. E, per quanto sapesse di non conoscerlo, Angel aveva la certezza di essere stato presente ad alcuni degli episodi più importanti e terrificanti della sua esistenza.

Lentamente torse il polso, posando la punta della lama sul suo torace.

Edward non parlava. E soffriva. Non si poteva dire quanto fosse presente… ma i suoi occhi avevano seguito l’arma, prima di chiudersi.

E di riaprirsi.

“Stai rendendolo più difficile.” - mormorò il vampiro.

 

Chiudi gli occhi.

 

Il solo pensiero di poterlo dire gli provocò un brivido. Si, sarebbe stato più semplice. Ma non sarebbe stato giusto. Lentamente, verticalizzò l’arma, fissandolo dritto in viso.

“Guardami.”

L’essere sveglio non mutava la situazione. Edward stava soffrendo, il suo corpo continuava ad essere percorso dalle ondate di dolore. E il sangue era rosso, vivo, al lato della bocca.

Andava fatto. Subito.

“Edward.” - disse, con un tono senza sfumature - “Guardami.”

E l’immortale ubbidì. Le lunghe ciglia si mossero, gli occhi divennero vividi, ben aperti, dritti nei suoi. E si riempirono di quella sfumatura calcedonio che talvolta invadeva quelli di Wiliam.

Lo sguardo tenace, carico della forza sconfinata di un guerriero.

 

Angel sostenne l’occhiata, la mano stretta al pugnale, irrigidito dalla tensione. E pensò che mai nulla, al mondo, sotto quel cielo, avrebbe potuto eguagliare l’assurda passione dei ragazzi Coventry per la vita.

 

Perché solo Edward, come William, portava negli occhi il segreto dell’immortalità guardando in viso la morte.

 

Poi Edward annuì. E la lama penetrò, fino all’elsa, con suono raschiante.

 

***

 

“Spike, con tutto rispetto…” - mormorò Methos, infilando le mani in tasca - “Non è il momento.”

“No, Doc.” - il vampiro scosse la testa, lasciando ben intendere l’assoluta impossibilità a cedere - “Io credo proprio che sia il momento di scambiare quattro chiacchiere.”

 

Methos si trattenne dallo sbuffare. E dal prenderlo a schiaffi.

Provava pena per quel vampiro, quell’essere elegante e strafottente ora ridotto in maniera tanto patetica. Con il suo senso pratico per la vita e la sopravivenza, riteneva tutto quel dolore, ad essere onesti, per quanto comprensibile, assolutamente inutile.

Risolvibile ignorando il problema e andando a vanti. Oppure affrontandolo di muso.

Non accettabili le situazioni a metà strada: morsi, pianti, ripicche e follia allo stato puro.

E i traumi che Edward non aveva saputo superare in centocinquanta anni.

 

La reazione più logica sarebbe stata alzare gli occhi al cielo.

Ma Methos, se il caso lo richiedeva, sapeva anche essere più brillante.

Fissò Faith, alle spalle di Spike. Era pallida, ma risoluta. E la Cacciatrice gli fece un cenno, controllato.

 

Parlagli. Qualunque cosa sia… parlagli.

Dobbiamo uscire da questa storia, in un modo o nell’altro.

E, essendo Angel chissà dove.. qualcuno dovrà occuparsene, non credi?

 

Methos non commentò quell’ordine silenzioso. Ma lo accettò, come un buon consiglio. Dopotutto, Faith non mancava di prontezza decisionale e capacità di tralasciare le sciocchezze metafisiche e i sentimentalismi.

“Cordelia…” - mormorò, dunque - “Perché non aiuti la Cacciatrice prima che frani per terra?”

la bocca di Faith si piegò in un sorrisetto divertito. E Cordelia potè avvicinarsi senza essere sbranata.

 

E bravo Methuselah… fiducioso e doppiogiochista al tuo meglio.

 

“Sai, Spike… hai ragione.” - commentò Methos, annuendo e continuando la propria farsa - “E’ ora che qualcuno provi ad avere una conversazione intelligente con te.”

Suo malgrado, Spike, sorrise.

“E quello…” - sputò, perfido - “saresti tu?”

“Indubbiamente.” - gli indicò il salone, alle loro spalle - “Dopo di te…William…”

 

***

 

Ma tu non c’eri. Eri un’assenza, già quando era vivo.

Eri la parte mancante di lui, il vuoto che si aggiunge a quello cosmico,

quello degli artisti e dei poeti.

E l’abbiamo trovato noi, seduto, in quel viottolo…

 

Noi… noi chi, Angel? Noi salvatori o noi assassini? Chi ha trovato chi, dopotutto…

 

“Non lo so.” - replico Angel, quietamente - “Non ho mai smesso di chiedermelo.”

 

Ho la mente piena di quesiti, quando si tratta di William. Ma non mi importa. L’importante... l’importante è che io possa avere le risposte alle sue domande.

Perchè mi ha chiesto tutto, fin dalla prima volta. E non gli è mai bastato.

 

E anche adesso, tutto ciò che ha non è abbastanza. Nulla è mai abbastanza per William Coventry...

 

Aveva tirato le tende, gettato l’appartamento di Methos in una innaturale oscurità, celandolo alle luci della strada, accendendo il minimo indispensabile e abituando gli occhi all’oscurità nero pece. Preferendo il buio, come sempre, per riflettere.

La luce della piantana, bianca e innaturale, gettava ombre oblique sui mobili, su di loro, nel silenzio. Edward era ancor steso sul divano, dove Angel lo aveva trascinato. E ucciso.

 

Un colpo era bastato. Uno solo, seguito da un respiro più profondo, quasi di liberazione. Poi il nulla, un nulla che Angel aveva recepito come assurdo e insopportabile.

Il nulla che segue il divenire cenere, il paletto che penetra fulmineo.

Avrebbe potuto ucciderlo in tanti modi ma questo, così naturale come scelta, gli sembrava ora l’unico simbolicamente accettabile.

Accettabile per uno come Edward che non aveva mai smesso di provare male al cuore per una freccia estratta da tempo. Adatto alle mani di un vampiro, incapace di concepire per se stesso morte più banale.

 

Poi il cuore aveva battuto, all’improvviso, nel silenzio.

Ed Angel lo aveva ascoltato senza associarlo ad una forma di sollievo.

Lo aveva solo sentito tornare, improvviso, senza il crescere della marea. Dove non era stato ed ora c’era. E il petto si sollevava aritmico come quel suono.

 

Una questione meccanica che solo meccanica non era. Certo, il cuore batteva, ma i pensieri? I ricordi, la certezza e l'incertezza, l'ambizione e la speranza... dov'erano? Tornavano come un'ondata dentro ogni cellula? Oppure, intrappolati e avvizziti senza ossigeno attendevano solo il risveglio?

 

E l'anima l'anima di un immortale... cosa faceva negli attimi del nulla?

 

Avrebbe preferito non porsi tante domande. Avrebbe preferito non pensare.

Ma era stanco, troppo stanco per fare altro che sprofondare nellla poltrona, le mani strette ai braccioli, il collo dolorante contro lo schienale.

“Fai in fretta, Eddy.” - mormorò soltanto, chiudendo gli occhi - “Abbiamo da fare...”

“Ti sbagli.” - replicò l'immortale, in un sussurro, provocandogli un sussulto - “Non c'è nulla... più nulla...”

 

Non c'è più nulla da fare... se non andarsene.

 

***

 

Methos non si riteneva un uomo particolarmente intelligente per natura o per genetica. Ma trovava che non si potesse discutere su quanto possano contare cinquemila anni di evoluzione su un unico organismo.

Per tanto, quando Spike gli si era parato di fronte con tanta belligeranza, Methos sarebbe stato propenso a comportarsi nel modo più intelligente e sofisticato mai ideato dal creato: menefreghismo.

 

Ignora l'insetto. Subito. E se dalla tua azione si creerà un tornado.... scappa.

 

Si, niente di cui discutere. Peccato che il fu William Coventry, in arte Spike, non fosse pronto ad accettare tanta scarsa considerazione e, per tanto, del tutto deciso a continuare a  disturbarlo. E disturbarlo. E disturbarlo.

 

Pazienza, avrebbe trovato pane per i suoi denti.

 

“Allora, Spike.” - esordì dunque l'immortale, lasciandosi andare su uno dei divanetti del salone e incrociando le braccia - “Come posso esserti utile?”

La risposta che seguì fu la testa di Methos che sbatteva sul pavimento. E  Spike a cavalcioni del suo stomaco.

 

Cinquemila anni di evoluzione polverizzati da un vampiro ossigenato. Confusamente, Methos si rallegrò che non ci fossero testimoni allo scempio.

 

“Lo hai ammazzato, vero?” - sibilò il vampiro, tenendolo stretto per il collo del maglione - “Non si vince l'immortalità assieme alla tisi. Sei stato tu...”

 

Sei stato tu, quella sera. Era con te. Con te... e non è mai più tornato.

 

“Come, Doc? Gli hai tagliato la gola, lo hai buttato da un terrazzo.... magari veleno, oppure... oppure lo hai colpito alle spalle, da vigliacco quale sei.”

 

Non c’erano che un paio di metri, tra loro.

Adesso gli stava alle spalle.

Vicino.

 

…la mano ancora contro il muro…

… gli occhi socchiusi, la testa indietro, in attesa di una risposta dal creato…

 

“Edward.” - lo chiamo' e attese si girasse, l’espressione interrogativa, nel riconoscere il timbro della voce.

Poi fece fuoco.

 

Non rispose. E Spike strinse più forte. Lo scosse, perchè battesse di nuovo la testa. Methos urlò, stringendo le palpebre e, subito dopo, ad occhi ben aperti, lo fissò dritto in faccia. E con una tale espressione che Spike esitò.

 

Non era odio. Era disprezzo.

 

Come negli occhi di Edward. Ancora disprezzo.

 

“A differenza di te preferisco saperlo in giro per il mondo che sotto tre metri di terra.” - rispose l'immortale, come se nulla lo stesse sconvolgendo. Si era morso le labbra, nella sorpresa della colluttazione. Ed ora sputò, deciso. Sangue e rabbia, sui bei lineamenti mutati - “E poi, Spikey, ti vedo confuso... lo vendichi? Non lo volevi morto?”

Spike non rispose, cercando di schiarirsi le idee. Ma la mano strinse più forte e, questa volta, premendo sulla gola.

“Ti è piaciuto il suo sangue?” - rantolò Methos, deciso a non cedere inarcando la testa in cerca di aria - “Dicono che sia un'ottima annata... c'è chi pagherebbe un patrimonio per averlo... in questo e nell'altro mondo...”

lo fissò sbattere le palpebre, sembrare perplesso. Doveva essere davvero stravolto per lasciarsi disorientare in quella maniera, con un semplice giochetto sofista. E Methos non ritenne di dover usare misericordia a un tale spostato, visto che si presentava l'occasione di castigarlo.

Contrasse i muscoli, rapido, e, con un colpo di gambe che avrebbe fatto invidia a molti combattenti ben più allenati, fece volare Spike oltre la testa. E, ancora più fulmineo, voltandosi, gli bloccò il collo sotto al ginocchio.

“Ripartiamo da capo.” - sospirò, lasciando che altro sangue gli cadesse dalla bocca al viso del vampiro. Un paletto gli era apparso in mano e già carezzava il torace - “Cosa vuoi? Vuoi vendicarlo? Io l'ho salvato, William... non l'ho ucciso. Ragiona. Io non sono Angelus, non ho distrutto nulla in cambio della vita eterna. Lui non ha perso l'anima...”

 

“Ti sono sempre piaciuti i ragazzi puri, vero Doc?

Ragazzi brillanti... con troppo senso dell’onore…”

 

Ho provato con ogni mezzo del suo, del vostro mondo. Ho provato fino allo sfinimento.

Ma non avevo altro, se non la mia natura aliena perchè sopravvivesse.

 

Alla fine, mi sono arreso. Arreso.

E ancora oggi non mi pento e non mi rallegro, credimi. Credimi.

 

Cosa vuoi da me?

Altri ricordi che ti fanno male?

Oppure vuoi la certezza che Edward viva ancora nel mio cuore?

Hai veramente ancora cosi' paura del tempo, William?

 

“Cosa vuoi...” - ripetè, tirando su con il naso per fermare l'emorragia e premendo ancora con la punta di legno sopra al suo petto - “O parliamo o non parliamo. Scegli con molta attenzione...”

Spike non stava opponendo resistenza. Immobile, a terra, le braccia distese ai fianchi, guardava Methos come se non comprendesse realmente le sue parole. Aveva deciso di attaccarlo senza una chiara motivazione, rispondendo a un istinto che non riusciva a controllare ormai da parecchie ore.

Quando l'immortale si era lasciato cadere con quella negligenza sul divano, Spike non aveva più ragionato. Lo aveva visto compiere quel movimento migliaia di volte nel presente e nel passato e, sia prima che dopo, Methos gli aveva nascosto qualcosa di Edward. Ed Edward stesso.

Per ogni parola, battuta, risata... per ogni battaglia condivisa, Methos aveva serbato per sé un segreto di portata enorme senza preoccupazione per nessuno.

E, a differenza di Angel, Faith, Doyle, così difficili da odiare, il cervello di Spike poteva accettare l'idea di condannare Methos.

 

Perchè Methos, dopotutto, lo aveva condannato a una sofferenza gratuita come il peggiore dei mostri. E lo aveva fatto per disinteresse.

 

“Dovevi dirmelo.” - mormorò soltanto.

Methos, dopo un attimo di sorpresa, ridacchiò. E si rialzò, lasciandolo libero.

“Oh, allora è questo.” - lo sbeffeggiò, dandogli le spalle e sedendosi sul posto occupato solo per breve tempo - “La ripicca capricciosa... e io che credevo...”

Non finì la frase. Cambiò solo espressione, indurendosi, come se avesse ricordato qualcosa di molto importante. E si pulì il mento e la bocca con il dorso della mano.

 

“Finiscila, Will.” - disse, con freddezza, arrogandosi il diritto di quel nomignolo perso nel tempo - “Parla chiaro, mi stai facendo perdere tempo prezioso.”

 

Sei qui, a piangerti addosso, mentre tuo fratello si lascia morire di dolore.

E, se lo conosco, sta combattendo anche ora, per la cosa più giusta da farsi.

 

“Tu sapevi chi ero.” - ripetè Spike, ignorando la frase e voltando la testa per vederlo, la guancia al pavimento - “Non ti sarebbe costato nulla.”

“Non era affar mio.”

“Se tieni così tanto a mio fratello, lo è.”

“Io tengo a lui molto più di quanto tenga a te. E, infatti, a lui ho detto la verità.” - rispose, schietto, accavallando le gambe. Gli ho detto cosa fare, ora come allora... e in entrambi i casi avrei dovuto farmi gli affari miei - “Ma non potevo interferire con la sua decisione.”

“Certo...”

“Non usare quel tono, Spike. Non sei migliore di nessuno di noi. Abbiamo taciuto? Abbiamo mentito? Abbiamo nascosto? Si, lo abbiamo fatto. Ma io credo che tu ti sia macchiato di una colpa tale e quale la nostra: non hai voluto vedere.”

 

Sapevamo del dolore che ti avremmo provocato.

Sapevamo a cosa andavamo incontro.

Sapevamo che avremmo dovuto evitarlo.

 

Non ci siamo riusciti.

 

Siamo colpevoli.

 

“Colpevoli. Ma tu, dall'attimo in cui hai riavuto tuo fratello, non hai saputo dirgli la verità, come noi.” - aggiunse, con calma. Cinquemila anni di evoluzione, abbastanza per poter sussurrare giudizi senza tradire emozione - “Hai deciso di non riconoscerlo, hai cercato di ucciderlo e, per come stanno adesso le cose, non dubito che tu gli abbia vomitato addosso tanto odio da riempire ben più di una vita. Dovevi farlo per forza? No. E chi lo ha fatto di voi... il fratello abbandonato o il demone furioso?”

 

Cosa hai scelto per fargli più male? Occhi oro oppure occhi azzurri?

 

Spike era in silenzio. E Methos non si illudeva. Non avrebbe mai risposto.

 

“Si è fatto tardi, Spike. E io devo andare.” - aggiunse, come se non ci fosse nulla in sospeso. Si alzò, aggiustando l'impermeabile e sovrastandolo, senza pietà - “Toglimi solo  una curiosità... Volevi fargli del male davvero? Oppure volevi solo che comprendesse la realtà dei fatti che non avevi il coraggio di confessare?”

 

Innanzi al silenzio, gli sorrise. Ma con tristezza, tristezza per quel volto di demone con gli occhi pieni di lacrime.

 

“Chi è il vigliacco tra noi due?”

 

Non ti abbiamo spezzato noi con il nostro tradimento, Will. Lo sappiamo entrambi. È stata la vita, oltre un secolo fa. Ma solo ora il dolore giunge... solo ora...

 

Una stella si disintegra e si spegne, la luce sopravvive per milioni di anni e poi, infine... scompare.

Ed è devastante, come solo il tempo sa essere.

 

“Hai sbagliato in entrambi i casi, ragazzino. Dovevi dire la verità.” - aggiunse, con dolore e senza pietà - “Dovevi dirgli che non hai mai smesso di aver paura di perderlo. ”

 

***

 

“Devo solo andarmene.” - sussurrò Edward, pountellandosi ai gomiti e poi sedendosi. Era pallido e gli occhi sembravano pietre dure troppo colorate - “non sarei mai dovuto tornare...”

“Edward.” - Angel si alzò, con movimento liquido. E, con una spinta gentile, lo obbligò a restare seduto, inginocchiandosi di fronte. Come, si rese conto, come mille volte innazi a Spike, per farlo ragionare - “Non ricominciamo...”

l'immortale lo fissò, in silenzio. E Angel gli sembrò calmo e forte.

 

William deve sentirsi al sicuro... molto più di quanto non lo abbia mai fatto sentire io.

 

“Respira, con lentezza.” - sussurrò il vampiro. I polmoni di Edward si stavano contraendo di nuovo, senza motivo - “Sai perchè ti stia succedendo?”

Edward annuì.

“E' il monito del destino.” - rispose soltanto, sottovoce - “la morte mi attendeva. E non è riuscita a prendermi...”

 

dovevo morire.

Ma qualcosa è cambiato.

 

Ed ora, per la prima volta, ho paura di questo futuro scritto da una mano che non fosse divina.

 

“Methos mi ha ucciso prima che morissi di morte naturale.” - aggiunse, passandosi la mano sul petto. Chissà se la cicatrice del pugnale di Angel sarebbe rimasta... - “Ma il corpo non dimentica... ne abbiamo già parlato...”

“Già.” - Angel annuì, senza muoversi. Aveva occhi scuri, pieni di comprensione - “Il corpo non dimentica nulla...”

 

William ricorda il tuo profumo, le tue braccia, il tuo sorriso.

E il tuo sangue, sulla sua bocca, è il peggiore dei dolori e dei peccati.

 

“Non andartene, Edward.” - aggiunse, guardandolo, la testa inarcata per vederlo in viso - “Se te ne vai ora, non potrai più tornare indietro. Non farlo.”

“Non si torna mai indietro.”

“Lo so. Ma si può andare avanti in molte maniere. Non scegliere questa, non porta da nessuna parte.”

“Ti sbagli.” - gli posò una mano sulla spalla, fissandolo drittto negli occhi. E si alzò, senza barcollare - “Questa è la strada che ho scritto molto tempo fa.”

Abbassò gli occhi. Attese. Ma Angel non si mosse.

Ancora inginocchiato, ancora in attesa. Si lasciava sovrastare, senza sentirsi tuttavia debole

“La mia colpa non è stata riuscire a ingannare la morte... ma mentire a mio fratello.” - disse, la voce in un tremito difficile da arginare - “questo è il destino che ho scritto. E non posso cambiarlo.”

 

Non posso tornare indietro.

Forse non so nemeno andare avanti.

 

E William ha ragione. Io so solo fuggire.

 

***

 

“Doyle, io vorrei che tu ragionassi con me.” - sospirò Wes, stranamente paternalista - “Posso capire le tue motivazioni ma so come tu comprenda benissimo il mio punto di vista.”

“Nostro.” - corresse cordelia, con decisione - “Nostro.”

“Si, nostro.” - Faith annuì, dando un'ennesima strofinata alla fasciatura. Bende, quanto prudere - “sei un cretino, insomma.”

“Oh, grazie!” - Doyle la indicò, fissando poi i due diplomatici esseri - “Finalmente uno di voi lo ha detto! Ora si che sono sollevato!”

“Doyle! Ma ti decidi a collaborare?” cordelia inziava ad essere esasperata. E la voce le tremava di rabbia - “Tu continui a scherzare ma io... io sto morendo di paura!”

 

che ammissione. La fissarono, straniti. Cordelia non era tipo da svelare le proprie paure, non in quel modo e, soprattutto, non nei loro confronti.

Cordelia sapeva preoccuparsi di tante cose, dal bucato alla contabilità, dalle suture ai dissanguamenti. Ma era raro che scatenasse la propria angoscia, troppo avvezza alle ferite e ai massaccri per non sapere che nella vita ottimismo e fortuna vanno di pari passo.

Se ora rinunciava alla calma e al raziocinio per cedere alla tensione, poteva solo significare che era del tutto fuori di sé. Oppure, intuì Wes, guardandola, come talvolta le succede, con un brutto presentimento.

“Cordelia, cosa senti?” - domandò, ignorando sia il demone che la cacciatrice, tornando indietro con la mente a qualcosa di antico e ormai dimenticato.

 

Le visioni.

 

Cordelia aveva avuto le visioni, per molto tempo. Aveva sofferto all'infinito per quel peso ma lo aveva portato senza mai cedere. E, quando lo aveva restituito, volente o nolente, aveva serbato per sé solo una sensibilità maggiore a quella di cui già naturalmente era dotata.

Sensibilità di cui non aveva mai fatto parola esplicitamente, ma che Wes aveva sempre ritenuto unica e importante in un' accezione ben diversa da ogni altro abitante dell'Hiperyon. Non era la sua più grande dote, ma era un dono, un dono che cordelia sapeva di possedere.

 

“A cosa ti riferisci?” - domandò Doyle, sospettoso. E lo sguardo di Cordy passò da Wes a lui.

“Nulla.” mentì, prontamente - “Una sciocchezza.”

“No, non lo è.” - Doyle strinse gli occhi e, dopo un istante, le sue pupille si dilatarono - “Non me lo hai mai detto...”

“Oh, certo!” - eccola. Cordelia Chase attacca per non essere attaccata - “Adesso avevi bisogno che te lo dicessi!”

“Ma si può sapere di cosa state parlando?”

“Effetto residuo.” - rispose Doyle, automaticamente. E Wes si manifestò subito interessato.

“Ah, si dice così?”

“Si dice così cosa!” - doveva aver urlato, i punti tiravano. Ci posò una mano sopra e sibilò ancora - “Di che state parlando?”

“Ipersensibilità. Cordelia è ipersensibile.”

“Bhe, certo. È schifosamente femmina, di che vi stupite?”

“Non in quel senso, Faith. Nel senso che è sensibile al futuro. Non ha le visioni ma...” - Doyle mosse le mani, cercando di spiegarsi - “Ma sente se qualcosa sta per accadere.... e perchè io non lo sapevo?”

“Doyle, non credo che... insomma...”

“Ah.” - la voce di Faith sovrastò le due maschili in overture di discussione. Ed era una risposta che grondava sarcasmo - “E lo fa da molto oppure è una novità di oggi?”

 

Intanto è stata una giornata così piatta, noiosa...

 

“Lo faccio spesso.” - tagliò corto cordelia. Faith aveva ragione, ad aspettare le spiegazioni di uno studioso e un casinista non sarebbe mai approdata a nulla - “Ascoltami, te lo spiego io in quattro parole. Le visioni di Doyle mi hanno reso un poco più percettiva del necessario. Dapprima non ci ho badato  molto ma, negli ultimi mesi, si è accentuato e ne ho parlato con Wes, per puro caso. Tutto qui.”

“Tutto qui? Sei così ed è tutto qui? Angel lo sa?”

“Angel  ha avuto altro a cui pensare.”

“Angel pensa sempre, tu dovevi infilarti a forza tra le sue seghe mentali!” - Faith era così stufa da non sentirsi riguardosa verso nessuno - “Quindi, con questa tua nuova dote cosa sai che nessuno  sa?”

“So...” - Cordelia si morse le labbra. E, all'improvviso, sembrò troppo pallida - “So che sta per accadere qualcosa di grosso. E ho paura.”

 

Spostò lo sguardo, mentre una consapevolezza atroce le mutava i lineamenti.

 

“Se io posso sentirlo... sei io sto nuovamente cambiando, se Doyle continua a rivedere la stessa scena e Spike...” - si morse il labbro, rendendolo vivido - “Stiamo giocano con il fuoco, Faith, non si tratta solo di Edward. Sei d'accordo con me?”

 

Faith era senza parole. Per la prima volta, per la prima volta in tuttto il giorno, Cordelia stava finalmente dando un senso alla confusione e alla sofferenza.

E non mentiva. Si, Faith poteva sentirlo. La posta in gioco si stava progressivamente alzando, lo aveva fatto per mesi, attraverso  ogni singolo passaggio, attraverso ogni singola avventura.

D'improvviso le sembrò di poter intravvedere qualcosa, uno schema, un filo dipanato che si attorcigliava attorno a piccoli e grandi episodi: dalla morte di Buffy, scivolando per le sue crisi, per il Consiglio, attraverso Methos, nel ritorno di Drusilla, nella fuga di Spike in Inghilterra e nel dramma del loro amore sbocciato nel sangue, fino a  giungere ad Edward.

 

Si, Edward.

Edward, emerso dal passato.

 

No, è amore, solo amore per il proprio fratello.

No, è destino.

 

“Non so cosa sia.” - sussurrò, in risposta a se stessa e a tutti loro, dopo un'interminabile silenzio - “Ma è vero. Accadrà ancora qualcosa.”

“Ne sei sicura?” - domandò Wes, scivolando in quella conversazione criptica come la lama di un coltello. La temperatura era scesa, aveva freddo. Aveva paura, come se... come se fosse l'ultimo umano tra i prescelti.

 

Il testimone. La voce della conoscenza.

Non ci pensare, focalizza. Parla con Faith.

 

“Faith, Cordelia ha ragione?”

“Si, Wes.” - gli occhi scuri le brillarono, come le capitava solo in battaglia - “Non chiedermi perchè ma lo posso sentire. Cordelia ha ragione. C'è qualcosa.”

“Ed è nella mia visione...” - sospirò Doyle. Sembrava stranamente calmo e consapevole, lontano dal senso onirico provato dai suoi interlocutori. E Wes, con un attimo di sbalordimento, comprese che quella sensazione, quel senso assurdo e separato di percepire il reale in quel modo era per Doyle una seconda natura da sempre vigile.

 

È così che vedi il mondo.

È così che percepisci l'esistenza.

 

Noi siamo apprendisti nell'arte che tu respiri come aria.

 

“Non è ancora accaduta, Doyle. La visione.” - aggiunse Cordelia - “E' ancora nel futuro... non nel passato. Qualcuno sta confondendo le carte.”

 

Si, pensò Wes, un istante dopo, scattando.

Cordelia può sentirlo.

 

E Doyle lo sta vedendo. Ancora.

 

***

 

“Fermati.”

 

Non si sarebbe dovuto sentire in dovere di farlo. Ma si fermò ugualmente e si voltò. Spike si stava rialzando, con le sue sole forze. E il semplice comando con cui si era imposto era risuonato pacato, senza implorazione o durezza.

“Per favore.” - aggiunse, infatti, quasi a confermare l'impressione di Methos, il quale non era intenzionato ad aggiungere una parola prima di averne sentite parecchie.

 

E magari anche un quintilione di scuse, che non sarebbe stato nemmeno esagerato. Dopotutto, lo aveva fatto sanguinare... e lo aveva obbligato a fare sport.

Dannato sport.

 

“Io...” - Spike non era esitante. Era solo stranamente asettico, schiavo di un ennesimo e incontrollabile cambiamento di umore. E valutava le proprie parole con meticolosità - “Io credo che tu abbia parlato di una conversazione civile che avremmo potuto avere. Sei ancora disponibile?”

“Lo sono. Ma ci siamo giocati parecchio tempo in pugni.” - replicò, incrociando le braccia e rinunciando a  sedersi. E, soprattutto, ai giri di parole - “Sembra che a casa mia ci sia un problema e devo occuparmene.”

“Che problema.” - rispose, senza pensare. Di nuovo vigile, guardingo, le sopracciglia lievemente aggrottate. E poi, di nuopvo, la tensione feroce delel ultime ore - “Riguarda lui?”

“Se lui sta per 'mio fratello'... allora chiamalo con il suo nome.”

“Non giocare con me, Methos.”

“No, non giocare tu, moccioso!” - sbottò, deciso - “Ti illustro la situazione, poi mi dici che ne pensi: da stamattina, Edward è passato ininterrottamente dalla padella alla brace senza sosta. Vampiri, tu, Angel, Drusilla, ancora vampiri, ancora tu, ancora Drusilla e, a quanto sembra, di nuovo Angel. La vostra dannata stirpe plasmamaniaca lo sta tormentando senza sosta mentre tu, unico conforto e debolezza di lord Coventry, stai qui a frignare senza sosta. E quando non piagnucoli sembri uscito dal film Shining. Nel frattempo hanno cercato di ammazzare la tua fidanzata, il mio figliastro, il sottoscritto e, ultimo per molti ma non nel cuore dei bibliotecari del mondo, mister Whydam-Price. Tutto, sottolineo tutto, grazie a te, che sei un pazzo nevrotico senza né arte né parte. Ok?”

Allargò le mani, guardandolo.

“Sono stato chiaro?” - domandò, in maniera così convincente che Spike ebbe l'impressione di essere un dodicenne indisciplinato. E, soprattutto che, in altri frangenti, avrebbe saputo formulare un'identica esasperata arringa.

“Visto da qui, sei così. E, tu potessi vederti da questa angolazione, la tua ironia avrebbe di che scatenarsi.” - aggiunse, con petulanza, indicandolo - “Concludendo, non credo che mi interessi quanto sei disastrato lì dentro... sarebbe solo gradito che tu prendessi una decisione.”

 

Una. Una soltanto.

Prendi una decisione che abbia valore per te stesso.

 

Perchè se le profezie sono vere... se dobbiamo credere alle leggende...

il resto si compirà in ogni caso.

E i nostri desideri... i tuoi desideri, ragazzo mio... non avranno più nessun importanza.

 

Methos di morse un labbro, riflettendo. E il brivido salì, dolcemente, lungo la schiena, assieme alla rassegnazione.

 

Doyle ha ragione. Ora posso sentirlo.

 

E, se davvero è così... davvero è tutto ormai reale, bhe... allora mi tocca fare questo.

 

...

 

Quanto odio  i miei doveri...

 

Si raddrizzò, alzando la testa. E Spike sentì un brivido, tangibile, incontrollabile. Era l'eternità divenuta carne, era la storia della terra, degli uomini, del tempo passato diretto al futuro. Era tutto questo, in un guscio trasandato chiamato Methos. E mai prima, mai prima di allora, si era svelato in questa sua forma.

 

“Questo è il momento della tua scelta, libera e umana, uccisore delle cacciatrici, William il sanguinario, sangue  dei Coventry... Spike.” - e Spike suonò come un tuono, nel silenzio - “Combatti per ciò che ami, ora, scegli cme essere che ama, odia, soffre. Scegli. E non voltarti più indietro.”

 

Poi tacque. E lo squadrò, senza piegare la testa, senza sorridere, come se il messaggio appena portato travalicasse il tempo e l'emozione per divenire immediatamente pietra.

E Spike  respirò. Si, respirò, a fondo, come se aria giungesse ai suoi polmoni, come se la vita gli passasse nelle vene senza frenarsi per la morte, per la demonicità, per l'anima venduta all'inferno eppur tornata.

 

Si, sta per accadere qualcosa. E già si libra su di noi.

 

Ed ora, mormorò Doyle nella sua mente, ora che lo sappiamo, che conosciamo le regole del gioco... accadrà tutto più in fretta.

Ci è dato di conoscere i ruoli... e di cambiare le nostre azioni.

Questo ti sta chiedendo. Questo.

 

Ascolta l'Antico, William, sussurrò Angel, riempiendo la sua anima. Ascolta l'Antico e afferra la luce che ti è stata sottratta.

 

Cerca Edward.

Trova Edward.

Salva Edward.

 

E non voltarti mai più indietro.

 

“Mai più.” - aggiunse Faith, apparendogli, lattiginosa, evanescente, dietro le palpebre chiuse - “Perchè nel domani saremo per sempre intrecciati. E per sempre a cavallo di luce e ombra.”

 

“Tu lo senti.” - fece eco Methos - “Tu lo senti accadere. È come aria troppo fredda, è come un sorso di vita dalla coppa di dio.

 

È la reminiscenza, Spike.

È il dono del sangue di Edward.”

 

Cercalo.

Trovalo.

Salvalo.

 

E compi il tuo destino.

Compi il nostro.

 

Riunisci il sangue.

 

“Spike!”

 

Aprì gli occhi, in un sussulto. Ansimò, barcollando, mentre Methos si voltava. Ed ebbe l'impressione che la nebbia madreperla delle sue visoni si stesse ritraendo verso le pareti, negli angoli.

 

M-magia? Methos?

 

Methos che negava l'esistenza della magia ne teneva una scorta nascosta nelle tasche per momenti di crisi?

 

Avrebbe voluto riderne.

Ma la voce di donna, orripilata, stava ancora urlando.

 

“Spike!”

 

“E' Cordelia.” - mormorò Methos, correndo verso il corridoio. E Spike lo segu, senza pensare, lo vedi afferrare la ragazza per le braccia, piegarsi per vederla in viso.

“Sta accadendo.” - disse Cordy, singhiozzando. Le sanguinava il naso - “Sta accadendo ora.”

 

***

 

Aveva voltato le spalle a Angel aveva afferrato la propria spada e abbandonato tutto il resto.

Perchè il resto non contava.

Con le chiavi strette nella mano, aveva disceso le scale, correndo.

E si era fermato solo innanzi la propria moto, la testa china, le spalle al mondo reale, alle vite da cui si separava. E aveva chiuso gli occhi.

 

Bad day, amico mio. Bad day.

 

Si, Methos. È così. Lo sapevamo già da un pezzo... ma non siamo bravi a cercare i segni, non lo siamo mai stati. Sorrise. E alzò la testa alle stelle, disperato. Come la notte in cui era morto, come la notte in cui aveva cercato un'ultima risposta prima che un colpo di pistola ne cancellasse ogni necessità.

 

Methos lo aveva chiamato, perchè si voltasse, perchè lo vedesse in viso.

 

Methos aveva compiuto una scelta, quella notte. Ed Edward aveva letto nei suoi occhi la propria condanna a morte.

 

La violenza del proiettile sembrò propagarsi nuovamente nel suo petto. E il sangue, come un sorso di vino, gli riempì la bocca.

 

Abbassò gli occhi, sorpreso. La spada, per la prima volta nella sua vita, gli cadde di mano.

 

Una lama gli sporgeva dal petto, insaguinata. La guardò fremere e ruotare leggermente, sentì il dolore reale, assurdo, inaspettato tra le costole, dentro gli organi dilaniati.

 

“Splendida luce...” - sussurrò la donna alle sue spalle, contro la sua schiena, una bambola con gli occhi vuoti stretta nella mano sinistra. La sua assassina - “Ora mi appartieni...”

 

Lo sapevi. Lo hai sempre saputo.

Non potevi ingannarmi per sempre.

Sono la morte. E ho continuato a cercarti.

 

[X]

 

Il tempo può essere acqua. Si dilata, si stringe, cambia, dal freddo al caldo e, talvolta, mentre scorre, sembra comunque fermo. Il tempo sembra non scorrere e congelare ogni pensiero, rendendolo immutato.

 

Spike, correndo per il corridoio, aveva la strana impressione di non avere più ricordi di nessuno. Solo Edward, quel suo modo di voltare la testa di scatto e sorridere.

Solo Edward, con gli occhi azzurri fatti di scheggie di vetro in movimento. Solo Edward, senza una parola, un movimento che non fosse il voltare la testa e sorridergli dal  fondo del corridoio. Solo Edward, presente e passato nella stessa persona.

 

"Dai tempo al tempo. E mi metterai in ombra, prima di quanto immagini."

Si scostò da lui, con un movimento scanzonato, e si incamminò verso le scale. Voltandosi, per incitarlo a muoversi.

 

Edward... e nient'altro. Solo Edward che sorride. E il mondo diviene caldo.

 

“Non lasciare scendere la notte.” - stava dicendo una voce al fondo del corridoio. E Methos, che gli correva davanti, si afferrò allo stipite della porta, per deviare ed entrare - “Salvate la luce dalla morte.”

“Doyle.” - mormorò Methos, gettandosi in ginocchio e afferrandolo per le braccia. Lo avrebbe scosso, non avesse avuto paura di sbriciolarlo - “respira a fondo. E parlami.”

Doyle lo fissò, gli occhi azzurri iridati di bianco. Le visioni distorcevano la visione del reale, Methos era tutt'uno con le immagini in movimento.

“Drusilla lo prende.” - spiegò, con voce stranamente piatta. E Spike ne ebbe così il terrore che temette di non poter controllare lo stomaco, per la paura e il disgusto.

Doyle sembrava un vegetale. Un vegetale dotato di voce senza anima.

 

Doyle. Senza anima.

 

Represse un conato. E vide Faith tenersi la gola, appoggiata al muro. Lo stesso identico palpabile orrore.

Doyle, come un oracolo, levò la testa verso di lui.

“Spike, la lama entra, la lama esce.” - si inidcò un punto nel petto - “La bambola sta a guardare.”

 

La bambola sta a guardare.

 

***

 

Angel non lo aveva seguito. Gli era sembrato superfluo e, infine, forse, troppo doloroso.

Avevano perduto, tutti, nessuno escluso. Tutti avrebbero concluso quella giornata mutili di un'amicizia, un amore, un fratello. E nessuno, nessuno di loro sembrava poter emergere dal baratro.

Si rimise in piedi, stancamente, mentre la porta si accostava, girando con lentezza sui cardini, il suono leggero nell'incontrare la serratura.

Si voltò, arrivando a posare le mani all'ampia vetrate. Il segno di due palmi era ancora visibile sulla superficie e Angel, con lentezza, posò le proprie mani in quei contorni.

Edward aveva atteso, a lungo, con chissà quali pensieri. Era come se la superficie ne fosse impregnata, per il sudore, per l'angoscia. Il segno della tempia, il segno della bocca. Edward permeava la stanza e in quel vetro sembrava congelato nell'attimo più buio.

 

Cosa pensavi, qui, in piedi? Guardavi il cielo? Alzavi la testa per una risposta?

 

Chiuse gli occhi, concentrandosi. E la mente ripercorse, fotogramma per fotogramma, il giorno che volgeva al termine.

Era il tramonto. La luce cedeva il passo all'ombra. La luce se ne andava, restava solo il buio.

 

Infilò la mano in tasca, stringendo l'accendino di William. E, portandolo all'altezza del viso, lo accese. La fiamma, verticale e limpida, sfrigolò appena, con una vampata calda sulle sue labbra.

 

Non aveva detto a Edward dell'intenzione di Spike di andarsene. Non aveva ricordato nulla di ciò che, di importante, avrebbe potuto dire. Il sangue di Edward, caldo e dolce nel profumo, aveva cancellato ogni possibile frase, ogni singola verità che avrebbe potuto pronunciare.

 

Ma erano tante le parole che non aveva pronunciato, nella sua vita. Ed ora, le parole mancate erano rimpianti, come le emozioni, gli eventi, le persone.

 

Anche a Spike, quante cose non dette!

 

Spike era stato un po’ come una nuova epifania nella sua esistenza. E solo ora Angel si rendeva conto di non averglielo mai veramente spiegato, di non avergli mai raccontato di quei mesi oscuri a LA, solo contro se stesso.

 

Chissà se ti avrebbe aiutato, ora, sapere tutto l’accaduto… chissà se le parole, davvero, possono cambiare le situazioni e il destino.

Doyle crede di si. Wes cerca di dimostrarlo.

E cordy... cordy non ha mai smesso di parlare da quando la conosco.

 

Solo tu ed io, william, solo tu ed io viviamo la nostra voce come un sentiero di spine. Siamo bugiardi, forse. Ma con noi stessi.

 

Chiuse l'accendino e sentì le pupille mutare allo svanire della luce. Silenzio, solo silenzio. Forse, ragionò, dopotutto, anche se le cose fossero andate diversamente, Edward non avrebbe ascoltato... oppure...

 

La porta alle sue spalle si stava riaprendo.

 

Angel si voltò, in attesa.

 

La freccia, attraversando la stanza, colpì la vetrata passando dal suo torace.

E i cristalli esplosero, cancellando le ultime prove di un dolore lento a svanire.

 

***

 

Wes era immobile, alle spalle di Methos. Era stato il primo ad afferrare Doyle, pochi secondi, no, minuti prima. Aveva visto gli opcchi mutare, aveva sentito, per un tragico momento, di non riuscire a pensare a nulla. Nulla.

Cordelia aveva boccheggiato, poi gridato. Ed era fuggita, il nome di Spike sulle labbra.

Spike, aveva rantolato alla stessa maniera Doyle. E Wes, scaraventandolo sul primo divano trovato in quella confusione di mobili da albergo, aveva sentito il proprio cervello ripartire con uno strappo.

E non senza dolore.

 

La visione si ripeteva, oppure...

Non era la visione a ripetersi.

Ma la scena.

 

Non il vedere, ma il vivere.

 

Edward viveva due volte la stessa situazione. Questo significava la frase di cordelia. Non nel passato, bensì nel futuro.

 

E già successo, certo.. ma succederà ancora.

 

Riguarda il fotogramma... scoprirai che non è quello già visto. Unisci i puntini, segna le differenze... guardami, sto mischiando le carte...

 

Methos era arrivato correndo, i pensieri di Wes si erano confusi di nuovo. Si era solo spostato, per lasciarlo passare, aveva sentito cordelia tossire, fermarsi in corridoio e aveva confusamente pensato che avesse bisogno di aiuto. Ma non si era mosso.

 

“Guardami, guardami, guardami.” - ripetè Methos afferrandogli il viso. Le pupille si spostarono dal vampiro all'immortale - “No, non così, Francis. Guarda solo me, in questo tempo. In questo tempo.”

Gettò ogni preoccupazione in fondo alla mente, assieme alla rabbia. E strinse le tempie del demone, con le mani, deciso.

“Riunisci il sangue.” - mormorò il demone, senza che nulla mutasse in lui, né il viso né la voce. Solo il sangue, ora, colava più copioso dal naso alle labbra - “Deve andare dai suoi fratelli.”

 

Deve andare dai suoi fratelli.

 

Wes sussultò, quando una mano si afferrò al suo braccio.

“Aiutalo.” - disse cordelia, fissandolo, spiritata - “Ascoltami. La visione si ripete e si confonde con una scena costruita ad arte.”

Tossì, respirò a fondo e Spike fu al suo fianco, così vicino da investirli con l'odore del sangue e delle battaglie attraversate.

 

Cordelia sbattè le palpebre, guardandolo. Cercò di controllarsi, ma la visione si distorse, irrefrenabile.

 

Hiperyon, in un passato forse più sereno

 

“Solo una cosa non mi è chiara…” – Cordelia si tolse l’elastico dai denti e si legò i capelli – “Perché hai raccontato tutto questo a me?”

“Perché hai la nomea di essere una pettegola e volevo avere dei proclami ben fatti.”

Cordelia, suo malgrado, rise.

“Dai, smettila.” – si aggiustò la coda di cavallo e iniziò a tornare con la mente alle cose che doveva terminare – “Perché hai scelto me?”

“Perché non dovevo scegliere te?” - ritorse lui, accendendosi con aria distratta l’ennesima sigaretta.

“Non è tua abitudine, parlare con me… così.” – spiegò Cordelia, finendo di radunare i suoi raccoglitori. Impilandoli pericolosamente sulle braccia.

E restando sinceramente bloccata, quando due dita le strinsero piano il mento, obbligandola ad alzare lo sguardo.

“Gattina.” – mormorò lui, con quell’accento inglese ancora così limpido in alcune parole – “A modo tuo, sei una donna della mia vita. Sei un’amica, un punto di riferimento e un inimitabile tormento.”

“Oh. Ma che gentile. Avevi iniziato così bene..” – si lamentò la ragazza, cercando di far tornare la conversazione a livelli quotidiani. – “Un tormento, io…”

“Non stavo scherzando, Cordy.” – aggiunse Spike, interrompendo le lamentele e togliendole di mano la pila di documenti che dimostravano come anche una congrega demoniaca sia schiava della burocrazia – “Se ti ho parlato di tutto questo è perché… perché sei ben più della ragazza di un amico… sei una donna unica.”

Era stato quieto, nel dirlo. Pacato e semplice, come poche volte riusciva ad essere.  Lui, sempre ironico e diretto, rare volte assumeva quell’espressione seria. E solo in quegli attimi tornava ad un’espressione che, Cordelia sospettava, doveva essere stata la sua umana più tipica.

Gli occhi grandi e chiari, di chi ha troppi sentimenti da gestire tutti insieme. E troppe idee e troppe pochi termini a disposizione.

Forse per quello ami tanto tutti quei libri… non hai ancora trovato le tue vere parole… Sospirò e si concesse un’altra silenziosa occhiata. Spike non si muoveva. Non gli dispiaceva essere guardato, lo sapeva. Ma ora, in quel particolare istante, nel non comprendere cosa stesse pensando Cordelia, stringeva impercettibilmente le labbra, riportando lo sguardo alla sfumatura del metallo liquido.

 

Fino a non resistere più.

 

“Allora?” – sbottò inquieto, girandosi a spegnere l’ustionante sigaretta che si stava consumando in solitudine.

Cordelia sospirò ancora. Poi, con aria sapiente, lo afferrò per un braccio, quello con cui reggeva la monumentale contabilità e gli schioccò un sonoro bacio su una guancia. Adorava vederlo perplesso.

 

Ed ora... quegli occhi erano di nuovo su di lui, curiosi, in attesa. E cordelia pensò che già un altro ragazo l'aveva fissata in quel modo, con la stessa disperata tranquillità.

 

Ed era un ragazzo destinato a morire, se lei non avesse parlato.

 

“Doyle è un Cantastorie intrappolato in un labirinto.” - aggiunse rapida, guardando ripetutamente sia il vampiro che l'osservatore, cercando di restare lucida, di dare un senso alle proprie sensazioni - “Il sortilegio conduce alla follia, la notte vuole la luce...”

“Cordelia...”

“No, Wes, ascoltala.” - si intromise  Faith, decisa - “La notte... e la follia.”

“Drusilla.” - concluse Spike. E, scaturito dalle sue labbra, quel nome portò con è un legame antico e senza pietà.

 

Notte e follia. Drusilla.

 

Wes sussultò.

“Ma certo.” - so cosa fare. E si voltò verso Spike.

“Non stare impalato.” - disse, rapido, come se la verità fosse grande da non anadare spiegata. Non c'era tempo - “io mi occuperò di Doyle, tu devi salvare Edward. Ora.”

Le pupille di Spike si dilatarono, con consapevolezza. Wes continuò solao a parlare.

“A casa di Methos, è con Angel. Ed è in pericolo. Spike, salva tuo fratello da Drusilla. Ha preso già te, non lasciare che prenda lui.”

 

Impediscilo.

Impediscile di nuovo il delitto.

 

Scegli.

La tua scelta è la sua vita.

 

“Io le impedirò di prendere Doyle. Corri.”

 

Corri.

 

***

 

Quando la lama era stata sfilata dal suo corpo, con un gesto deciso, Edward si era appoggiato alla moto e poi, senza speranza, era volato a terra, la schiena in fiamme contro il cemento.

Si era girato sul fianco, nel tentativo di rialzarsi. E lei si era chinata su di lui, voltandogli al testa, per vederlo in viso. E sorridergli.

 

“Edward...” - sussurrò, con dolcezza - “Mio bellissimo... mio.”

 

Edward la contemplò, l'impressione di avere il corpo a brandelli, gli organi tagliati, schiacciati. Drusilla, l'amore di suo fratello gli rendeva il  favore girando la lama nel costato.

Drusilla... aveva pensato tanto a lei, in quelle ore e nei mesi passati.

Drusilla, la carnefice, l'amante, la donna e la vampira. I libri ne parlavano in poche righe, la ritraevano come fragile, morbida, lontana e irreale.

Ma william? William in che termini l'avrebbe descritta? Edward si era interrogato tanto a riguardo. Come avrebbe narrato della donan maledetta della sua vita? Non lo sapeva. Ma, infine, per riampianto e nostalgia, la sua mente aveva creato parole e immagini ad uso e consumo di un segreto mai condiviso.

 

Parole e immagini che ora, senza pietà, sovrapponendosi al reale, invadevano la mente assieme al dolore.

 

Il ricordo mai esistito

 

Si guardava la punta dei piedi. La posizioni indubbiamente lo favoriva. Incrociò le mani sulla stomaco, mosse le dita dentro gli anfibi e stirò le caviglie. Poi, in lotta con se stesso, sospirò.

“In principio fu Cecily…”

Un colpo di tosse lo aveva interrotto.

“Sei certo di voler partire dall’inizio? Non sei giovane, si attraversano due secoli di storia europea con le tue scappatelle…”

Spike alzò gli occhi al cielo e abbandonò lo scomodo divano, balzando in piedi,  afferrando il pacchetto. Lo stritolò quasi, cercando di estrarne una sigaretta e quando fu finalmente avvolto da una confortante nube azzurrina, riprese la parola.

“Dicevo, in principio fu Cecily…”

Ebbene sì. In principio fu lei. Forse non la più bella che abbia conosciuto… per molti aspetti… ma era amore. E scaldava, era intenso. La più bella sbornia della mia vita, con un risveglio dei peggiori.

 

“Ah. Capisco… succede con il primo amore.”

“Mi hai interrotto di nuovo.”

“scusami, vai avanti.”

 

Cecily, dicevamo. Poi ho cambiato vita, gusti e amore. E con l’ultimo alito di vita ho imparato ad amare Drusilla…

 

“Poetico…”

“Non mi interrompere.”

“Si, giusto. Non ti interrompo.”

 

Drusilla, dicevamo. Dru… Dru mi è penetrata sotto pelle nell’istante stesso in cui è apparsa dalla notte. La mia Regina nera... Si è presa il mio dolore, il mio amore e la mia vita con un singolo bacio.

E mi ha donato un’esistenza nuova con  nuove ambizioni e nuove passioni.

Passione, passione, passione… Angelus era il maestro in questo. La passione ci domina… cosa saremmo senza passione… dio, quanto l’ha ripetuto…e  quanto Angel ha ampliato il vocabolario del suo demone in questa era moderna!

Io e lui abbiamo sempre avuto una cosa in comune.. amore… amore per le sfumature ed amore per noi stessi.

Padroni del destino? Lui, forse, quanto a me... mi spiace ammetterlo, ma nel mio destino l’ultima parola è sempre stata di una donna.

Dru… il suo amore erano le stelle… il mio, la sua follia. L’ho amata senza limitazioni morali, senza vedere fine in quel sentimento eterno e morto come noi. Facevo finta di non vedere come la dividevo con Darla, con Angelus… era solo mia, ovunque fosse…

E, nella miglior tradizione dei sognatori, il mio amore poteva bastare per entrambi.

“Perché mi racconti tutto questo?”

“Perché a qualcuno dovevo decidermi a dirlo… E adesso, se la smetti di interrompermi una volta per tutte…”

Con Drusilla sono andato piuttosto lontano. Il mondo, le mie limitate ambizioni di umano… tutto è naufragato in un valzer durato un secolo… e più ancora.

Da lei mi sono lasciato dominare, con il mio ego sempre sulle labbra… io ti proteggerò, io ti amo, solo io posso renderti bella e felice…io, io, io…. Io per te farò tutto… Io per te, Dru, ho fatto tutto…

“Quello che ho cercato di ignorare, in tutti quegli anni…” – commentò rassegnato, dal suo divano, spegnendo il mozzicone nel posacenere a terra – “Era che, per quanto amassi Dru e le fossi fedele, avevo una relazione destinata a diventare la più duratura della mia vita…”

 

“Le cacciatrici...”

 

Già.  Le cacciatrici.

Le mie Cacciatrici. Tutte mie. Di tutte volevo sangue, amore e…

Tutto. Semplicemente tutto.

Ovunque andassimo io e Dru, la mia meta era sempre lei. L’Acerrima Nemica.

Ne ho uccise soltanto due… due… ma quant’altre sono cadute nella mia rete, anno dopo anno. Il tempo era scandito con i loro incontri. Era l’unico tempo che avesse importanza, non valeva nulla contare la mia vita in tempo umano…

E, alla fine, Dru mi ha scoperto. E mi ha lasciato.

Ecco. Quella è stata l’unica cosa umana in una vita demoniaca.

In un rapporto in cui la moralità non era proprio padrona indiscussa… lei mi ha lasciato per gelosia!

Gelosia, dannazione!

Mi ha lasciato in un ristorantino messicano, con tanto di orchestra.

Io non ero più suo!  E bla, bla, bla… tutte stupide parole umane.

E l’accusa di averla tradita, non dimentichiamocene. Tradito lei, Angelus, la mia natura… tradito tutti per un corpo sinuoso e un’anima labile che secolo dopo secolo mutava, rimanendo uguale solo nella definizione. La Cacciatrice.

Un involucro di carne e sentimenti trascurabili, innanzi ad un obbiettivo.

Ma lei, almeno, aveva un obbiettivo. Ed io, vampiro, immortale e ben di animo più affilato… non avevo meta. Mai.

Non potevo tollerarlo. Non accettavo il mio status di preda cacciata… e così, da semplice predatore di uomini, sono divenuto predatore di Cacciatrici.

E Dru sempre con me.. un corpo freddo per accendermi… o per spegnere ogni mia inquietudine…

 

“In effetti è una storia un po’ lunga… meglio abbreviare…”

“Proprio adesso che iniziava a farsi divertente…”

 

Drusilla gli strappò un sussulto, piantando la spada nella cicatrice che gli aveva provocato Angel poco prima.

“Non smettere di sognare, non  smettere di guardare le stelle...” - sussurrò, senza rinunciare alla dolcezza. E la lama, nella sua mano, compì ancora mezzo giro nell'involucro di carne - “Non mentono mai... e nascondono sempre la risposta...”

“Tu non sai niente delle stelle...” - sibilò Edward. E la vampira gli cancellò il rivolo di sangue, a lato della bocca - “e sei così vigliacca da colpire alle spalle....”

Drusilla non replicò all'accusa. Strinse di più la bambola al petto, guardandolo con gentilezza. La mente di Edward, provata e stanca, non era intenzionata a cedere. Il cuo cervello, seppur a fatica, registrò i particolari, la bambola, non dissimile al tatuaggio del suo aggressore al mattino.

E un sorriso di ironia gli attraversò il viso.

 

Ma certo.. era un labirinto di specchi...

 

Drusilla sorrise, in maniera più aperta.

“Si, hai capito.” - annuì, piegando le ginocchia, sedendosi composta al suo fianco. Alcune ombre si profilavano attorno, limitavano il perimetro, si preparavano a fermare ogni intromissione - “Specchi. Difficile distinguere il reale dal riflesso. Solo allo specchio puoi capire se le bambole sono vive.”

“Certo.” - tossì, comprendendo che non si sarebbe mai più rialzato dal mare di sangue in cui giaceva. Era ora di attendere il buio, un'ultima volta - “E chi non ha riflesso non ha nemmeno vita...”

La bocca della donna si imbrociò lievemente, prima di dischiudersi in un sorrisetto di perdono.

“Ssss... non parlare.” - lo ammonì, un dito sulle labbra - “Devo contare i battiti... devo ascoltare il tuo cuore per sapere quando. Tic tac tic tac...”

“Oh, si.” - rise Edward, chiudendo gli occhi. Drusilla lo stava baciando e la sua bocca scendeva dalle labbra verso la gola, coem velluto - “Tic.. tac...”

 

Tic tac, il tempo che passa.

Tic tac, il tempo che cambia.

 

Tic...

 

***

 

Sinead lo ripeteva spesso, senza nessuna forma di autocommiserazione.

 

“La mente di un Cantastorie è delicata, Methos. Le informazioni consapevoli viaggiano nelle loro corsie, ma le visioni e le sensazioni non fanno altro che tagliare la strada, importunare e tamponare. Abbiamo autostrade senza controllo e non possiamo fare altro che sperare che non ci siano troppi incidenti. Ma... esiste un caso...”

La bocca le si induriva, quando era spaventata. Fingeva fosse rabbia, contrarietà, ma Methos la conosceva. E baciava spesso quel broncio per infonderle calore.

“Ma esiste un caso in cui la situazione può diventare catastrofica. Si può interferire nella mente di un Cantastorie, basta possedere le stesse doti.”

“Essere un altro Cantastorie, intendi dire?”

“Si, oppure, essere dotato di preveggenza, astuzia e, non dimenticare, malvagità. È la malvagità che rende potente l'attacco. Le visioni si possono distorcere, deviare, nascondere e, tornando alla nostra metafora, si può obbligare una macchina a continuarea  passare dallo stesso punto.”

“Non ti  seguo. Cosa intendi.”

“La visione si ripete, si ripete, si ripete ancora. E non smette mai di far male, anzi. Progressivamente il dolore diviene sempr epiù forte. E, infine...”

“Infine...”

“Infine le corsie cessano di esistere. E ogni idea, ogni singolo pensiero si fonde con un altro. Ed è la fine.”

 

Se era ancora vivo, lo doveva solo alla sua natura demoniaca. E methos, seduto a terra e non propriamente certo di essere lucido, non riusciva a smettere di pensarci. Il demone, il demone, il demone... era tutto ciò che poteva salvarlo. L'unica positività in un mare di disastri.

 

Si, forse dopotutto, era lucido. La sola idea lo faceva ridere.

 

Era come se le iridi di Doyle stessero svanendo. Faith non osava più fissarlo in viso. Il bianco, venato e lattiginoso, attraversava l'azzurro come una crepa. E Doyle, privo di un'espressione, soffiava tra le labbra frasi sconnesse.

Innanzi a lui, le mani strette tra le sue, c'era ancora Methos. Calmo, forse solo in apparenza, ma deciso a non muoversi e a non smettere di parlargli.

“Guardami.” - ripeteva, con decisione. E Doyle ubbidiva, le pupille dritte nei suoi occhi. Senza vederlo.

 

Wes era sparito, correndo e trascinandosi dietro cordelia. Faith sospettava che non gli occorresse aiuto, che sapesse precisamente cosa fare ma che non volesse spaere la ragazza innazi a quell'orrore.

La sua impressione era avallata proprio dall'immobilità dell'immortale.

 

Guardami, Doyle.

Doyle, guardami.

 

Era come se lo mantenesse legato per un filo a se stesso, al contingente, al presente. Faith, seduta a terra, la schiena contro la parete, poteva solo sperare che tutto stesse procedendo, in qualche modo.

 

Perchè sapeva di non poter fare nulla, di nessun genere.

 

Non poteva combattere, non aveva avuto nemmeno la forza di arrivare ai cancelli dell'albergo. Si era dovuta sedere, ansimando, lasciando che i passi di Spike divenissero sempre più lontani e confusi. Ed era tornata indietro, scoprendo Wes già a metà di una rampa, con cordelia a fianco. Aveva cercato lorne, trovando il cellulare spento. Aveva fracassato il proprio in un moto di impotenza. Ed era tornata a sedersi alle spalle di Methos, in attesa.

 

Ed ora gli occhi di Doyle, o quel che ne restava, la fissavano.

 

“Sei pronta, Faith?” - domandò, tranquillo - “Sei la prescelta, il tempo ti ha atteso a lungo.”

Faith lo guardò, senza tradire emozione. E Doyle proseguì, la testa nella sua direzione, la stessa voce da comunicato meteo.

“La fine non è lontana, Faith. E, dopo sarete intrecciati per sempre. Non temere.” - spostò la propria attenzione, cercò nuovamente lo sguardo di Methos - “Avrà ancora bisogno della tua guida. Proteggi la tua vita per la sua.”

 

Si sarebbe aspettata che Methos non rispondesse. Che negasse.

Ma, quell'uomo, sapeva sorprenderla, sempre.

Perchè stava annuendo.

 

“Lo so.” - rispose, con gentilezza, continuando a stringergli le mani tra le proprie - “Lo so dalla prima volta che l'ho vista.. era eresia e non fede già allora...”

 

Faith si mosse, per avvicinarsi, una domanda, la prima di molte, già sulle labbra. Ma Wes, apparendo con un libro e alcuni oggetti tra le mani, cambiò le sue priorità e la sua traiettoria.

 

***

 

Non è il momento di sorprendersi, disse Angel a se stesso, afferrando l'asta e tirando deciso verso l'alto per liberarsene. Era riuscito a restare in piedi e non lo aveva fatto per fortuna o per resistenza.

Lo aveva fatto per rabbia. Perchè inizava ad essere stanco di questa situazione. Strappò la freccia, deciso. E la seconda che lo raggiunse, nemmeno troppo lontana dalla prima, gli sembrò scortese e inopportuna.

 

Abbastanza da caricare come un toro il proprio aggressore.

 

Forse il vampiro che lo usava da bersaglio non poteva entrare ma Angel, senza ombra di dubbio, poteva uscire.

 

E questo era soltanto l'inizio dei guai dell'esercito di Drusilla.

 

Il vampiro armato di balestra abbassò l'arma per caricare. E, tra le sue braccia, due mani gli raggiunsero il torace, impugnando dardi come se fossero pugnali.

Sorpreso, si sentì sollevare e inchiodare al muro.

“Grazie.” - si sentì dire, mentre diveniva cenere - “mi serviva proprio un'arma.”

 

Angel prese al volo la balestra, prima che toccasse terra. E la usò impropriamente verso il primo, il secondo, il terzo suo simile che incontrò in corridoio.

Poi, senza soddisfazione e sentendo crescere a dismisura l'esasperazione, imboccò la rampa delle scale per il cortile e corse, con l'impressione di non aver fatto altro per tutta la giornata.

 

***

 

Tic... tac...

 

Drusilla si portò il polso alla bocca, lacerando con precisione. E si protese su di lui, per un ultimo bacio.

 

“Tic...”

 

“Tac!” - ringhiò una voce alterata, afferrandola per le spalle e scagliandola lontano. La vampira rotolò fino alla base di un muro, la bambola rimase nella polvere, dove un anfibio le sbriciolò la testa con un colpo secco.

Edward sentì una mano premere sulla sua gola. Aprì gli occhi, a malapena, ritrovandosi a fissare un viso, tanto vicino da sorprenderlo.

 

“Non ti sento respirare. Non sento il tuo respiro.” - sussurrò, chiudendo gli occhi.

“Sei perspicace.” - fu la risposta, decisa. Decisa come la mano che gli chiudeva la ferita sulla gola - “E' il primo dei grandi cambiamenti nel nostro rapporto. Abituati.”

 

Edward poteva anche sentirsi morire, ma voltò la testa. E Spike fece qualcosa di inaspettato. E splendido.

Gli strizzò un occhio.

 

“Resta vivo.” - sussurrò, spudorato - “Torno subito.”

 

Poi scomparve, come se non gli fosse mai stato a fianco. Ed Edward pensò che valeva la pena soffrire per concedersi una risata di pura gioia.

 

Resto qui. Non mi muovo. Ma muoio.

E anche questo è un grande cambiamento nel nostro rapporto.

Aspettami... torno subito anch'io.

 

***

 

“No, ferma.” - Angel era passato attraverso la polvere di due sgherri, arrivando tempisticamente su Drusilla mentre si rialzava. E, tenendola per la gola, l'aveva obbligata a restare in piedi, contro al muro. Il suono della sua mandibola che si incrinava gli piacque e lo nauseò allo stesso tempo - “Quale parte delle mie richieste non ti è ancora chiara?”

“Quella in cui si specifica che lui è mio. E di nessun altro.” - comunicò Spike, arrivando a insinuare la propria mano sotto quella di Angel - “Flagello, stai sanguinando, lasciala a me.”

Per  un pelo Angel non la lasciò andare più per la sorpresa che per la richiesta.

 

E quello Spike da dove era saltato fuori? Non era troppo simile allo Spike di sempre per essere figlio di quella giornata?

 

“Dopo parliamo.” - disse Spike, rifilandogli un'occhiata obliqua. E c'era tutto il loro mondo dentro - “Adesso discuto con lei e tu fai il lavoro sporco.”

 

Sono qui.

Sono con te.

 

Sono qui per mio fratello.

 

Una frazione di secondo prima

 

Drusilla volo' oltre alcuni bidoni, sbattendo con suono secco contro la parete. E, nell'attimo in cui angel le fu addosso, spike si volto', con l'impressione di muoversi con lentezza agghiacciante.

Edward giaceva a terra, riverso, i capelli biondi macchiati da un'assurda quantita' di sangue rosso e stranamente lucido. Con un singhiozzo mal represso, spike ebbe l'impressione di rivedere se stesso, la stessa vita ormai svanita dagli occhi, la stessa espressione di perplessa curiosita' per la propria morte.

Debole, ai piedi di Drusilla e in attesa.

 

William aveva atteso Angel. E ora... ora si chinava su Edward.

 

Lo raccolse maldestramente tra le braccia, resistendo al desiderio di posargli al testa sul petto. Nell'averlo tra le braccia, per la prima volta da molto tempo, sentì di avere freddo, battere i denti e si domando' se potesse essere tutta un'impressione.

Aveva poco tempo, si rese conto, percependo il suo respiro troppo lieve, il battito lento e inesorabile del cuore. Avvicino' il viso, cercando l'odore speziato del sangue di Dru. C'erano alcune gocce, a terra, persino sulla camicia di edward, ma non sulle sue labbra. Quello in cui giaceva, che lo impregnava, era suo, fino all'ultima cellula.

 

Suo. Loro.

 

Strinse gli occhi, lo strinse piu' forte, per il sollievo. Provo' un fuggevole attimo di pace, seduto a terra, un singolo istante, riadagiandolo. Doveva occuparsi di Drusilla, doveva aiutare angel con gli altri vampiri... doveva.

Ma, in quell'istante Edward aveva aperto gli occhi. E Spike, per allontanarsi, aveva avuto bisogno tutta la forza di volonta' di cui era capace.

 

“Lavoro sporco?” - domandò Angel, staccandosi dalla gola della vampira e dalle mani del sua personale spina nel fianco - “Quale?”

 

Edward era ancora a terra. E l'odore del suo sangue impregnava l'aria rendendola miele. Era debole, ma aveva un motivo per vivere, ora.

E tutto sarebbe andato meglio. Meglio, perchè  forse non si poteva tornare indietro ma, a quanto sembrava si poteva andare avanti.

Fino al cielo.

 

Angel mutò il voltò, fissò i primi irresponsabili che si avvicinavano per avere la sua testa.

“Io non vedo lavori sporchi.” - sibilò, allegramente - “ma solo tanta sana attività fisica...”

 

***

 

“Ok, ora!” - ordinò Methos, mentre il bianco invadeva anche l'ultimo spazio ceruleo rimasto.

 

E Wes spaccò il cristallo, con decisione.

 

Fatto. Reciso il collegamento, pensò, vedendo i cocci mutare colore da rosso a trasparente. Fuori Drusilla dalla testa di Doyle.

 

Poi cadde il silenzio.

 

Seguito da un'imprecazione oscena che li fece voltare tutti.

“Non sono stata io.” - replicò Faith, precipitosamente. Seduta quasi sui suoi piedi, tenendosi la testa tra le mani, cordelia stava lanciandosi in una sfilza di parolacce e urla senza limiti.

Di rabbia, in particolar modo.

“Wes, cacchio!” - sbraitò, senza controllarsi - “Ma hai idea di quanto faccia male?”

“Lui no, ma io si.” - bofonchiò Doyle, tenendosi la fronte. Aveva di nuovo gli occhi azzurri e la voce roca da fumatore. Methos fu così contento di sentirlo bobottare in quel suo improponibile acccento irlandese da non resistere a rifilargli un sonoro bacio sulla fronte stritolandogli il collo con un braccio.

“idiota, irresponsabile, gallina senza cervello...” - bofonchiò, senza smettere di stringerlo e pungerlo con la barba - “... che non sei altro.”

Poi uno scappellotto, senza pietà. E l'ultimo grande e lapidario insulto.

“Tale e quale tua madre.”

“Grazie.” - sospirò il demone, finendo di strofinarsi gli occhi  e alzando la testa - “stai bene principessa?”

cordelia, seduta per terra, annuì. Era andato tutto come aveva detto Wes: aveva sentito il contraccolpo su Doyle come uno schiaffo, come se qualcuno le colpisse le meningi con una mazza.

E, per essere solo un contraccolpo, le era sembrato terrificante, tanto da non osar guardare Doyle.

 

Poi aveva sentito la sua voce. E si era sentita bene, bene come non mai.

 

“A meraviglia.” - rispose, dunque, con naturalezza - “Non appena riuscirò ad alzarmi preparerò del the per tutti. Wes?”

Sembrava surreale ma era un sollievo senza limiti poter parlare con quell'incuranza, seduti nel proprio salotto, dopo un rituale magico che doveva mantenere le loro anime ancorate al corpo e i loro cervelli in sede e ben funzionanti.

 

Ma, pensandoci bene, era la loro routine.

La comune routine di una lunga giornata di lavoro.

 

“Tutto a posto.” - mormorò l'osservatore chiudendo il libro e posandolo in cima agli altri - “non ti preoccupare del the, lo faccio io.”

“Ma siete impazziti?” - Faith aveva l'impressione di essere caduta dentro una sitcom molto rosa e molto zuccherosa - “il the? Come stai? Ma restate seri, per favore!”

Spalancò le braccia, sbalordita.

“Gente, siamo in emergenza, Doyle non è diventato scemo per miracolo, Wes si è appena abbandonato ad un quarto d'ora di magia nera e voi parlate di the? Ma io a momenti non ho nemmeno capito cosa sia successo!”

esitò. Poi aprì la bocca e urlò ancora.

“E Spike? Non pensiamo di aiutarlo?”

“Ha ragione.” - sussurrò Doyle, guardando l'immortale - “Dobbiamo andare.”

“No, non dobbiamo.” - replicò Methos, con calma - “siamo in ritardo. E saremmo  di troppo.”

Sorrise, triste.

“Non si va in comitiva all'appuntamento con il destino.” - aggiunse, spostandosi e permettendo a cordelia di prendere il suo posto e deliziare Doyle con un vero, sincero, genuino bacio. Soprattutto perchè non dubitava che sarebbe stato coronato con uno scappellotto punitivo - “Torneranno.”

“Torneranno, Methos? Sai anche chi?” - lo provocò Faith, fronteggiandolo.

 

Adesso lo sai? Sai davvero chi varcherà la porta di casa?

 

Ed egli, di tutta risposta, la spinse gentilmente indietro, su una poltrona.

“No. Non lo so. Spero, come te. E non intendo fare altro, in questa storia.” - rispose, deciso. Non posso fare altro, se non sperare che si arrivato in tempo - “Abbiamo dato un taglio alle ingerenze di Drusilla nella nostra vita, potevampo e ci siamo riusciti. Per il resto, non abbiamo di che preoccuparci. Spike renderà definitivo il nostro operato, senza ombra di dubbio.”

 

Le posò una mano sulla guancia, fissandola dritta negli occhi.

 

“So cosa provi. Ma tu sai come si vive in questo nostro mondo.”

 

La cacciatrice levò gli occhi verso i suoi. E non le servì una risposta, perchè Methos comprendesse.

 

Si, Faith sapeva. E capiva. Ed anche se la sua grande dote era cambiare ciò che non poteva accettare, rimase comuqnue immbile, al suo posto.

 

Faith aveva paura, paura per chi amava. E Methos, come ogni presente nella stanza, condivideva quell'emozione e quel peso. Sapeva aver paura, sapeva essere terrorizzato dall'ignoto. Ma sapeva anche come resistere. E non cedere mai senza combattere.

 

“Non possiamo fare altro, Faithy.” - concluse, con un'alzata di spalle - “E non sciupare al mia sutura, resta ferma. Il the, Price? Cominciamo dal raccogliere le foglie?”

 

***

 

“Credevo di averti detto che, se gli avessi torto anche un solo capello...” - la mano si fece più stretta, Drusilla gemette di piacere - “Io ti avrei ammazzato.”

Dru lo fissò, gli occhi in una risata. Poi qualcosa in lei si distorse, facendole sbarrare lo sguardo. E un lieve rivolo di sangue scivolò sulle dita di Spike.

“Bene.” - disse lui, accentuando il sorriso storto - “Vedo che a casa hanno fatto un buon lavoro...”

 

A casa è tutto sotto controllo.

 

“Non potete averlo...”

“Oh, si, piccola mia. Il nostro Cantastorie è un fuoriclasse, non si limita ad ascoltare quattro costellazioni di seconda categoria. Il tuo giochetto delle visioni è finito. Ora...” - altra stretta, sempre più vicino - “Parliamo di cose più importanti.”

“Dividilo con me.” - implorò lei. Pronta, capricciosa, deliziosamente infantile - “Staremo insieme, per sempre. Tu e lui, con me...”

“Ci sono già passato Drusilla, tu non sei divisibile tra due uomini. Scordatelo. E poi, a dirla tutta...” - con le labbra avrebbe potuto incendiarla, con gli occhi lo stava già facendo - “... penso di non avere più interessi nei tuoi confronti.”

Allargò le dita, arretrando di un passo.

 

È un addio, questo.

 

“Vattene. Vattene ora. E non azzardarti nemmeno a pensare di  poter far del male a mio fratello.”

 

“Non l'ho morso, amore mio. Non l'ho morso per farti un piacere ma lui berrà, berrà il mio sangue.” - si portò le mani al petto, estatica - ”Il tuo marchio, il mio sangue, sarà nostro, nostro in eterno.”

 

“No, Dru. Il suo sangue, il mio sangue. Il mio marchio...” - esitò, prima di accettare di dirlo - “la sua luce.”

 

La sua luce.

 

Fu in quell'attimo che Spike si rese conto di non  desiderare altro che voltarle le spalle e andare da Edward, per chinarsi su di lui, per parlargli, chiamarlo per nome.

Edward. Edward era tornato. E non era servito a nulla cercare di sfuggire, negare, soffrire. Edward, ora. E per sempre.

 

Per sempre.

 

“La mia luce, Dru.” - sorrise, libero, di nuovo giovane, di nuovo umano come non si era mai più sentito - “L'ho ritrovata, non la lascerò più fuggire.”

 

Non ci saresti mai stata, avessi avuto Edward al mio fianco. Avrei avuto una vita breve, fragile e forse ugualmente ricca. Ma non la rimpiango, non la rimpiango più.

 

Forse è vero. Forse ho un destino da compiere.

Ma ciò che so, oggi, è che mio fratello è tornato. E del resto non mi importa.

 

Forse non sono più chi ero. Non lo sarò mai più, tranne che per una piccola e trascurabile porzione di cuore. Ma, dentro quel frammento, porto sempre te, ho sempre portato te. Ora, allora, sempre. Sei il mio pulito, Edward, sei tutto ciò che inseguo, ancora e ancora.

 

Non ti lascerò andar via, mai più. Te lo giuro.

 

“Addio, Dru. Non abbiamo più nulla da  dirci.”

 

Drusilla si strinse le mani e il segno della sconfitta le attraversò i lineamenti.

 

Si. Questo è il nostro addio. Mi hai dimenticata.

 

“Non mi volterai ancora le spalle.” - rantolò, afferrandolo con la braccia e stringendolo in una morsa. Gli occhi divennero cangianti, i lineamenti mutarono - “Non ti lascerò andare via... non tornerai da lui.. da lei... io ti ho condotto fino a qui, io...”

 

Ed io posso distruggerti, assieme al tuo destino, uccisore delle cacciatrici, amore mio.

 

Lo morse, decisa, con una tale violenza che Spike non riuscì a reprimere un urlo. Provò a divincolarsi ma la presa sulle braccia sottili di lei gli divenne impossibile da spezzare, mentre la vista, rapidamente, si riempiva di macchie.

“Ancora i tuoi trucchetti....” - sospirò, scandendo malamente le parole. Le tempie sembravano sul punto di scoppiargli, la vista gli si appannava. Era Drusilla, con il suo profumo e le sue doti, con la rabbia incontrollabile per non essere più parte di quella famiglia che adorava.

 

Drusilla, strega incantatrice, regina nera come morgana.

 

Era vorace nell'affondare i  denti, una tigre decisa a dilaniare la preda. Spike sentì la mano premere dietro la sua testa e discendere ancora, affondando le unghie nella carne, sul busto.

Lo stava dissanguando, gli impediva di muoversi, indebolendolo.

E chiuse gli occhi, frastornato. Le lotte, il sangue perduto in quelle ore, la tensione... si maledisse per la propria incoscienza. L'aveva sottovalutata, era stato certo di spezzarla e...

 

E non riusciva a salvarsi da solo.

Avrebbe perso. Perso, ad un passo dall'avere tutto.

“Angel.” - sussurrò, come una preghiera.

 

Aiutami.

 

Ed Angel si voltò, seguendo la sua voce, nitida nella mente. Quando li vide, sentì la rabbia evaporare per divenire furia. Drusilla stringeva Spike per la vita, per il torace, il viso affondato nell'incavo del collo.

Come secoli prima, in un vicolo londinese, la testa bionda di Spike si stava inarcando indietro, indifesa.

 

L'abbraccio di morte della loro stirpe, senza pietà e senza rimorso.

 

E Drusilla ne rubava l'anima e la volontà di vivere.

 

Perchè, se non poteva riaverlo con sé...

 

“No, no, no.” - sussultò Angel, scattando.

 

Non ora. Non ora che sono così vicini uno all'altro.

La mano di Drusilla stava risalendo, stringendogli il collo, pronta a spezzarlo. Angel tese le mani, alzò la balestra cercando di mirare. Ma la vampira, intuendolo, si piegò sulla propria preda, frapponendola.

 

Poteva colpirla solo attraverso william.

E sapevano entrambi che non lo avrebbe fatto.

 

Quello che non sapevano era come una spada, ruotando, potesse arrivare a segno ben prima di Angel.

Il metallo fischiò e mutò in un suono pieno e denso conficcandosi nel fianco scoperto. Con la coda dell'occhio, Angel vide Edward rialzarsi, barcollando, un ginocchio a terra, la mano nella polvere.

 

Un lancio preciso, letale e pieno di odio. Di vendetta.

Così volevi che fosse, Coventry. E,come sempre, non siamo statio in grado di fermarti.

 

L'abbraccio tra Spike e Drusilla si lacerò con inaudita violenza. Drusilla sbattè nuovamente al muro, scivolando a terra, mentre Angel, per un soffio, mantenne in piedi Spike e, con la stessa rapidità, lo pose alle proprie spalle.

 

***

 

Spike aveva sentito il proprio sangue defluire senza potersi difendere. E poi uno strappo violento, che lo aveva fatto soffrire.

Drusilla aveva mugolato, i denti ancora nella sua pelle, prima di svanire da contro il suo corpo. La mente gli si era snebbiata, come attraversata da un fiume d'acqua gelida.

 

Si era sentito barcollare, afferrare per le braccia. Odore di una giacca di pelle ben tenuta, di sangue demoniaco e furia.

 

Angel, Angel lo aveva salvato, come sempre.

 

Ma le mani erano cambiate, in maniera inaspettata.

 

Il vampiro bruno lo aveva lasciato andare, rassicurandolo con un'occhiata infinitesimale, scivolando tra lui e Dru. E altre due braccia lo aveva preso, senza riuscire a sorreggerlo, senza  riuscire ad arginare la caduta scomposta a terra.

“Fermo.” - sussurrò Edward, assestandoselo contro al torace e risalendo con le mani verso il suo collo. Lo teneva  con entrambe le braccia, la schiena di Spike contro al suo petto, con l'intenzione di non lasciarlo mai più andare - “Sei con me, non ti succederà nulla...”

“Non toccare la ferita.” - replicò Spike, afferrandogli le mani. Le mani di Edward, le dita da pianista perennemente calde.... sentì gli occhi divenire roventi e li chiuse - “Per te è veleno, non lo toccare... Edward...”

 

Il tuo... nome...

 

Le mani cedettero alla sua pressione, tornando verso il torace. E Spike, senza lasciarle, protese la mano libera indietro, tra i capelli, lungo il suo collo, il suo viso.

 

“Edward.” - ripetè, soltanto - “Edward.”

 

Non cercava nulla, non voleva nulla, solo sfiorarlo, sfiorarlo e ricordare.

 

Ma nemmeno i ricordi avevano più importanza.

Perchè Edward era con lui, nel tempo presente.

E il passato, ormai, era cenere.

 

***

 

Drusilla fissò Angel, il sangue di Spike sulla bocca, sulle ciglia. Con le mani stringeva la spada, ancora conficcata nel suo corpo ed Angel, senza attendere richiesta, puntò un piede sul suo petto e sfilò la lama.

Drusilla gorgogliò, accasciandosi di fianco, ai suoi piedi.

 

“Non sai uccidermi nemmeno ora...” - rantolò, lo sguardo rivolti alla polvere - “Continui a non volere, Angelo mio. Per quanto faccia...”

Alzò la testa. E gli occhi apparvero nel loro splendore originario, di indaco e viole, dipinti di consapevolezza.

“Per quanto io possa, tu non puoi uccidermi.” - aggiunse, lucida. Lucida, perfetta e orribilmente spezzata nell'animo - “Angel, devi lasciarmi andare.”

 

Angel, la spada stretta in pugno, non si mosse.

 

Quegli occhi feriti, quella bocca rossa di sangue e disperazione gli aprirono come un varco al centro del petto. E dentro, Angel, ebbe l'impressione di sentirsi riversare le urla disperate di ogni sua vittima.

 

Lasciami andare.

Lasciatemi andare.

Vi imploro...

ti prego.

 

Drusilla, a terra, implorava per la propria fine. Ed era di nuovo la ragazza atterrita e innocente che Angelus aveva cercato, rannicchiata nell'angolo della cappella, al convento.

 

Non si può tornare indietro.. e non si può dimenticare.

 

“Il destino di william sta per compiersi.” - aggiunse Drusilla, alzando la testa. Il suo corpo era scivolato a terra, il suo viso pallido era quasi nella polvere - “Non potrai salvarlo un'altra volta, Angelo mio. Uccidimi. Uccidimi, perchè nel futuro che si sta per scrivere non esiste un posto per me.”

“Dru...” - strinse più forte la spada, sentendola scivolare. Non disarmato, non disarmato innanzi a quell'orrore - “dimmi cosa vedi... amore...”

 

Amore mio, bambina mia, mia luce nera...

 

Anime e sangue vi hanno condotto fin qui.” - rispose, docile alla sua preghiera - “Ora non vi resta che combattere il destino, un'ultima volta.”

“Non è abbastanza. Devi dirmi altro.”- deglutì, piegandosi sui talloni - “Devi dirmi altro, se vuoi che io lo salvi.”

 

Tu lo vuoi, quanto lo voglio io.

Ti prego, Drusilla... aiutami a proteggere william.

 

La mano della vampira gli strinse il maglione, afferrandosi ai punti lacerati dalle frecce. Erano rimasti soli, ogni vampiro che l'avesse appoggiata era ormai polvere nella polvere, sui loro vestiti, sotto i loro corpi.

 

Non c'era nulla, non c'era battaglia.

Solo un silenzio innaturale su una città sempre viva in cui l'oscurità sembrava non esistere.

Solo silenzio. E oscurità, l'ultima rimasta.

 

“Tennero fino alla fine... Nessuno li seppe piegare...” - mugolò Drusilla, come una litania, raddrizzandosi lentamente, fino a fronteggiarlo, in ginocchio. Gli occhi viola erano pieni di stelle, le labbra, morbide, erano sulle sue - “Non dimenticare...”

 

Perirono i loro corpi,

Ma le anime loro saranno immortali

Fra le ombre saran condottieri,

Fra i morti saran eroi

 

Poi lo lasciò andare, senza smettere di cercare il suo sguardo.

“Addio, Angelo mio.” - sussurrò, posandogli ancora un bacio sulle labbra - “Addio per sempre.”

 

Tutto riconduce a te, amor mio.

La mia follia, il mio dolore, la mia tenebra, la sua morte.

Tu ed io lo abbiamo donato alla leggenda.

 

Persino la sua dannazione è stata necessaria, per portarlo fino a te, ancora, e di nuovo alla sua anima, alla sua vita, alla sua luce.

Oggi tutto si compie e tutto inizia, nel riunirsi del sangue.

 

E che egli sarà l'eroe che deve essere, fino alla fine.

 

“Addio.” - soffiò ancora, con una lacrime nella scia del sangue sparso. Una lacrima su un mare di sangue.

“Andrai lontano, vero?” - non posso... non posso nemmeno ora...

“Si, Angel, te lo prometto... andrò lontano.” - e non tornerò mai più.

“Va bene.” - rispose, stanco, le labbra a cercare ancora le labbra. E si alzò, con lentezza, tardando il più possibile, prima di voltarle le spalle.

 

Per non dimenticarla, per non dimenticarla mai più.

 

LA, la citta' degli angeli, 2004

 

Drusilla accennò un passo di danza intorno al montante dell’altalena, con aria sognante. Poi  scivolò a terra, macchiandosi di polvere, con una risata incontrollabile.

Piegò le ginocchia, mutò il volto continuando a ridere.  E tacque, ansimando, fissando il cielo.

“Sapevo che saresti venuto.” – sussurrò, voltando la testa verso di lui – “Sei come la notte che avanza… il buio che inghiotte…”

 

O forse sono solo un pazzo come te, pensò Angel, arrivando all’altalena e sedendosi. Strinse le catene tra le dita e allungò le gambe, pensosamente.

 

“Amore mio…”

“Smettila Dru.” – rispose, ignorando il suo profumo e i suoi occhi viola ancora pieni di luce – “Non serve a nulla tutto questo tuo malcelato affetto. Non lo voglio.”

“Eppure ne hai bisogno…” – si era seduta, allungando le braccia sopra la testa lasciando che i capelli ricadessero a lunghe onde sulle spalle – “Lo sento…”

inaspettatamente Angel ridacchiò, piegando la testa.

“Io invece sento solo che siamo una coppia di stupidi.” – ribattè, dondolando appena, sui talloni – “E senza suggerimenti astrali…”

Drusilla inclinò la testa, sorridendo. Sembrando incredibilmente dolce. E umana.

“Angelo mio.. che guaio la solitudine…”

 

Spike era sparito da oltre un mese. Come amava ripetere Wes, con l’aria di chi ha capito che lo schema universale è una presa per i fondelli, “Guadagnato un osservatore e perso un vampiro”.

Frase ormai molto diffusa, in varie intonazioni sarcastiche, tra le quattro mura di casa.

Eppure per quante fossero le battute, nulla smorzava il malumore imperante. E, soprattutto, l’ostinata politica di non collaborazione che si era istituita tra i vari piani dell’Hiperyon e che spadroneggiava sotto una quotidianità decisamente apparente.

E, tra i vari segreti, il peggiore era quello di Angel.

Angel, che si dava appuntamento con Drusilla, alle spalle di tutta la famiglia che la sua anima si era scelta, assecondando una certa inquietudine senza nome.

Qualcosa che, in barba alle riflessioni e alle giornate insonni, continuava a non intuire.

 

Drusilla spense la risata in un ultimo sorriso, inclinando nuovamente la testa, cominciando a canticchiare, lisciando l’orlo di pizzo della camicetta.

“Quanto vorrei mi spazzolassi i capelli.” – sussurrò, a sguardo chino – “Come tanto tempo fa…”

“Non torneremo a vecchie abitudini, Dru.” – la interruppe, accendendosi una sigaretta. Si, fumava pure da quando non riusciva a dormire – “Se vengo qui, di tanto in tanto, è perché voglio informazioni. Informazioni vere, di qualunque genere siano.”

“Ma tu sai già l’unica verità.” – rispose, trasognata – “lui ama lei, lei ama lui… hanno scritto bellissimi libri su storie del genere.”

L’aveva detto con un tono perfettamente presente, quasi sarcastico, mutando, a metà della frase. Ed Angel la guardò bene in viso, mentre si alzava, lisciando il semplice completo, la lunga gonna blu notte. Una bella donna, pallida ed elegante, misteriosa.

Nulla di più. E non di certo la veggente che l’aveva accompagnato negli anni ruggenti del massacro. Come le accadeva talvolta, per motivi inspiegabili, tornava lucida. Ed appariva troppo forte. Irritante, a detta di Darla.

“Ti serve sapere altro?” – insistette la vampira, fermandoglisi di fronte, a braccia conserte. Obbligandolo ad alzare la testa per guardarla. E perdendosi nel mare scuro degli occhi del Flagello.

“Mi serve sapere da cosa Spike stia fuggendo.” – replicò, con calma.

“Chedilo al tuo cuore…”

“Il mio cuore mi ha già detto, Dru. Ma ciò che mi sfugge è cosa il cervello di Spike abbia detto a Spike. Non quello che il cuore ha comandato.” – Angel si interruppe, fissando un punto imprecisato oltre le spalle – “Tu sei la causa scatenante di tutto questo. Ma il mio istinto non fa che ripetermi che non sei tu il problema, non il principale. Qualunque cosa sia.. l’hai portata tu. E ora mi dirai di cosa si tratta.”

 

L'aveva sempre ascoltata. L'aveva sempre amata. Anche nell'odiarla.

Perchè era la stata la sua bambina, ben prima di faith.

Ed il peggiore dei suoi peccati.

Ma era stata sua, in tutto, come poche altre nella sua vita. E mai nulla, mai nulla aveva eguagliato l'intimo segreto di amarla, sempre e comunque.

 

E, nel bene e nel male, lasciandola rannicchiata a terra, nella polvere, quella notte, sapeva e sentiva che non l'avrebbe mai più rivista.

 

"Angelo mio... che guaio la solitudine..."

 

***

 

“Andiamo.” - disse soltanto, fermandosi. E i ragazzi Coventry alzarono la testa verso di lui.

Avevano lo stesso sorriso e si somigliavano così tanto che Angel provò una fitta al cuore.

Vi siete ritrovati. E vi appartenete, da tutta un'eternità

E quell'eternità, in voi, nei vostri occhi, alberga da sempre.

“Siete dei rottami.” - commentò, forzatamente, per smorzare l'angoscia – "Vi vedeste...”

“Tu invece dovrai rifarti il guardaroba.” - ribattè william, fissandolo. Aveva gli occhi brillanti e sembrava intenzionato a non muoversi dal cerchio delle braccia di suo fratello - “problemi di tarme? Quella maglia è tutta un buco...”

“Qualcosa del genere.” - sospirò, tendendogli la mano - “Andiamo a casa? Prima che piombino tutti qui... e che methos veda la sua vetrata...”

“Ottima idea."

 

E fu quando sentì le dita tra le sue, quando vide Edward piegare il ginocchio per alzarsi, che Spike urlò.

 

Urlò, tirandolo a sé.

 

E, in un secondo che Angel non avrebbe mai avuto la certezza di ricordare, tutto accadde.

E Drusilla fu polvere.

 

***

 

Quando il primo lampo di luce gli attraversò gli occhi, Doyle non disse nulla.  Semplicemente chiuse le palpebre e, sdraiato su quel divano che stentava ad abbandonare, finse di dormire.

 

C'era stato Edward, in quel flash, per un rapido istante.

Edward sorrideva, seduto a terra, stringendo a sé william.

 

E william... william non era il ragazzo magro e indefinito intravvisto in qualche sogno distratto e premonitore, bensì il vampiro di oggi, nel pieno della sua eleganza.

Sangue, occhi brillanti e sorriso.

 

Spike.

 

Spike e Edward, insieme come fratelli. Per sempre.

 

L'immagine gli piacque, lo intenerì. Ed Angel, poco dopo, gli percorse la spina dorsale come una nota malinconica. Angel, il fratello del buio e Spike tra le braccia della luce.

Avrebbe voluto rassicurarlo.

Ma non poteva.

Era una visione, null'altro. E Doyle non era certo che fosse già realtà, soprattutto dopo un giorno intero passato a subire i giochetti di Drusilla.

Non era reso conto di essere stato manipolato, fino a che non era divenuto troppo tardi per rimediare. Quando aveva compreso, quando l'aveva intuito, in un atttimo di empatia con cordelia, le forze che avrebbe dovuto impiegare per salvarsi erano ormai finire.

E Doyle, semplicemente, si era sentito svanire, sommerso dal futuro inarrestabile che sfilava nella sua testa.

E il 'troppo' era giunto tutto assieme ai suoi occhi. Troppo.

Ma ora, a equilibrio ristabilito, con una gratitudine infinita per Wes e per il suo intuito, Doyle sapeva di poter tornare a subire le proprie personali proiezioni solo con i canonici dolori e pericoli di sempre.

E così, con i ragazzi Coventry negli occhi, si limitò a  sospirare più a fondo e attendere, per capire quanto quei fotogrammi potessero svelare un futuro insidioso o sereno.

 

E, mentre Angel sorrideva, afferrando la mano di Spike per aiutarlo a rialzarsi, Doyle vide. E comprese, con il gelo nell'anima.

C'era Drusilla, alle spalle di Angel. E Drusilla alzava alto sopra il capo un paletto.

Nulla tra lei e il cuore di Angel. Nulla, se non i leoni Coventry.

Doyle sussultò, aggrappandosi al bracciolo del divano si cui si trovava. E strinse.

 

La mano di Spike fece altrettanto, tra le dita di Angel, tirando, con decisione. Edward, scattando da terra improvvisamente in piedi, passandogli a fianco con una spinta, rubandogli la spada e ponendolo fuori dalla traiettoria ma, soprattutto, aprendo la via a suo fratello.

 

E fu Spike a chiudere il cerchio, così come forse era sempre stato scritto.

 

Fu Spike ad afferrarle i polsi.

Fu Spike a stritolare le mani, a deviare fino a spezzare le ossa che stringeva.

 

Fu Spike ad affondare il legno nel suo cuore, strappandole un sorriso enigmatico.

 

E fu sulle ciglia e tra le sue labbra che la cenere di Drusilla trovò infine l'ultima dimora tanto desiderata.

 

“Avresti dovuto ascoltarmi.” - sussurrò il vampiro, Doyle lo sentì distintamente. Ed era stanco, lontano - “Nessuno tocca i miei fratelli senza il mio permesso.”

 

Nessuno.

Poi l'immagine scomparve, inghiottita dal buio senza stelle.

 

[XI]

 

“In principio... in principio fu Cecily.”

“Ma davvero....” - gli rispose una voce stranamente divertita. E Spike, senza nemmeno aprire gli occhi, annuì convinto.

“Ebbene sì. In principio fu lei. Forse non la più bella che abbia conosciuto… per molti aspetti… ma era amore. E scaldava, era intenso. La più bella sbornia della mia vita, con un risveglio dei peggiori.”

“Ah. Capisco… succede con il primo amore.” - Edward puntellò meglio la tempia alla mano. E sorrise, guardando il profilo di Spike.

 

Non era poi cambiato così tanto, a guardarlo bene. Le variazioni non nascevano dalla demonicità, soprattutto ora, a riposo, bensì da una masconilità che, probabilmente, aveva acquisito negli ultimi anni da vivo.

Edward, in quelle ore, si era reso conto di pensare a lui come al ragazzino che aveva lasciato, non all'uomo che, anni dopo la sua scomparsa, aveva scelto la dannazione come soluzione di vita. E, per quanto questa consapevolezza gli provocasse un dolore tangibile, la accetttava con curiosità e fascinazione.

 

William, senza di lui, era divenuto unico. E, al di là di etica, regole e giustizia, bellissimo. In tutti i sensi.

Era divenuto l'eroe dei romanzi, l'aristocratico e languido predatore che la società ottocentesca aveva disperatamente ricercato nel buio delle strade sovraffolate.

 

William era stato figlio del suo tempo. E mito, fino in fondo. Edward, che aveva saputo attraversare le epoche portando con sé la memoria e le regole di educazione della sua infanzia, non poteva non restarne sbalordito. E perdutamente, perdutamente, innamorato.

 

William, il suo personale eroe.

 

No, i cambiamenti non erano nei lineamenti, nelle ciglia lunghe o nella bocca ben disegnata. Era l'espressione, l'esasperante accostamento dei colori, dei capelli e della pelle alabastro, a renderlo diverso.

Ma Edward, anche sotto la maestria da cesellatore del tempo, vedeva ancora William. Sempre e solo William. E questo, dopotutto, era sempre stato perfetto.

 

"Cecily..."

“Basta che non ricominci a parlare di Drusilla…” - replicò, gentilmente. Non aveva fatto altro, dopotutto. Da quando era crollato, sui piedi suoi e di Angel, per decidere di non svegliarsi nonostante ripetuti richiami, aveva sempre delirato.

E parlato.

Con tutti. E di tutti.

 

Nel cuore della notte

 

“Dru era la mia stella. Il mio faro. Dovevo allontanarmi di lei, talvolta, tale era il potere che aveva su di me. Da lei mi lasciavo dominare…”

“Lo so.” - sospirò Cordelia, tirandosi indietro i capelli. Ed Edward, in silenzio, appoggiato allo stipite della porta, si era voltato verso di lei.

“come?”

la ragazza gli aveva sorriso, conciliante. Era stanca, aveva profonde occhiaie e, da quanto aveva intuito Edward dalle parole di Wes, erano successe tante cose all'hiperyon in quella giornata pressochè infinita. E non tutte molto positive.

Non aveva prestato attenzione, tuttavia. C'era William, ancora incosciente, mezzo dissanguato e, a quanto si poteva intuire dall'analogo tremito alle mani di Angel, stravolto dall'omicidio appena compiuto. Solo dopo, cominciando a calmarsi e razionalizzare, Edward si era reso conto della confusione già esistente quando erano arrivati, delle conversazioni ininterrotte e, infine, di Cordelia, con lui nella stanza.

“Stanno parlando di  me.” - aveva detto, sedendosi e contemplando Spike - “resto qui con voi, se non ti dispiace...”

E così era stato. Cordelia sedeva ancora sull’ampia poltrona di pelle, le gambe allungate e la testa appoggiata ad un cuscino di velluto.

“Lo so.” – ripetè la ragazza, abbandonando lo sguardo pensieroso e fissandolo – “Io mi ricordo di loro, di lui e Drusilla. Una sera, al Bronze.”

Edward aggrottò le sopracciglia. Bronze? Non ricordava nulla con quel nome. Ma Cordelia non sembrava in vena di spiegazioni, solo di ... parole.

“Non so quale, quale sera al bronze. Ce ne erano state tante, così dolci… così, uguali… Una sera.” – riprese a mormorare Cordelia. Quando, dopotutto, era irrilevante – “la stringeva appena, con gli occhi chiusi… e Drusilla, invece, li teneva sbarrati e fissava il mondo circostante. Era così bella… la odiai all’istante…”

Edward sorrise di quell’affermazione. E Cordelia avvampò, vergognandosi profondamente.

“Dalle mie parti, odiare una ragazza mai vista.” – commentò, incrociando le braccia e mischiando ironia a dolcezza – “Significa concupirne il cavaliere.”

“Solo dalle tue parti.” – tagliò corto Cordelia, cercando di non soffermare la mente sul ricordo – “Vado avanti? Ti interessa?”

“Mi interessa. Voglio sapere tutto di lui. Tutto.” - le sorrise, tollerante, lasciando perdere il battibecco. E chiese, dolcemente - “Ti sembravano felici?”

“Tanto. Soprattutto lui. Ricordo che lo scartai perché…” – Dannazione, di nuovo nella sua trappola! – “Ricordo che lo scartai perché aveva l’aria terribilmente… completa. Non so se mi spiego…”

 

Come poteva spiegarlo se solo ora lo capiva anche lei? Completo… non l’aveva classificato così, allora.

 

Il ragazzo biondo, così appetibile e così a portata di mano, le aveva provocato soltanto uno strano nervosismo, un brivido a cui reagire con superficialità. Non aveva voluto capire… perchè accettare di riconoscere l’amore vero con tale facilità, avrebbe negato l’importanza delle macchine, dei soldi e di ogni suppellettile in cui la sedicenne che era stata tanto confidava.

 

Solo ora, dopo molta strada imprevista, Cordelia poteva ammetterlo. Amore vero. Amore vero che impregnava quel profilo sconosciuto e quel sopracciglio interrotto.

“Gli ha spezzato il cuore.” – sussurrò Edward. E non era una domanda inopportuna, ma una certezza divenuta realtà innazi ai loro occhi.

Perchè Spike aveva ucciso Drusilla. E l'aveva fatto per scelta. Ed ora pagava quel dolore sul suo stesso corpo.

 

Il corpo non dimentica... non dimentica mai...

 

“Temo proprio di si.” – sospirò lei, amssaggiandosi un piede. Ma è guarito già una volta… e guarirà ancora - “Andiamo avanti? Vuoi sapere di harmony?”

 

“No, in effetti stavo pensando di ripartire da Cecily.” - replicò Spike. E la sua voce suonò diversa, come più... più Spike.

Poi un occhio blu si aprì e squadrò con sufficienza l'altro occupante del letto.

“Peccato, adesso che la cosa si stava facendo piccante.” – Edward sentì la bocca non controllarsi, in un sorriso. E resistette al desiderio di abbracciarlo e distruggergli ogni osso non compromesso dalle battaglie delle ultime ore, imponendosi di fingere incuranza – “Non eravamo arrivati finalmente a Buffy?”

“A dire il vero…” – Spike ignorò la frecciata, con analoga strategia – “Credo ci sia stata Harmony…”

“Harmony? Harmony la compagna di scuola di Cordelia?”

“Si, ma... Edward?” - aggrottò la fronte, come se finalmente il suo cervello stesse unendo i puntini.

“Si, William?”

“Come sai di Buffy?”

 

Edward rise piano. Di tante domande  basilari... dopo quasi un secolo di assenza...

 

“Bhe, sai...” - sussurrò, con aria furtiva - “Sono qui da oltre dodici ore... tu non dici una parola.. io con qualcuno devo pur chiacchierare...”

“Cordelia. Io la ammazzo.”

“Su, Will, non fare così. Tutti noi rubacuori abbiamo diritto a un’oca senza cervello. Se tu ti sei scelto Harmony... e lei ti ha tirato scemo...”

Spike borbottò qualcosa di inconsulto. Edward alzò la testa dalla mano e, pur restando sdraiato sul fianco, assunse un'aria saggia e paternalistica.

“Lo vedi, aggiungerei, cosa succede ad abbandonare le brune per le bionde?”

“Non c’è nulla di profetico in quello che mi ha fatto Harmony. Anzi, ogni tanto sospetto di essere stato io il bad della questione!” - ribattè, immusonito, orgoglio testornico in azione. E si voltò di nuovo, sospettoso - “Edward?”

“Si?” - inziava ad avere l'imrpessione che gli piacesse ripetere il suo nome. Non faceva altro, da quando lo aveva salvato da Drusilla.

“Se io sono in questo letto da tutte queste ore... come mai tu sei così calmo?”

“Ho già dato in escandescenza.”

“Ok. E sei riuscito anche a calmarti?”

“Sono ormai vecchio e saggio.”

“Ah.” - Spike aprì la bocca e la richiuse, stringendo gli occhi. L'occhiata diede a Edward l'impressione di essere appena stato sbucciato, come un'arancia - “Ed Angel ha dato di testa?”

“Più di me.” - rispose quell'altro, allegramente e senza pudore. Intanto, se Angel andava in giro a dire che l'aveva battuto a duello...

“Capisco. Quindi sei calmo per dire che ti sei comportato meglio di lui.” - concluse. Orgoglio Coventry versus Flagello... vecchia storia.

“Beccato.” - ammise, sorridendogli. William lo guardava di sotto in su, come se, da sempre, avessero conversazioni del genere, come se ogni mattina, da un tempo infinito, aprendo gli occhi, William sapesse di poter vedere Edward. E parlargli.

Ma, contrariamente a quanto stava pensando suo fratello, il surreale della situazione iniziava a colpirlo. Spike era sdraiato nel proprio letto, c'era Edward e non  ricordava nulla dell'accaduto. A parte Drusilla.

 

Era il dopo Drusilla che non esisteva.

 

Ma c'era Edward. C'era davvero. E stavano lì, sdraiati uno a fianco dell'altro, a parlare di ragazze. Le sue ragazze.

 

Come se niente fosse.

 

"Parla non me, William..." - mormorò Edward, contemplandolo. Ma il fratello non gli rispose, lo guardò soltanto, assorto. Aveva cambiato espressione e gli occhi erano divenuti grigi, come un tempo. Un tempo lontano. In silenzio, come se non fosse presente, se non nella sua mente, come ogni altro giorno.

 

No, Edward. Non farlo. Dimmi che sei qui. Fammelo sentire.

 

"Alza il braccio." - aggiunse, movendosi e insinuandosi, contro il suo corpo, il viso sul suo petto. Edward lo sentì dilatare la cassa toracica, senza respirare. Senza respirare aria, ma solo il profumo della sua pelle.

 

Non fidarti dei tuoi occhi, sanno ingannare, sanno far vedere cose che non esistono. Fidati delle tue mani, fidati dei tuoi sensi.

 

E respirami.

 

Gli venne da piangere, come una fitta, come un dolore incontrollabile. Il rimpianto e la gioia si confusero, mentre lo stringeva e chiudeva gli occhi.

C'era stato un tempo in cui non avevano fatto altro, senza speranza, spasmodicamente, certo che si sarebbero dovuti separare, per sempre.

 

Ed ora, ora il per sempre aveva cambiato il corso.

 

Si, sono qui. Sono qui, William.

 

***

 

"Credo sia sveglio." - disse Angel, chiudendo il libro. E Faith, con la testa sul suo ginocchio, alzò lo sguardo.

"E come lo avresti scoperto, da qui?" - domandò, indicando il divano su cui stavano draiati. Indubbiamente Spike era solo dall'altro del pianerottolo ma non così vicino da vedergli spalancare gli occhi. Soprattutto con uan porta chiusa in mezzo – "Raggi laser?"

"No. Direi di no." - le rispondeva in maniera educata e senza cogliere per niente la presa in giro delle sue parole. A quanto sembrava, anche Angel poteva risentire dell'insonnia – "Ma, da qualche tempo, lo percepisco meglio del solito."

"Si. Tutti empatici qui dentro. L'ho capito. E l'acqua? Vi state modificando?"

"No, non credo. È che..."

"Angel, ti prego." - sospirò, raddrizzandosi e sedendosi appoggaindosi alla sua spalla – "Ragiona. Ti sto prendendo in giro. Smettila."

"Ok." - posò il libro e spostò il braccio, perchè si mettesse più comoda – "Non vuoi andare?"

"No. La penso come te."

"Ed io come la penserei?"

"E' oltre un secolo che vuole quell'abbraccio. Se lo goda."

"Già." - la cinse, posandole il mento sulla nuca, come ormai era abitudine. E fissando la porta. Al di là di quell'uscio, Spike era con Edward. Ed era abbastanza, almeno per il momento.

"L'anima, quindi?" - domandò Faith, dopo un attimo. Dopotutto, a pensarci bene,  l'argomento le interessava - "Il vostro legame si è potenziato?"

"Qualcosa del genere." - Angel non era certo si potesse spiegare con i termini che Wes stava ancora stilando. Ma era approssimativamente la descrizione migliore – "Ho pensato a lungo che si tratttasse del demone, per via dei marchi attivi, dei morsi, ma non è solo questo. Il sangue conta, indubbiamente,  potenzia il segnale. Ma il motivo è qualcosa di diverso."

 

E' nel sangue certo.

Ma nell'anima, soprattutto.

 

"L'ho compreso in queste ore. Potevo sentirlo, ogni volta che cedeva al dolore e il demone non lo sorreggeva. Ogni volta che tornava più vicino all'umano che era stato...." - parlava con lentezza, lasciando che i fotogrammi gli scivolassero innazi agli occhi. Spike, il suo dolore, le sue battaglie, le sue parole – "Era come averlo a fianco."

 

Non sono io che non capisco.

Siete voi che non mi conoscete.

 

Forse non mentiva. Nessuno lo consceva realmente. Forse solo Dru, dopotutto. E, irrazionalmente, Angel si domandò se Drusilla sapesse che ad ucciderla infine sarebbe stato Spike, se mai fosse esistita una visione di quell'attimo.

 

Lo volevi forte. Volevi che lo fosse, a tutti i costi...

 

"Andiamo Dru, non puoi volerlo veramente…"

"Perché no… è dolce… è buono… perché no, perché non un fratellino…."

"Se lo vuoi veramente, arrangiati. Perché dovrei farlo…"

"Sarebbe più forte… sarebbe completo. Stupido attaccar una foglia ad uno stelo d'erba.. uniamola ad un forte tronco, diamole il nutrimento…"

"Hai detto giusto. Una foglia deve appassire. Finiscila con queste bambinate."

 

Una foglia. Il vento ti ha portata via... in un granello di polvere.

 

"A cosa pensi, Angel?"

"A nulla in particolare..." - rispose, vago. Aveva sentito la mano di Spike penetrare il petto di Drusilla, mentre diveniva cenere. E non si era voltato.

Aveva solo confusamente intuito, mentre le stelle divenivano intermittenti.

Scomparsa.

Definitivamente scomparsa, con il suo sorriso, con i suoi occhi viola.

 

William l'aveva uccisa per lui, non per Edward. E le sue parole, come una promessa, rimbombavano ancora.

 

Ti avevo avvertita... non devi alzare un dito su mio fratello.

 

L'avevo avvertita. L'avevo avvertita. Lo aveva ripetuto senza sfinirsi mai, in piena incoscienza. L'aveva chiamata, aveva menzionato date, posti, frasi che le sussurrava, ricordi. Non aveva mai taciuto, non era stato del tutto consapevole di  chi fossero gli ascoltatori, gli interlocutori.

Probabilmente, dentro alle palpebre, serbava solo Drusilla, Drusilla fino all'ultimo sguardo.

Ed Angel, in tutta coscienza e vigliaccheria, sperava che avesse chiuso gli occhi, senza guardarla nel distruggerla.

 

Ma non si faceva particolari  illusioni.

Spike non chiudeva mai gli occhi innanzi a nulla.

 

"Non dirmi cosa stai pensando, dimmi solo come ti senti."

"Stanco." - ammise Angel. E vuoto. Vuoto, al centro del petto – "E, anche se non apprezzerai, sento la mancanza di Drusilla."

Rimase in silenzio, un lungo istante.

"L'assenza." - corresse, poco dopo, lo sguardo sempre fisso alla porta chiusa – "Sento la sua assenza. Come con Darla... passerà, con il tempo tutto si attenua."

Faith non disse nulla. Non disse che non gli credeva. Gli carezzò solo un braccio, il maglione sottile e scuro.

Da quando era tornato, con Edward e con uno Spike esanime tra le braccia, Faith lo aveva visto attraverssare una gamma di emozioni inusuale per lui, dall'esasperazione fino alla calma gelida ad un passo dalla furia.

Angel forse non aveva ferite sul corpo, a qualcosa si era incrinato in lui, durante quella battaglia, durante quel giorno infinito.

 

Spike e Drusilla, su due fronti diversi, in due modi antitetici, gli avevano succhiato le forze e la tenacia, fino a lasciarlo stanco, spossato, senza possibilità alcuna di esprimersi.

E il peso di aver salvato solo uno dei due, sembrava schiacciarlo ancora. E ancora.

 

Al tramonto.

 

"Sono qui." -  Faithlo disse cercando di alzarsi e riuscendo solo per forza di volontà. La ferita bruciava, sembrava attraversarla come un fuoco, ma non erra nulla in confronto alla certezza che la porta che si sarebbe aperta, all'Hiperyon, forse spinta dalla man di Angel.

Wes le correva già davanti, senza preoccuparsi di chi lo stesse seguendo. Ed era già quasi alla soglia quando Angel, con una spallata, spalancò uno dei doppi battenti, voltandosi e attraversando l'ingresso, senza degnarli di un'occhiata.

Cordelia, a fianco di Faith, sussultò, fermandosi.

 

C'era Spike tra le braccia di Angel. La testa reclinata indietro, un braccio scivolato, un leggero movimento dovuto alla rapiudità con cui Angel si muoveva. E c'era Edward, a fianco di Angel, con la stessa espressione furiosa, imbrattato di sangue fino ai capelli, gli occhi elettrici e freddi.

Una mano la fece sussultare, obbligandola a spostarsi. Forse tutti loro erano intenzionati a godersi la scena, ma Methos era per una ben differente opzione, correre su dalle scale, alle spalle di entrambi.

 

Si impose di non pensare al resto, senza riuscirci del tutto. Perchè l'attimo in cui Methos le aveva posato una mano sulla spalla, Faith aveva provato una paura mai sperimentata prima.

 

Spike era a casa. E c'era Edward. Ed Angel... Angel lo sosteneva come se fosse una bambola spezzata, con gli occhi vuoti.

 

Una bambola, con gli occhi vuoti.

 

Aveva represso la nausea, il gelo improvviso, aveva cercato di correre dietro tutti gli altri. Ma non vi era riuscita. Si era appoggiata al muro, respirando piano. Spike era a casa, con Angel, con Angel, con Angel. Spike era a acsa, con Edward, Edward e il sangue, c'era luce e buio e Spike era tornato, tornato con loro... il cuore le stava esplodendo nel petto, lo sentiva.

 

E, quando aveva sentito un rumore di passi lento e morbido, si era ritrovata a fianco soltanto Doyle.

Doyle, con gli occhi lucidi e l'aria stanca. Troppo stanca.

 

"Respira piano." - le aveva sussurrato, in uan carezza – "Ora passa."

"E'... io non..."

 

"E' panico, Faith, sta amplificando il tuo istinto di cacciatrice. Non lasciarglielo fare. Respira e non avere paura." - la carezza era proseguita. Impedisci alla paura di schiacciarti o vedrai il futuro... perchè anche la paura può svelare brandelli del destino – "Stanno bene, stanno tutti bene. E Drusilla è morta."

"C- come?"

Ma il demone aveva scosso la testa, enigmatico. Gli occhi di Doyle, nuovamente azzurri, erano in tempesta, pieni di un qulacosa che Faith, approssimativa per natura su tante cose, non sapeva decodificare.

Doyle aveva occhi pieni. Pieni di vita, di una vita che non era limitata alla propria.

 

"Non ci pensare. Volevo solo lo sapessi, di Dru. Avremo tempo per parlare, non aver paura. Respira soltanto, ora. E poi... poi vai da loro."

 

Avremo tempo. Non aver paura.

 

Avrebbe voluto parlargli delle parole di Doyle. Ma ritenne che non fosse il momento. Come Cordelia, che gli aveva nascosto quei doni nascenti per non intromettersi tra i suoi pensieri, Faith non gli disse della profezia risuonata tra le mura dell'hiperyon.

 

Sei pronta, Faith? Sei la prescelta, il tempo ti ha atteso a lungo.

La fine non è lontana, Faith.

E, dopo sarete intrecciati per sempre.

Non temere.

 

"Il sangue si è riunito..." - sospirò Angel, senza pensare, ripetendo le parole di Doyle, della breve e assurda conversazione che avevano avuto all'alba, in un innaturale silenzio – "Ora sarà tutto come deve... come deve..."

"Si. Lo so." - rispose la cacciatrice, senza distogliere lo sguardo da un punto imprecisato della stanza.

 

Si, lo so. Lo sento.

 

Avremo tempo, ripetè a se stessa, per convincersi. Avremo tempo e saremo pronti, di qualsiasi cosa si tratti.

 

Poi, con un sospiro, chiuse gli occhi.

 

***

 

"Ciao." - Doyle sedeva sotto al portico, fumando una sigaretta. Aveva finalmete rinvenuto il giornale, ormai vecchio, in una delle aiuole laddove quel solito dannato ragazzino senza mira doveva averlo spedito senza rimorsi. E cordy, sedendosi al suo fianco e porgendogli una tazza di caffè, lo aprì distrattamente.

"Incendio al porto..." - lesse, nelle pagine di cronaca – "Magazzini distrutti... rumori e schiamazzi... non è tutto opera nostra, vero?"

"Tutto e più ancora." - sospirò Doyle, con aria divertita – "Fino al trafiletto sul 'motociclista volante in una nota zona merci'. Ancora sconosciuta l'identità del centauro. "

"Dimmi che stai scherzando..."

"Assolutamente. Penso che Faith vorrà appenderlo in camera. È lusinghiero.. ed era dai tempi della sua presunta morte che non finiva su un giornale." - bevette un sorso, improvvisamente distratto. La presunta morte. L'esplosione della prigione era stata presumibilmente opera del consiglio... ma perchè eliminarla? Perchè bloccava la stirpe?

 

Oppure...

 

Scacciò via la fastidiosa sensazione di dover correre dietro all'ennesima farfalla karmica. Voltare lo sguardo nella sua direzione significava obbligare tutti ad alzarsi e cominciare a girare in tondo fino ad una soluzione.

E Doyle per primo, portavoce degli abitanti dell'hiperyon, sapeva di essere troppo stanco per salvare il mondo nelle prossime ore.

 

Cercherò di fare gli straordinari il prossimo week end.

 

"Allora, il responso?" - chiese, gettandole un'occhiata storta – "Ti hanno anche spogliato e valutato i possibili marchi del demonio?"

Cordelia, in tutta risposta, gli tirò una gomitata.

"Te li do io i segni del demonio!" - ribattè, decisa – "Doyle, insomma! Ma non ti preoccupa la mia salute?"

"No, mi preoccupa che tu non me lo abbia detto. La tua salute non ha un accidente di niente."

"E tu come lo sai?"

"Ho barato."

"Doyle!"

"Cordy!" - scimmiottò il suo tono scandalizzato, sbarrando gli occhi. Ed erano occhi così vivi e azzurri che la ragazza non resistette al desiderio di baciarlo. E baciarlo. E baciarlo.

 

Con un impeto tale da rendere il suo incarnato di un blu appena più acceso delle iridi.

 

"Oh, quanto ti amo, cervello di gallina."

"Principessa, per favore. Non si vede a colpo d'occhio, ma ho una dignità pure io."

"Non mi importa." - lo baciò ancora – "Ma mi importa di tutto il resto."

Doyle le sorrise, cingendole la vita e attirandosela contro il petto. Rannicchiati così, contro la colonna, in un attimo di silenzio, Cordelia e Doyle respirarono l'aria del tramonto, dolce e soffusa.

"Siamo sopravvissuti anche questa volta..." - sussurrò, giocherellando con la sua treccia e sciogliendola, con dolcezza – "Un po' più sconvolti, un po' più confusi... ma è fatta."

"E ora?"

"Ora non preoccupiamoci di nulla."

"Ma presto dovremo." - replicò Cordelia, alzando la testa verso di lui – "o sbaglio?"

Doyle la contemplò, con un lampo serio negli occhi.

"No, non sbagli." - replicò, scivolando con le dita da una ciocca al suo viso – "L'evento verso cui avanziamo è la causa dei tuoi poteri e il fine ultimo. Ma non devi averne paura. Non ne hai motivo."

"Davvero, Doyle? Perchè io, qui dentro... qui dentro sento qualcosa di diverso."

"So cosa provi, principessa. Ma devi fidarti di me. Avrò bisogno del tuo aiuto, nelle prossime settimane, mi serviranno informazioni, informazioni particolari. E credo che..." - respirò a fondo, cercando le parole – "E credo che tu ed io potremo raccoglierne di più, se ci completeremo a vicenda."

Cordelia si era raddrizzata, per vederlo in viso.

"Magia?" - domandò soltanto, come rassegnata – "Ci faremo di funghi allucinogeni?"

"Mi piacerebbe in effetti. Non vedo un tramonto giallo e verde da una vita. Ma no, non credo." - scosse la testa, fingendo di essere dispiaciuto. Ma aveva gli occhi tristi e sciupavano le sue battute – "Tu puoi sentire, io posso vedere. Cercheremo insieme e  mi aiuterai a capire. Andrà tutto come deve andare."

"Lo sai con certezza?"

"No, lo so per Fede." - sorrise, di quell'affermazione. E la baciò ancora, una frase enigmatica sulle labbra – "E lo so, da quando ancora si trattava di Eresia..."

 

***

 

"Bene. Adesso vado a casa e dormo per i prossimi cinquemila anni. Ciao, Price, conserva in buono stato la baracca."

"Si, Methos." - Wes attirò a sè un libro con un dito, fingendosi interessato – "Qui dice che tra duemilasettecento anni collasserà l'oceano. Ti chiamo per vederlo? Vuoi puntare la sveglia?"

 

Methos, con un piede già a cavallo della porta, si voltò. E Price, le mani senatorialmente intrecciate sullo stomaco e i lunghi piedi che sporgevano da sotto la scrivania, gli sorrise, beatamente.

"Di un po', Price, è quello che chiamano humour inglese?"

"Yes."

"Bene. Non farebbe ridere nemmeno gli inglesi." - comunicò, tornando indietro e ripiombando nella poltrona appena lasciata libera – "Io li conosco da prima che lo fossero, per cui credimi. E ora, veloce, dimmi che vuoi."

"Non ho detto di volere qualcosa."

"E risparmiami il tono svagato da chierichetto."

"si, Methos. C'è qualche alcolico che può aiutarti a sopportare la mia presenza ancora dieci minuti?" - domandò, alzandosi e ignorando i borbotti seccati che sorgevano dalla sua migliore poltrona di pelle.

"Un dito di ognuno. E mischiali bene."

"Altro?"

"Basta Chopin. Leva quel disco. Hai mai sentito parlare di Bananarama?"

"No, per ho tenuto di ricordo un LP di BoyGeorge."

"Voglio morire..." - gemette, lasciando andare teatralmente la testa contro lo schienale. E una mano gentile gli mise tra le dita il bicchiere – "Che vuoi?"

"Voglio sapere cosa hai fatto a Spike."

 

Methos alzò la testa, fissandolo, sorpreso.

 

"Io? Cosa vuoi che abbia fatto a Spike!"

"Io stavo parlando con  Doyle e cordy, quando Doyle è sttao male. Ma tu stavi parlando con Spike." - insistette, sedendosi sul bordo della scrivania e con aria decisamente spaccona – "Io sarò un simpatico omuncolo da biblioteca nel tuo immaginario, ma non sono uno stupido. E dopo tanti anni di servizio qui in america sento a pelle la magia. A pelle."

"A pelle."

"Esattamente."

"Sei mago merlino?"

"E tu sei Mandrake?"

"Bhe, si. Ma è una lunga storia."

Wes si passò una mano sugli occhi, posando gli occhiali sul tavolo. E respirò a fondo.

"D'accordo, saltiamo subito al punto." - disse, alla fine, riafferrando il proprio bicchiere – "Lo hai ipnotizzato? Oppure gli hai dato qualcosa che avevi e che gli serviva diperatamente?"

Piegò la testa, lo fissò ancora.

"Cosa hai detto, o fatto vedere, a quel ragazzo perchè riuscisse in ciò che ha compiuto?"

 

Mi piacciono i sentimenti.

Mi sono sempre piaciuti.

Ma William non ha usato solo amore per salvare Edward. Ha usato una forza che lo pone al di fuori del comprensibile... e del profetizzabile.

 

"Nulla. E lui, dopotutto, ha solo denuclearizzato  una ex spostata. Qualunque camionista sa farlo."

"Tu sai benissimo che non si è trattato solo di questo. Tu hai messo Spike nell'ottica di..."

"No, inesatto." - lo interruppe Methos. E un sorrisetto inspiegabile gli passò negli occhi – "Io ho messo William Coventry in grado di compiere il suo destino una volta per tutte."

 

Wes lo fissò. Ecco, di nuovo, il tempo. Methos stava di nuovo emanando quel potere, sotto pelle, senza un battito di ciglia. Il tempo dell'uomo nei suoi occhi.

 

"Hai mai fatto il gioco dei se, Wes?"- domandò, radrizzandosi. Il bicchiere stretto tra le mani luccicava, la posa era indolente – "Se questo non fosse successo, se quello fosse stato... sliding doors, hai presente?"

Annuì, senza fiatare. E Methos semplicemente proseguì.

"Se Angel non avesse dannato Drusilla.. se lei fosse stata un Cantastorie a tutti gli effetti... chi sarebbe stato il prescelto?"

"Io non..." - si interruppe. Oh, al diavolo! - "William. Sarebbe stato comunque William. Lo ha trovato e dannato perchè non ha saputo fare altro."

 

Ecco. È questo che penso.

 

"Si, una spiegazione avvincente. Il cantastorie fallito ha trascinato con se l'eroe. Non mi sorprende, una mente rigida come la tua non poteva produrre altro. Ma con un piccolo irrilevante particolare: ti stai sbagliando." - Methos scosse la testa, un mezzo sorriso – "Non lo trovi ironico, Wes? Drusilla è arrivata molto vicina al suo guerriero della luce, ma io sono stato più veloce di lei. Di quasi due anni."

 

Il guerriero della luce non è Spike. È Edward.

È sempre stato Edward.

 

"Stai scherz... no, mi rifiuto di ascoltarti."

"Mi hai chiesto una spiegazione, te la sto offrendo su un piatto d'argento. Vuoi metterti proprio ora a saltare a conclusioni affrettate come un vero cretino?"

Wes si trattenne dal rifilargli un pugno. No, anzi, due.

 

Uno per la visione del mondo che aveva.

E il secondo per avergli dato del cretino.

 

Ma, soprattutto, ribadì al suo cervello e alla sua mano, per la visione del mondo. E di Spike.

 

"Allora finisci di spiegarti." - sibilò, restando immobile.

"Edward era il prescelto, credimi. Ne aveva le doti. Ma io credo che il caso sia stato molto più potente di un calcolo matematico quasi perfetto e che Drusilla lo abbia saputo girare a proprio favore." - si lasciò andare, rilassato, accavallando le gambe – "Facciamo una piccola divagazione. Come ben sai, io conoscevo piuttosto bene la madre di Doyle, Sinead."

"E con ciò?"

"Era una gran donna, ti sarebbe piaciuta. Conosceva Edward ed era della mia stessa opinione: schifosamente prescelto. Sarebbe potuto, ma non è stato. Succede, a volte. Ma Sinead diceva che le predestinazioni nel cosmo sono come i lanci di sassi nello stagno. Non puoi sapere quanti rimbalzi farai, ma ciò a cui punti è che siano sempre più che nel tiro precedente. Noi potevamo avere Edward... ma abbiamo avuto Spike. E questo per merito di Drusilla."

 

Sorrise, divertito.

 

"No, Wes, Drusilla non ha sbagliato. Drusilla sapeva come lanciare il sasso molto più lontano del previsto. Anche senza lucidità nella spiegazione e nell'atto ha comunque visto, compreso, compiuto il suo dovere con i mezzi che aveva. E lasciamelo dire, ha saputo contare piuttosto bene i rimbalzi."

 

Ha mosso le sue pedine con maestria.  Ci ha intrecciato, nel tempo e nello spazio senza permettere a nessuno di deviare dalla propria traiettoria.

Dal voltarsi a fissre Angelus dritto in viso, fino al tagliare la gola a una cacciatrice insignificante in un liceo, Drusilla ha tessuto la propria rete... non senti i fili avvilupparti?

 

Non sei contento che sia morta, se pensi a questo arazzo cosmico che ha intessuto?

 

Wes si era seduto, riflettendo. Aveva dimenticato la belligeranza, la propria teoria, la sua fede nelle leggende e nel destino. Ed ora, con agghiacciante lucidità, scomponeva ogni singolo frammento in altri più piccoli, facendo combaciare i pezzi.

 

"Drusilla sapeva? Ma sapeva... cosa."

"Non cosa, Wes. Da quanto. Quando, Drusilla ha compreso cosa sarebbe successo? Quando tutto è stato perduto? tra le braccia di Angelus? Oppure prima, quando ha avuto in dono le visioni? È una domanda intrigante, non credi? Persino per uno come me che non crede a tutte queste idiozie."

 

Non ci credo. Ma ne faccio parte.

Si piegò verso di lui, complice. E per l'incontrollabile gusto di tormentarlo.

 

"Rispondi solo a questa domanda, Price, mentre attendi che io mi decida a raccontarti la prossima puntata: quando Drusilla ha cominciato a contare i rimbalzi per poter portare William Coventry fino a qui?"

 

***

 

"Edward..."

"William." - rispose, abbassando gli occhi. E lo ripetè, sottovoce – "William..."

 

Sotto al suo braccio, con la testa reclinata e la mano non lontano dal viso, Spike aveva continuato a parlare e a dormire, indisturbato. Ora, chiamato in quella maniera, l'angolo della sua bocca si era inarcato, lieve, in un sorriso soddisfatto.

"Non fingere di dormire." - aggiunse Edward, cercando di importunarlo nel soffiargli dentro un orecchio – "Tanto ho capito che sei sveglio."

Giocava con lui. Lo tormentava appena, per il piacere di sentirlo vivo, solido, ancora il fratello della sua infanzia, disposto a lasciarsi fare di tutto. E non desiderava altro, di nessun genere.

Quante ore erano passate, ancora, si chiese Spike, ascoltando il respiro di Edward, la sua voce chiamarlo per nome. Quante.

 

"Non te ne sei andato..."

"Ti ho mai dato l'impressione di volerlo davvero fare?"

 

No, in effetti no. Edward non aveva fatto altro che inseguirlo, implorarlo. Ed anche in quel momento, nel momento in cui se lo era trovato innanzi, inaspettato, a casa di Methos, Edward non sene stava andando.

Stava venendo a cercarlo

E questo, ora, Spike lo sapeva con assoluta certezza.

 

"Meno male che sei tornato... ero così stanco di sognarti soltanto..."

"E questo, Will, è un sentimento reciproco... "

 

Mi mancavano le tue parole. Mi mancava la tua espressione.

Mi mancava tutto di te.

 

Tutto.

 

Non sono io la tua luce. Sei tu la mia.

 

"Non hai fame?"

 

Edward rise, piano. Poteva avere il profilo da cherubino, le ciglia lunghe un chilometro, ma quando apriva bocca sembrava...

"Will, il tuo audio non è sincronizzato al tuo aspetto." - sussurrò, piegando la testa verso il suo orecchio – "Non dovresti dirmi splendide e poetiche frasi con una posa così elegante?"

Spike scoppiò a ridere, sussultando, senza curarsi di aprire gli occhi. Era vero. Non faceva altro che dire la prima cosa che pensava, senza riflettere. E, avesse dovuto ammetterlo... era perchè si sentiva disconnesso. Separato.

Galleggiava tra la gioia di riavere suo fratello e l'abisso incolmabile dell'assenza di Drusilla. La mente, in bilico sopra al cuore, non propendeva per uno, non scivolava verso l'altro.

 

Galleggiava. Si, galleggiava.

 

E le braccia che lo scaldavano erano come un'ancora.

 

"Davvero mi trovi elegante?" - chiese, sfuggendo alla domanda e aprendo un occhio. Edward lo sovrastava, piegandosi su di lui. E Spike gli afferrò la mano, obbligandolo a scivolare, la testa sul cuscino, lo sguardo nel suo – "Cosa vedi, Edward?"

"Mio fratello. Vedo te, William. E del resto non mi importa."

 

Era una risposta semplice. E c'era Angel, in tutta quella risposta.

Una vita prima, lui ed Angel avevano diviso lo stesso cuscino, guardandosi.

Non ti lascerò mai, aveva sussurrato. Come due fratelli.

E ora, William stringeva le dita di Edward con la stessa tenacia.

 

Gioia e dolore.

Vita e morte.

Luce e oscurità.

 

Angel. Ed Edward. Ora e per sempre.

 

"Ora e per sempre?"

"Ovviamente. Non ho altri impegni per l'eternità." - rispose suo fratello, disinvolto, afferrandogli al punta del naso  con due dita – "E si, pensandoci bene, ho fame. Ci alziamo?"

 

***

 

"E' permesso?" - Edward battè due dita sullo stipite della porta. E il coro di 'entra' gli piacque molto. Abbastanza da spostarsi con gesto teatrale.

"Signore e signori, ho il piacere di presentarvi..." - disse, un braccio dietro la schiena e l'altro ben teso – "Mio fratello, William Coventry."

Spike fece un trionfale ingresso, con tanto di braccia alzate e inchino.

Seguì un applauso scrosciante. E, risate. Poi, mentre Spike si abbandonava a un sano bagno di folla, Edward ne approfittò per rifilare un colpetto sul torace di Angel.

"William Coventry, nostro fratello." - sussurrò, impercettibile, passandogli sui piedi.

 

Angel abbassò lo sguardo, celando un sorriso. Era proprio vero, Edward portava sempre la luce.

 

Nostro.

Si, forse.

Nostro in tempi differenti, in mondi diversi.

Nostro, sulla linea di demarcazione tra la notte e il giorno.

 

"Allora, birra?" - domandò l'immortale biondo, subito dopo. con tono normale, riapparendogli a fianco e tendendogli una bottiglia – "Che ne dici, brindi con me?"

"Non vorrai fare a botte, dopo, vero? Ti ricordo che è finita così, l'ultima volta che abbiamo bevuto assieme."

"No, assolutamente. Non desidero ammazzarti. Mi piaci, per essere uno zannuto mi piaci." - le stringeva per il collo, in una mano sola. E le apriva, deciso, con l'altra. Era Spike, nella versione ricciuta e rilassata – "Devi solo smettere di dire in giro che mi hai battuto in duello."

"Io ti ho battuto, Eddy. E ti ho battuto anche la volta della birra, a mani nude."

"No, non è vero. Quella volta sono morto. Non conta."

"Se lo dici tu..." - sorrise, afferrando il vetro e lasciandolo tintinnare – "A te, Coventry, alle tue battaglie vinte."

"No, Angel." - Edward scoss el atesta, fissandolo negli occhi – "Io brindo a te."

 

A te, vampiro con l'anima.

A te, per ogni attimo che abbiamo condiviso, nel bene e nel male.

 

E per aver traghettato William, nel tempo, fino a un giorno in cui ci saremmo potuti rivedere, ad un vita che avremmo potuto condividere.

 

"Ehi, Wes." - Faith era tra le braccia di Spike, ma si protese ugualmente indetro, strattonandolo per una manica – "Guarda quei due. Sono tutto colore e niente colore. Come si dice?"

 

L'osservatore aggrottò la fronte, perplesso.

 

"Monocromo e policromo?" - domandò, guardando Angel ed Edward, uno vestito rigorosamente di nero e l'altro in grigio e azzurro.

"Si, ecco, chiamiamoli così!"

"Monocromo e Policromo?" - Spike si era voltato, senza rinunciare a stringerla. E il suo sopracciglio spaccato si stava inarcando, sarcastico – "Mica male... se dobbiamo urlare i loro nomi servono dieci minuti ma, se credi sia una buona idea, con i guai in cui sanno infilarsi..."

 

Chiamiamoli come vogliamo. Intanto, per me, si possono definire entrambi con un'unica singola parola.

 

***

 

Nessuno si era chiesto nulla. Nessuno si era domandato da dove giungessero tutti gli altri, con che segreti celati in fondo al cuore. Nessuno aveva avarcato la soglia serbando angoscia o desiderio di risposte.

Quando Edward e Spike li avevano raggiunti, erano semplicemente stati tutti insieme, ridendo, parlando, azzuffandosi.

Non c'era nient'altro di importante, nient'altro su cui interrogarsi. E quando Spike si voltò, vedendo Angel fermo sulla porta, Edward comprese immediatamente che era il suo momento.

 

Il suo momento per levarsi dai piedi.

 

Spike si mosse, con passo felino. E, giungendo innanzi a Angel, colpì con al propria bottiglia la sua.

"Cin cin, Flagello." - mormorò. E un sorriso gli passò negli occhi, inaspettato. Ma era un sorriso triste – "Approfittiamo del tramonto?"

"Perchè no..." - rispose il vampiro bruno, lasciandolo passare e seguendolo – "Abbiamo una meta?"

"Forse. O forse no, vecchio mio. Forse non ci serve.. per una volta..."

 

***

 

"Ciao, Coventry."

"Methos." - piegò la testa, mantenendo i gomiti appoggiati alla ringhiera – "ti sono mancato?"

"A dire il vero..." - ammise l'immortale, appoggiandosi a fianco con al propria birra tra le mani – "Temevo stessi per diventare una mancanza perenne..."

"E da quando sei così pessimista?"

"Non so. Mi è venuto il dubbio che avessi smesso di sperare in un lieto fine. E si  sa, tu sei uno del 'pensa positivo e camperai cent'anni... pensa negativo e saremo fottuti...' "

"Si, è vero." - ammise Eddy, ridendo. Aveva occhi brillanti, sereni. E Methos ne fu  contento, in maniera sincera e incredibilmente pulita.

 

Ti meriti questa gioia, Eddy. Te la meriti da sempre.

 

"Posso chiederti cosa farai, ora?"

"Ciò che cerco sempre di fare. La cosa giusta."

"Che questa volta sarebbe..."

"E' presto per dirlo." - replicò Edward, guardando il buio della notte sempre più tangibile e bevendo un sorso dalla bottiglia ancora fredda – "Ci vorrà del tempo per esserne certi..."

Methos lo guardò, sottecchi. Edward era corso con una mano al proprio collo, in maniera quasi pensosa. E, tra le sue dita, Methos intravvide la cicatrice, il segno del morso di William.

 

Quel marchio aveva cambiato la sua esistenza. Quella vita, passata dalle sue vene  a quelle di Spike non gli sembrava così irrilevante. E Drusilla... era presto anche per sapere cosa Drusilla avesse lasciato in lui, con le proprie parole.

 

Tu sapessi, edward... tutto fosse andato diversamente, con meno ambizione... con meno passione...

 

"Hai tutto il tempo del mondo." - replicò, con leggerezza – "Prenditi tutto quello che ti occorre."

"Si, forse lo farò." - annuì, lasciando ricadere la mano – "ho sentito di Doyle... me lo ha detto Cordelia."

"Si, un bello schifo." - ammise l'altro, disgustato – "Potessi lo ammazzerei. Io odio le visioni."

"Lo so."

"No, non penso che ti sia del tutto chiaro quanto le odio."

"Però posso immaginarlo." - insistette Edward, piegando la testa – "So come ci si sente quando chi amiamo sembra divenire irraggiungibile."

"Se la metti così, allora forse puoi."

Una frase degna del miglior magnanimo dissimulatore.

"Grazie della concessione."

 

Ma ti pare, Coventry...

 

"Ehi, disturbo?" - domandò Doyle, apparendo alle loro spalle – "Allora i magnifici della notte sono svaniti?"

"Sembrerebbe." - Edward si voltò, appoggiandosi alla balaustra – "Ciao Doyle, come ti senti?"

"Ti hanno detto che è una domanda d'obbligo nei miei confronti?"

"Con molti terrificanti particolari."

"Ah." - Doyle fece un cenno di stizza nella sua direzione – "Non li ascoltare. Sono paranoici. Tu, piuttosto? Hai dormito? Mangiato? Guarda che adeguarsi ai ritmi vitali del fratellino può essere dannoso per la salute. Ha una pessima alimentazione, piena di vere schifezze. E non dorme mai."

"Un vero animale della notte..."

"Eccome. Una baldoria fino all'alba." - gli strizzò l'occhi, stando al gioco. E poi, come sempre, si addolcì – "Diciamoci la verità, Edward... noi qui siamo ridotti uno peggio dell'altro. Ma per te, picchiato, dissanguato e ucciso, questa è stata comunque una splendida giornata."

"Sicuramente." - fece eco Methos, con una risata – "Un unico magnifico e luminoso bad day."

 

Edward bevette un sorso, in silenzio. E sorrise, senza guardarli.

 

Un unico magnifico luminoso bad day.

Si, perchè no. Dopotutto... dopotutto è vero.

 

"Ai bad days." - mormorò, tendendo la propria bottiglia verso le altre – "E a ovunque ci condurranno."

 

Bad day, gente. Bad day.

 

***

 

Non avevano pensato di avere molto da dirsi. Ma avevano camminato, con calma, uno a fianco dell'altro, bevendo birra. E, infine, erano giunte anche le parole.

"Sai... è incredibile. Questa storia, intendo."- ammise Spike, sbirciandolo – "Tu non credi?"

"Quando si tratta di te, tutto ha dell'incredibile."

"Oh, certo. Perchè tu, invece..."

"Io non sono così pieno di sorprese." - poi fece qualcosa di inaspettato. Si voltò. E gli sorrise – "William..."

Sapeva pronunciarlo. Aveva sempre saputo dirlo, con un inflessione morbida e bassa, dalla prima volta che si era azzardato.

 

Era passato tanto tempo da allora. Ma Spike non aveva dimenticato. Spike non avrebbe mai dimenticato.

Era stato nella pronuncia di quel nome che era iniziata la sua nuova vita. Una nuova vita, una nuova occasione per ricominciare e avere ancora qualcosa per cui valesse la pena di combattere.

 

Solo.

Spezzato.

Senza Drusilla.

Senza luce.

Con l'anima.

 

E con tanta strada da percorrere, uan strada su cui Angel non l'aveva mai lasciato solo. Mai.

 

Nè mai lo avrebbe fatto.

 

Perchè Angel, chiamandolo per nome gli aveva sussurrato che non tutto era perduto. E che tutto andava vissuto, ancora.

 

"Non smettere mai." - replicò, guardandolo, serio.

"Che cosa..."

“Di dirlo in quel modo.” - non voleva cedere. Non voleva. Ma quella lacrima già stava cadendo - “Non smettere mai di chiamarmi William.”

Angel lo fissò per un lungo istante prima di muoversi.

E, quando finalmente si decise, si avvicinò, afferrandogli le dita, stringendo. E le cicatrici, le loro cicatrici gemelle, sfiorandosi, sembrarono sprigionare calore.

 

Non sul corpo. Nel sangue e nell'anima è il nostro marchio.

 

“Hai la mai parola.” - disse, aprendogli le dita e posandoci il dupont d'argento. Non aveva mai smesso di tenerlo in tasca. E stringerlo - “Te lo prometto, fratellino. Te lo prometto.”

 

Spike abbassò lo sguardo, fissando il metallo. E la vista gli si annebbiò.

 

Tu mi hai mentito, Angel.

 

Mi hai mentito e lasciato solo.

 

“Mi dispiace.” - sussurrò, sentendo di tremare e non osando guardarlo in faccia - “Mi dispiace per ogni parola che ho detto.”

“William...”

“No, davvero. Edward...” - non riusciva a calmarsi, voltò la testa, cercando un appiglio nella strada - “Non posso spiegare cosa ho detto ad Edward, quasi non me lo ricordo ma.. ma so cosa ho detto a te. E cosa ho provato, nei tuoi confronti e ...”

Abbassò lo sguardo, di nuovo, stringendo l'accendino.

“Mi dispiace.” - ripetè - “Per tutto.”

 

E per Dru.

Mi spiace, Angel, mi spiace per Dru.

 

“Lei vi avrebbe fatto del male.” - Angel lo sentì, in un sussurro impercettibile - “A entrambi. Io dovevo fermarla.”

“Lo so.”

“Dovevo, Angel. Tu non lo volevi ma io... io sapevo che sarebbe successo. Sapevo che non l'avrei mai più posta nel mio cuore innanzi a nessuno. E Drusilla, Drusilla mi ha sorriso. Non ha smesso di sorridermi nemmeno mentre la uccidevo.”

 

Io non la potevo lasciar andare, questa volta.

Non potevo.

 

“Hai fatto la cosa giusta.”

“Tu credi?”

“Si.” - non se la sentiva di dire altro, poteva solo annuire. Si, io credo - “Hai fatto ciò che dovevi. E mi dispiace soltanto che, alla fine, non sia stato io a porre fine a tutto.”

 

Drusilla era mia. Ed io ero suo. Non abbiamo mai saputo tenerti fuori dai nostri giochi. E ti abbiamo conteso, come un osso, fin quasi a spezzarti.

 

Spike lo fissava dritto in viso. E aveva gli occhi pieni di lacrime.

“Alla fine, Flagello.” - ammise, cercando di sorridere e distorcendo soltanto un labbro che tremava - “Siamo rimasti solo noi...”

 

Angel allungò le braccia, senza riflettere. E Spike gli si rifugiò contro, il viso sul suo maglione, il senso di tranquillità che sapeva dargli quel corpo freddo e silenzioso.

Angel sapeva delle sue paure e delle sue debolezze. Angel era Angel.

Ed Edward, in quel continuo altalenarsi del suo cuore, era Edward, l'essere capace di portare la pace con un sorriso. Edward  lo aveva sempre compreso e amato, Angel non aveva fatto altro che proseguire la sua opera, con una maestria che li aveva resi entrambi indispensabili.

 

“Non sei mai stato il sostituto di mio fratello...”

 

Angel sorrise, di quella frase sussurrata a testa china. E strinse più forte, chiudendo gli occhi.

 

Io non conoscevo tuo fratello.

Ma conosco Spike, il vampiro con l’anima. Nel bene e nel male.

 

Ovunque andremo. Ovunque andrai. Per sempre.

 

[XII]

 

Era l'alba.

E Spike si sedette, in fondo al letto, intrecciando le mani.

“Sei deciso?”

“Direi di si.” - ammise  Edward, lasciando cadere un ultimo maglione dentro la sacca - “ma tornerò presto.”

“Io... io non ti capisco.”

“Lo so.” - gli sorrise, storto. E Spike si accese una sigaretta, palesemente irritato.

“Te ne stai andando.”

“E' proprio quello che sto facendo.”

“Tu mi sai qui.. e te ne vai.” - sbuffò fumo e lo fissò, seccato e ferito - “Mi devi un perchè.”

“Te lo devo?”

“Oh, si, Edward. Tu mi devi dire cosa passa in quella testa per prendere così tranquillamente una decisione del genere.”

“Lo faccio più che volentieri.” - mormorò, sedendosi. Avevano la sacca in mezzo e ancora un poco di confusione attorno.

L'appartamento di Methos era silenzioso, e non particolarmente accogliente, vista la vetrata mancante nel salone. William ed Edward lo avevano raggiunto a piedi, ma passando per i cunicoli, per il puro divertimento di fare qualcosa di diverso, in uno strano equilibrante scambiarsi dei ruoli.

Per strada con Angel, nel buio delle gallerie con Edward.

 

A Spike era piaciuto. Da morire.

 

Anche se, già sapeva che, emersi nello stabile, tra una sacca e una spada, la conversazione non sarebbe stata delle più piacevoli.

 

“Me ne vado perchè al momento ti sto fregando la concentrazione.”

“Ma che puttanata.”

“Non dire parolacce.”

“Tu parli come uno scaricatore di porto.” - lo accusò, borbottando, con la sigaretta tra i denti. Gli porse pacchetto e accendino, sempre borbottando - “Non farmi la paternale e dammi una spiegazione meno cretina. Quella vera, se ci riesci.”

“Non ti sto mentendo. E non ho detto una cosa cretina. Tu hai fatto qualcosa di molto grave, William. Lo hai fatto per me, per Angel e per motivazioni di cui non dubiti. Ma hai bisogno di tempo per accettarlo. E io, qui, non ti sto aiutando per niente.”

“Uh, come mi aiuta, il fatto che tu prenda la porta e vada!”

“Io non posso capire cosa sia stata Drusilla per te.” - aggiunse schietto - “ma Angel si.”

Spike si voltò di scatto, sbarrando gli occhi.

“oh.” - esplose, gli occhi azzurri enormi e per niente amichevoli. Sbalorditi - “Non ti starai mica facendo venire crisi di ...”

“William.” - il dito puntato al centro dei suoi occhi lo sorprese - “Taci.”

La bocca ancora aperta a metà dell'arringa si richiuse. Ed Edward si concesse un tiro di sigaretta, prima di alzarsi e inginocchiarsi di fronte a lui.

“Non ho nessuna crisi.” - comunicò, con calma. Aveva l'aria pacata di sempre, seria. E, per la prima volta, William vide una ruga, una leggerissima ruga sul suo viso.

 

Il tempo. Il tempo a cui non apparteneva lo aveva comunque segnato.

E non ce ne era stato per narrarsi nulla di quelle cicatrici.

 

“Voglio solo che tu possa fare chiarezza.” - aggiunse, con tranquillità - “Non sono stati giorni facili. Non c'è nessuno che ne abbia sofferto quanto te.

 

Il nostro incontro. Le nostre parole. Tu non riesci a parlarmi, William. Io lo so.

Credi di dovermi delle scuse, ricordi e non ricordi l'accaduto.

E io, qui con te, non faccio altro che confonderti.

 

Per favore, credimi, non ti sto lasciando.”

 

“Lo so. Stai cercando di fare la tua solita cosa giusta.” - c'era rassegnazione nella sua voce. Ma senza rancore. Solo rassegnazione - “Edward, ma non ti darai mai una calmata?”

Stava succedendo di nuovo, un nuovo cambio di dscorso, lontano da quello che avrebbe voluto dire. E Edward gli sorrise, con tristezza, di sotto in su. E si concesse ancora un tiro di sigaretta, per smorzare la propria tensione.

“No, non mi do una calmata. Scosse la testa e spense il mozzicone nel posacenere che Spike teneva tra le mani - “E non intendo cominciare a darmela, chiaro?”

“Ti voglio  bene, Edward.”

 

Stava per alzarsi. Ma si bloccò. William lo fissava. E aveva occhi torbidi e bui. Ma umani.

 

“Tanto.” - aggiunse, lentamente - “E penso tu abbia ragione ma... io non voglio vederti partire.”

“Lo so.”

“Non ci riesco.”

“E' giusto. Ma io partirò comunque.” - gli posò una mano sulla guancia e poi sul collo – “Quando deciderò che sarà il momento, afferrerò la mia borsa e me ne andrò, lasciandoti qui. Non devi seguirmi e non devi preoccuparti di nulla. Perchè io tornerò. Presto.”

 

“E lo prometti?”

“Ti voglio bene anche io, William. E tornerò.”

 

Non promise. Non poteva. Nel loro mondo, nel suo e in quello di Spike, una promessa andava mantenuta e troppe erano le incognite, troppi i rischi.

Avrebbe fatto tutto, fino all'impossibile. E l'avrebbe fatto perchè lo amava.

Non perchè l'aveva promesso.

 

“Ok.” - Spike tirò su con il naso e indurì la mascella. Sotto lo sguardo di Edward, gli occhi si schiarirono, come dopo un passaggio di nubi - “Posso chiederti dove andrai?”

“A casa.” - sorrise - “Ho una ragazza un po' particolare che avrebbe piacere di vedermi, una volta ogni tanto.”

“Hai una ragazza?”

“Ti sembro un tipo che non ne ha?”

 

William si rese conto vagamente di avere la bocca spalancata. E un sorriso in atto.

 

“Ma bravo.” - si complimentò, ammirato - “Sei diventato un casanova e non mi dici nulla? Ma tutte quelle cavolate sull'eterno amore?”

“Guarda che quelle cavolate le hai sempre dette tu. Io sono ...” - si piegò, complice, continuando ad armeggiare con le cerniere della sacca e sibilò - “...per il sesso senza inibizioni...”

“Oddio, Edward!” - era puritanamente disgustato - “Ma io non voglio saperlo! Non... non vorrai mica parlarmene!”

“Magari senza troppi particolari, che ne dici?”

“No.” - scosse la testa, formulò la parola con un cerchio perfetto delle labbra. sconvolto - “Mi importa solo del mio di sesso... e non voglio raccontartelo!”

“Come vuoi... noioso.”

“Perverso.”

“Perverso io? Ma ti sei visto?” - gli urlò, sparendo in direzione della palestra.

“Si, certo.” - grondava sarcasmo. Già non si poteva discutere con l'Edward dell'epoca vittoriana. Figuriamoci con l'immortale del nuovo millennio - “Solo perchè celo i miei veri sentimenti dietro una finta sicurezza... e tanta ironia...”

Scosse la testa, ancora. E, con la coda dell'occhio, vide qualcosa brillare, nella sacca ancora aperto. Lo afferrò, senza pensare, fregandosene di invadere la privacy di suo fratello.

 

Il portasigarette d'argento.

Il portasigarette.

 

Nella sacca di Edward.

Per un attimo credette di sbagliarsi. Ma, quando lo aprì, la scritta fu la conferma inevitabile.

 

Il regalo mai consegnato.

Quel compleanno che aveva cancellato tutti i successivi.

 

"Io adoravo compiere gli anni." - ammise, ad un tratto, fissando la sua attenzione su Faith ed Angel - "Era la festa di famiglia per eccellenza. Cascasse il mondo saremmo stati tutti a casa a festeggiare. Era la sera perfetta per fare e dire tutto. Non c'era niente che andasse storto. Per me aveva un senso incredibile. Poi… il resto è storia."

 

Non voleva dirlo.

 

Non c'è mai più stato motivo per crescere o festeggiare, senza di te.

Mai più.

 

E io, dopo un po', ho smesso anche di invecchiare.

 

Rimase in silenzio, con l'oggetto tra le mani. Ed Edward, di ritorno, si fermò un istante. Il suo battito variò di intensità. E, se Spike se ne accorse, non lo diede a vedere.

“Te lo ha dato Angel, vero?” - domandò soltanto, sentendolo avvicinarsi.

“Quando sono partito, l'altra volta. Ha detto che era giusto che lo avessi.” - ammise. E non seppe trattenersi - “Credo  che volesse fare qualcosa che tu avresti voluto.”

“E' così.” - gli rispondeva senza alzare la testa, senza guardarlo. Ma la voce era ferma - “Angel ha fatto bene. Volevo tanto che lo avessi.”

 

L'ho portato con me attraverso il mondo e la mia vita. Ma non l'ho mai usato. Solo una sera, una sola... perchè avrei voluto tanto che ci fossi.

 

Tese la mano ed Edward si riprese l'oggetto. Poi si piegò di nuovo.

“Vorrei darti anche io qualcosa.” - disse, gentilmente – “Qualcosa che voglio condividere con te da quando me ne sono andato. Me lo permetti?”

Spike annuì, senza dire nulla. Teneva gli occhi fissi in un punto imprecisato, senza guardarlo.

 

D'un tratto, gli sembrò di essere stanco. E sul punto di sbriciolarsi, divenire cenere. Il corpo gli pulsava di un dolore antico, come se non riuscisse a dimenticare.

No, il corpo non dimentica mai. Non dimentica lo sfiorarsi e il trovarsi. Non dimentica la pelle, le ossa, la forza altrui.

Il corpo non dimentica. E, talvolta, sembra disperdersi senza solidità.

 

“Dammi la mano.”

 

Gli ubbidì, senza discutere.

 

Ed Edward se la posò sul petto, tenendola tra le proprie.

 

“Ascolta, per favore.” - e inalò, a fondo.

 

Fu in quell' attimo che Spike comprese. Alzò la testa di scatto e lo fissò negli occhi. Edward respirava. Senza fatica, senza sofferenza.

Gli occhi dritti nei suoi, senza dolore.

 

Edward respirava, con un suono nitido, inaspettato. E dalle labbra di Spike uscì un singhiozzo strozzato.

 

Non era solo immortalità, non vita immutabile. Era vita, vita vera. E pura.

 

“Sai…” – Edward aveva gli occhi aperti. E fissava la parete – “Quando mi succede cerco di pensare ai libri che ho letto…alla musica dei concerti che abbiamo sentito… e mi domando se sarà il mio ultimo pensiero. Mi piacerebbe morire con qualcosa di bello in testa… Morire non è come morire dentro… è quello che temo…”

“Morire dentro?”

“Già… perdere me stesso, prima della fine. Perdere anche solo un minuto di quello che mi resta. Come quando provi un dolore enorme… o sei ancora vivo e non vorresti più esserlo… io voglio morire tenendo la mia vita sotto gli occhi…”

 

“Voglio la mia splendida vita… tutta davanti agli occhi…”

 

La mia splendida vita, tutta davanti agli occhi.

Ed Edward lo fissava, senza lasciargli andare le dita.

 

“E' così, ora.” - disse soltanto, scandendo le parole - “Ci sono volte in cui anche io stento a ricordarmi che sia tutto passato, volte in cui non riesco a respirare correttamente. Ma solo perchè non riesco a dimenticare, William. Non posso dimenticare quanto dolore ci sia stato, sia per me che per te.”

 

Allargò le dita, ma Spike mantenne la mano in quel punto. C'era il cuore, non lontano dal mignolo. E batteva, batteva, batteva.

 

“Quello che so è che non succederà più. E noi andremo avanti. E avremo quel futuro che non pensavamo di possedere. È questo il miracolo che volevi, la nostra vita. E non importa il tempo che abbiamo perduto se, alla fine, siamo ancora assieme.”

Edward aveva la voce che tremava. Spike annuì, piano. Ma il movimento bastò per far scendere le lacrime. Chiuse gli occhi, sperando di fermarle, desiderando liberarsene.

 

Quando li riaprì, Edward se ne era andato.

 

E non restava che stringersi la testa tra le mani e pensare ancora a quel respiro che era dolce, puro e più forte di ogni altra promessa.

 

***

 

Attraversava sempre il cortile con rabbia. E si sfogava sulle cinghie della moto, legando le sacche.

Angel, appoggiato al muro delle cantine, nell'ombra, con le mani in tasca, non lo chiamò. Lo guardò soltanto, di schiena, deciso eppure in preda a un tremito. Lo guardò piegarsi, la mano sul sellino, l'altra alla gola. Poi rialzarsi, di nuovo diritto, spavaldo. E voltarsi, venendogli incontro.

“Ciao.” - disse Edward, varcando la demarcazione tra luce e buio. I capelli brillarono ancora per un istante mentre, spossato, si lasciava andare contro al muro - “Scusa se ti ho fatto aspettare.”

“Non fa niente.” - rispose, tranquillo, voltandosi. Uno di fronte all'altro, i piedi puntati, le mura alle spalle. Edward si stava accendendo una sigaretta e, quando ne offrì una, Angel vide l'oggetto che aveva tra le mani, sotto la fiamma ancora accesa del fiammifero.

“William l'ha  visto?” - chiese soltanto, raddrizzandosi, la prima boccata di nicotina nella gola.

 

Nessuna risposta. Sono un annuire arrabbiato.

 

“Non salire subito.” - mormorò, arrogandosi il diritto di un consiglio, per una volta - “Non è stato facile.”

“Non è stato facile per nessuno di voi.” - lo corresse con tranquillità Angel.

Ed Edward distorse la bocca in un sorriso denigratorio. Aveva di nuovo il mento che tremava, gli occhi troppo luminosi.

“Credo di aver detto solo idiozie.” - scosse la testa, in preda a qualcosa di simile a una risata - “Io non... non ho detto la metà delle cose che volevo dirgli e ora...”

 

Non è vero, ho mentito.

Mi importa del tempo che abbiamo perduto.

Mi importa tanto. E rimpiango ogni attimo.

Le cose che ho fatto, le cose che ho visto... non abbiamo condiviso nulla.

E non c'è nulla che sia stato come avrei voluto.

 

Avevamo tanto tempo, lo abbiamo gettato via per la mia stupidità.

Ed ora...

Ora...

 

Chinò la testa, cedendo, un palmo su un occhio, come in preda ad un dolore incontrollabile. E un singhiozzo, libero, gli salì dall'anima.

“Edward.” - Angel si raddrizzò, istintivamente. E la fronte dell'immortale si posò sul suo petto, a sorpresa. Gli posò una mano su quei capelli, su quei singhiozzi che ancora cercava di domare.

“Sei tu che fai la differenza per lui.” - sussurrò, strofinando quei riccioli scomposti. La prima volta che aveva visto William, lo aveva afferrato per i capelli. Ed erano morbidi, lunghi - “Non le tue parole.”

 

La mano di Edward gli strinse il bicipite. Poi il ragazzo si allontanò. La sigaretta era perduta, nella polvere.

 

Restava solo fumo... fumo negli occhi.

 

“lo terrò d'occhio per te, finchè non tornerai.”

“No, Angel. Proteggilo come sempre.”

Angel lo scrutò in viso.

“E' questo che vuoi?”

“No, è quello che vuole William.” rispose Edward, guardandolo. Non era uomo da asciugarsi le lacrime, una volta cadute. Nulla intaccava comunque la sua tenacia, nemmeno le scie argento - “E' lui che ha scelto te. Non dimenticarlo.”

“E tu?” – domandò, sentendo le mani stringersi spasmodicamente nelle tasche – “Lo accetti?”

“Non ti serve la mia approvazione.”

“E se la volessi? Se questa volta, questa unica volta ne avessi bisogno?”

 

“Non ti serve.” - ripetè Edward. E stava sorridendo, nel passargli un braccio attorno al collo e sussurrare nel suo orecchio - “Indipendemente da me... tu non puoi rinunciare a lui.”

 

Per questo so che non lo lascerai mai.

Mai.

 

Mosse un passo indietro, posandogli la mano sul torace, con un cenno di saluto.

 

“Occupati di lui, Angel. Io non saprei farlo nello stesso modo.” - aggiunse, camminando a ritroso, emergendo alla luce - “E fallo per i motivi per cui lo hai sempre fatto. Non ti servono anche i miei.”

 

La luce lo fece svanire.

Ed Angel sbattè le palpebre guardandolo correre, mettere in moto, fulmineo.

 

Bad day, ancora.

Un nuovo bad day, Coventry.

 

Fai buon viaggio. E torna presto.

 

“Ma se  hanno staccate le teste, i cuori non ebber domati....” - un sussurro, nel vento del mattino, un sussurro coperto dal rombo di una moto - “Furono più che valenti: da morti restano sempre guerrieri.”

 

Fra le ombre saran condottieri... fra i morti saran eroi.

Eroi.

 

E, il sussurro, nella polvere e nella cenere, volò lontano, fino all'orizzonte.

 

 [EPILOGO]

 

 

Il dolore di un'attesa dura quanto lo strapparsi di una busta.

 

“E' Edward?” - domandò Faith, sporgendosi sulla sua spalla per sbirciare.

“A quanto sembra...” - commentò Spike, voltando la busta e mostrando il sigillo di ceralacca rossa. Alzò gli occhi, distratto – “Ah,Methos, grazie di avermela portata.”

“Ma ti pare... il postino si invita a pranzo sempre due volte.” - Methos stava già frugando in frigo. Ma, tra il cartoccio del succo d'arancia e la torta avanzata, si era concesso di rifilargli un'occhiata.

Camicia bianca, jeans azzurri, capelli gettati indietro. Anche in penombra, Spike era... policromo.

 

Si, policromo.

 

“Dice qualcosa di interessante?” - domandò Doyle. Era in castigo, per uno sbornia di troppo al locale di Lorne. Cordelia lo aveva messo a pulire fagiolini al tavolo della cucina. E Spike gli rivolse un'occhiata di pura sufficienza, seduto sopra al mobile.

“Ti risulta che mio fratello dica mai qualcosa di non interessante?” - domandò, petulante.

“Oddio... ha avuto dei momenti meno brilllanti nella sua vita... ad esempio, c'è stata quella piccola crisi religiosa in Thailandia...”

“Methos, non voglio sapere.”

“E' più divertente se te la racconto io, credimi.”

“Non...” - Spike sembrò ripensarci - “Ma si, potresti non avere torto. Dopo ti offro una birra. Non dimenticarti i particolari peggiori.”

“E tu gli crederai se ti parlerà male di Edward?” - lo punzecchiò Faith, guardandolo. Era calmo. Lo era in maniera strana, ormai da tempo. Lo sguardo si perdeva, lontano. La bocca si contraeva appena.

 

William era qui.

Ma Spike... era difficile sapere dove fosse Spike.

 

“Ovvio.” - fu la risposta, serafica. E ridente - “L'obbiettivo è svecchiare la visione che ho di lui.”

“A partire dalla perfezione?” - mormorò Angel, attraversando la cucina e cercando il caffè. Sotto il lavandino, una razionalità impagabile - “Un bel modo di sprecare il tuo tempo...”

“Fatti i fatti tuoi.” - fu la risposta. Ma saltò ugualmente giù dal ripiano, porgendogli due fogli e la caraffa introvabile - “Tieni, il tuo nuovo amore ti manda una missiva. Sa di profumo.”

“Grazie.” - fece scivolare la carta ruvida in tasca - “Gli devo ancora un bacio, avrà scritto per reclamarlo.”

“Ma che schifo!” - spike era davvero orripilato. E gli voltò le spalle – “Sto immaginando cose che non devo. Non voglio vedere.”

“Nè sentire.” - fece eco Faith.

“O assaporare.” - dise Angel, indicandola con approvazione.

“No, assaporare ho assaporato.” - scherzava su molti episodi  di quel giorno ormai non più così vicino. E lo faceva sbirciandolo - “Morso, ricordi? Geloso? Io si e tu no.”

“Posso sopravvivere senza bere da tuo fratello.” - commentò Angel, apoggiandosi al mobile. Poteva scherzare, poteva dissimulare, ma qualcosa gli scivolava sempre negli occhi - “Non credo che il sangue di immortale sia questa gran cosa.”

“Come ti sbagli.” - commentò a bocca piena Methos. Aveva persino al panna spray nella destra - “Siamo delizc-ziosi.”

“Tu sai sicuramente di coccodrilo.” - sottolineò la cacciatrice.

“Probabile.”

“Taci, Francis. Forza, pulire i fagiolini.”

“Pulisco i fagiolini.”

“No, in effetti non siete male. Dolci e sfiziosi.” - Spike era già sulla porta. E la lettera, per l'impazienza, era semrpe più appallotolata nela sua mano - “Forse non vi interessa... ma, a scopo di informazione, il sangue immortale ha il sapore di quello delle cacciatrici. Credetemi. Io ne so qualcosa.”

“Ah si!” - Faith saltò giù dal movbile, inseguendolo - “te le do io le cacciatrici, adesso!”

I loro passi si erano allontanati. Era aleggiata solo una risata, come un fantasma.

Ma in cucina era silenzio. E di fagiolini puliti non ne stavano più cadendo nella coppa.

Methos sembrava aver perso l'appetito. Ed Angel impassibile, aveva gli occhi bassi. Solo Doyle si concesse un sospiro. E, dopo un attimo, una sigaretta.

 

Ti sbagli…

non è il sangue immortale..

è il sangue di Edward ad avere quel sapore.

 

Il tuo sangue, Spike.

 

Il tuo sangue.

 

E' la tua anima.

 

(2 dicembre 2008)