Per le nostre strade
I personaggi delle serie "Angel" e "Buffy, the vampire slayer", appartengono a Joss Whedon, la WB, ME e la Fox, l'autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.
Crossover con la serie televisiva Highlander. Anche in questo caso, i personaggi appartengono ai legittimi proprietari e l'autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.
"Methos… di tutte le persone che potevo incontrare…" - Doyle mosse un passo verso di lui, tendendogli la mano.
E rallegrandosi dell'abbraccio cameratesco in cui venne trascinato.
"Bene, bene… Francis Allen Doyle dritto dal mondo dei trapassati, immagino…"
"Cosa ci vuoi fare… gente che va, che viene e talvolta ritorna…" - Doyle sorrise, con un'incurante alzata di spalle - "E tu? Non eri a Parigi?"
"Io ci vivo a Parigi. - precisò l'altro - "Solo che non potevo lasciar accumulare troppi impegni in questa parte di mondo. Così, ho preso al volo un pretesto…"
si interruppe. Doyle lo guardava con quegli occhi incredibili che si ritrovava e Methos, come suo solito, fu piacevolmente lusingato di come lo studiava.
Di come, da sempre, levava lo sguardo verso di lui, aspettandosi chissà quale racconto. Fin da bambino.
Un bambino destinato a soffrire per la troppa sensibilità. Oppure a diventare un tutt'uno con gli eventi nel corso del tempo.
"Sono veramente contento di vederti…" - mormorò, tralasciando le spiegazioni che stava dando - "Sei la resurrezione più gradita di cui io sia mai stato informato."
"Anch'io sono lieto del fatto che tu abbia ancora la testa sul collo." - replicò candido e irriverente l'irlandese, per niente intimorito dai cinquemila anni di differenza che avevano. Ai suoi occhi Methos era sempre stato un adulto, uno "più grande". E di quanto non aveva poi molta importanza - "Allora… continuo a fingere che tu sia passato di qui per caso?"
Methos scosse la testa, con un mezzo sorriso ed una ragazza che si affrettava per la strada, si voltò a guardarlo, per registrare rapidamente alcuni particolari.
Un uomo affilato, con un maglione a collo alto e un lungo giaccone australiano… in compagnia di uno strano tipo con giacca sdrucita.
Nel complesso due persone sospette, considerò. Quello con gli occhi chiari, poi… certamente un allibratore.
Affrettò il passo, quando il soggetto delle sue riflessioni si voltò a fissarla, sorpreso. "Ma hai visto che occhiata?" - lo sentì mormorare, con una punta di imbarazzo - "Quasi mi avesse beccato a vendere caramelle al tritolo nelle scuole…"
"Hai proprio ragione…" - rispose distrattamente l'altro, inclinando la sua notevole altezza per guardarle meglio il fondoschiena - "che occhiata…"

"Stavamo dicendo…" - riprese Doyle, mentre si incamminavano.
"Non stavamo dicendo." - l'interruppe - "Tu mi stavi tormentando e cercando di estorcere informazioni. Ed io, con la mia proverbiale pazienza, subivo."
Doyle lo fissò di traverso e scosse la testa, divertito. Methos camminava con aria sofferente e tormentata. Tanto falsa da risultare irresistibile.
Anche adesso, ad anni di distanza, nel ritrovarselo improvvisamente a fianco, Doyle non si stupiva poi molto di averlo imitato ad oltranza, per rapportarsi agli altri.
Ed anche se tra loro le differenze restavano abissali, come possono passare tra un demone ed un immortale… bhe, Methos restava, per Doyle, il mentore che tutti nella vita hanno bisogno.
"Adesso." - aggiunse l'uomo, guardando fisso innanzi - "Non solo non parli, ma mi fissi con aria sospetta. Va bene, hai vinto… Dawson mi ha incaricato di portare ad un certo Whydam Price un vecchio libro."
"E ti ha detto di cercare me?"
"No. Quello è un extra. Ed una comoda soluzione per non ritrovarmi invischiato in qualche casino metafisico."
"Sono cambiato, Methos." - replicò con aria vissuta, fermandosi e cacciando le mani in tasca - "adesso nei casini metafisici ci vivo…"
"Bella questa." - commentò l'altro - "E che differenza passa da prima?"
"Prima ero un demone che si limitava a portare comunicazioni iellate." - spiegò serissimo - "Adesso vivo con l'eroe e prendo parte a tante gioiose scorribande."
"Non mi dirai che hai a che fare con i prescelti…" - Methos gettò un'occhiata distratta dall'altra parte della strada - "Sembra vada di moda da qualche tempo a questa parte…"
"A questo proposito, come sta il tuo prescelto?"
"Io non ho prescelto."
"Ne sei sicuro?" - Doyle si fermò ad un chioschetto, gesticolando per ottenere un grosso hot dog dal contenuto discutibile. Continuando a parlare, come fosse una diatriba sull'ultimo risultato dei Lakers - "Guarda che le mie fonti certe garantiscono la tua posizione in un evento di notevole portata."
"Le tua fonti possono anche definirlo tale." - commentò asciutto l'uomo - "Ma finora io solo visto l'omicidio di un amico. E la disperazione di un altro, uscito di testa."
Doyle si fermò e, sul volto, si dipinse la più umana delle comprensioni.
"E' così brutta la situazione?" - domandò, sommesso.
"Certo. Ed è per questo che non amo i discorsi fatalisti. Per me è stato un tragico incidente che si sarebbe potuto evitare. Non una fase indispensabile nella millenaria lotta tra il bene e il male. Soprattutto quando a morire è stato un ragazzino, solo perché era un idealista che in queste storie voleva credere."
"Vorrei poterti dire che sono d'accordo." - replicò Doyle, affondando i denti nel suo unto panino - "Ma da questo punto di vista, io sono dall'altra parte della barricata."

"Adesso cosa farai?"
Aveva mangiato il suo hot dog in silenzio, lasciando che Methos esplorasse Los Angeles con lunghe occhiate. Da lungo tempo non tornava in America. Sarebbero stati dieci anni in inverno.
Ma cos'erano dieci anni, nella vita di Methos? Poco, una quantità rilevante solo se moltiplicata per se stessa.
"Tornerò in Europa." - rispose, distrattamente - "E poi a Parigi. Prima o poi McLeod si farà vivo… e voglio essere nei paraggi quando accade."
E visto che Doyle lo fissava interrogativo...si ritrovò a replicare con un sorriso.
"No, non ho intenzione di allargare la mia collezione…"
Era un loro gioco, una vecchia frase in codice. Per quanto fosse un idolo ai suoi occhi, mai Doyle aveva negato la natura immortale di Methos ed il gioco che egli conduceva con i suoi simili. Methos uccideva. Ed aveva ucciso. Per gloria, potere e necessità.
Per sopravvivenza. E per superiorità.
Metho decapitava i suoi avversari e conosceva ogni volta quella che chiamavano reminiscenza. E si fondeva con lo sconfitto, in un eterna catena di anime risucchiate. Quella che Doyle, irriverente, chiamava "collezione". Un concetto più semplice da imparare per un bambino che il concetto stesso di morte.
"McLeod sembrava impazzito…" - commentò Methos, distogliendolo dai ricordi - "Ho pensato di doverlo fermare… ma non sono riuscito. Mi ha implorato di ucciderlo, mi ha messo la spada in mano e… io non sono riuscito. Non ho potuto. Ora, dimmi, predestinazione o amicizia?"
doyle lo guardò sottecchi, con gli occhi brillanti.
"Tu sai che la risposta che sto per darti non ti piacerà, vero?"
methos lo guardò, imperscrutarbile. Poi, scotendo rassegnato la testa, si abbandonò ad una breve risata.

"Sicchè, dopo millenni in santa pace." - commentò truce, varcando il cancello del parco e schivando con un'unica falcata, un ragazzino in bicicletta - "Devo rassegnarmi all'idea di essere rimasto invischiato in un evento sovrannaturale?"
"Temo di sì. Ma se ti può essere di conforto, sei decisamente una figura marginale. Almeno per il momento. La battaglia è appena iniziata…" - aggiunse allegramente Doyle, camminando in equilibrio sul muretto delle aiuole - "Vedi, attorno ai prescelti possono girare anche migliaia di figure importanti. Ma alla resa dei conti, quando si tirano le file della questione, la regola diviene inflessibile. Solitudine. Uno contro uno…. Non ti ricorda nulla?"
"Almeno non dovrò studiarmi regole nuove." - borbottò - "E posso calcolare di starmene tranquillo su suolo sacro?"
"Assolutamente no. Anzi, da quel punto di vista, voi immortali avete un lusso che il resto del mondo non ha. Noi demoni adoriamo fare lunghi e corroboranti bagni di sangue nelle zone più sacre della terra… devono essere le correnti di energia a stuzzicarci…"
Aveva l'espressione estatica. Veniva voglia di buttarlo nella fontana…
"Doyle… non è che stai andando sulla cattiva strada, vero?"
"Chi? Io? Io sono sempre stato su una cattiva strada… lavoro per brutta gente altolocata a cui non piaccio molto, sono un demone che ha subappaltato le sue visioni, poi è morto, poi è resuscitato… frequento una valanga di persone discutibili…. Ho uno pseudo-patrigno immortale, Cavaliere dell'Apocalisse che le cronache riportano più e più volte vicino alla parola massacro.…" - enumerò, serissimo.
"Subappaltato le visioni?" - domandò, ignorando la descrizione del suo status.
"Sai, mi sono dovuto assentare per qualche tempo… causa dipartita di me stesso medesimo…"
"Ma la vuoi smettere?" - domandò, non riuscendo a trattenere le risate, mentre si sedeva sul muretto nei pressi della fontana - "E a chi avresti lasciato le visioni?"
"bhe… sai… è una stangona…lunghi capelli castani…" - replicò, modesto.
"Ma non ti ho sempre detto che alle donne si regalano fiori e cioccolatini?"
"Se è per quello al mio primo appuntamento con lei, me le sono fatte restituire… e ti assicuro che male così di stomaco…"
"Lasciamo stare i particolari." - sospirò, mentre l'indisciplinato demone gli offriva una sigaretta - "No, grazie. E questa fanciulla? Parlami di lei."
"E cosa si può dire… io l'amo. E lei ama me. Almeno spero." - chinò la testa, pensieroso. Principessa… era la prima volta che parlava di lei in quei termini.
"Potresti aggiungere almeno il suo nome…" - lo incoraggiò Methos.
"Cordelia. Si chiama Cordelia."
"E' un bel nome…" - disse.
"In inglese significa gioiello del mare…" - commentò Doyle - "Ed io non potrei essere più d'accordo."
"e non solo…" - Methos sorrise, fissando la luce del sole - "presso i latini il suo significato era un altro. Cordelia… colei che ha cuore… e penso che anche in questo caso potresti essere d'accordo."
Doyle si voltò, senza riuscire ad incontrare il suo sguardo. Methos aveva alzato il viso, socchiudendo le palpebre per la luce troppo intensa.
E così, immortalato nella sua concentrazione, ben poco sembrava trasparire, se non la grande consapevolezza. Ed il rimpianto per un amore di cui probabilmente non ricordava più neanche il volto.
"A quale moglie pensi…" - gli chiese, affettuosamente.
"A nessuna in particolare. Riflettevo sull'amore in generale, come va e viene, soprattutto in un' esistenza come la mia. Un eternità in ogni amore, si potrebbe definire…"
"Perché no… ho un amico che invece affermerebbe, dall'alto dei suoi duecentocinquant'anni, che l'amore è eternità."
"Dice così solo perché è giovane. Oppure perché ha sofferto molto." - commentò Methos - "Spesso del dolore non vedi la fine. E così, allo stesso modo, nell'amore infelice. Io ho amato sempre con la stessa passione, mai una meno dell'altra. E mai ho sofferto meno, quando le perdevo. Dillo, al tuo amico, non la amerà di meno, se la lascerà andare…"
"Non mi darebbe retta, poco ma sicuro." - Doyle scosse la testa - "Angel mi ascolta, ma quando si tratta di amore… testardo come un mulo e chiuso come un riccio."
"Angel…" - Methos si voltò, con un mezzo sorriso - "O Angelus. Ho sentito parlare di lui. Si chiacchierava decisamente molto, in Inghilterra, nell'Ottocento. Avevo amici che per le cronache dei suoi massacri impazzivano del tutto."
"Stai parlando di quel branco di sciroccati che frequentavi?"
"Si da' il caso che quelli che tu ami definire sciroccati, siano stati menti geniali e spregiudicate…Byron, Polidori, Shelley…" - brontolò - "non stiamo parlando di sconosciuti."
"Come vuoi." - Liquidò bonariamente il demone - "Ma Angel non sarebbe per niente contento di sentirsi chiamare Angelus. È un secolo che cerca di scrollarsi di dosso quel nome."
"E magari anche il soprannome di Flagello d'Europa." - aggiunse Methos - "Non ti stupire, lui e la sua combriccola andavano realmente di moda nei circoli letterari. Semplicemente per quello che erano. Personaggi fantastici connessi a feroci delitti. Vampiri… l'ammaliante donna bionda vestita di rosso… la fanciulla dai capelli corvini e gli occhi come la notte… l'elegante gentiluomo dagli occhi scuri e magnetici… chi manca?"
"Stando al mio inventario, solo il feroce predatore biondo dagli occhi di ghiaccio…" - che si imbestialirebbe sapesse di essere stato dimenticato…
"Non è una figura tipica dell'ottocento inglese." - obbiettò lui.
"Oh, sì che lo è." - lo corresse, con un mezzo sorriso - "Credimi sulla parola."

"Allora, che tipo è, questo eroe da libro dell'orrore…fammi indovinare…sulla strada della redenzione dopo chissà quale terrificante nefandezza." - declamò con gesto amletico.
"Ci sei quasi…" - Doyle scosse la testa. Prendendo appunti sul fatto di non far mai incontrare Methos e Spike. Angel ne sarebbe uscito nevrastenico - "Forse un po' troppo cinico… ma nel complesso è esatto. Più semplicemente, ha riavuto l'anima."
"Un personaggio interessante…" - commentò, osservando interessato un violinista ad angolo strada - "E la cacciatrice?"
"Altra città e altro Osservatore."
"Una per ogni generazione… non mi stupisce che si siano dedicati agli immortali…" - sospirò - "Così tanti ed una sola ragazza a reggere la partita. Io non so come possano resistere ad uno stress del genere. Tutte quelle informazioni, il più delle volte chiuse a doppia mandata nella loro testa… un po' come vivere della vita altrui."
"Politica che tu ti sei impegnato a demolire." - ribattè Doyle - "E ti assicuro che Westley Whydam Price smentirebbe subito queste tue elucubrazioni."
"Elucubrazioni… ma sentitelo come parla forbito."
"Sfotti meno, vecchio mio. Anche noi giovani abbiamo cultura!" - esclamò, mandando a canestro la lattina vuota che aveva in mano - "E non cambiare discorso."
"non sto cambiando discorso." - protestò - "Mi sto limitando a dire che deve essere frustrante. Si azzuffano tutti per lo stesso osso. Si contendono una ragazzina. Riconosco loro di aver avuto una motivazione per diventare un branco di impiccioni impegnati a catalogare me ed i miei simili… dio, ne parlo come se fossimo una specie rara di criceti…"
"Pressappoco. Mi stupisce solo che tu ne parli così, visto che sei uno di loro…"
"Per scopi vilmente pratici e personali." - specificò Methos - "E' un ottimo sistema per smistare le seccature e sapere sempre dove sono tutti quei simpatici guerrafondai che vogliono la mia testa. E poi mi piace l'idea di essere l'Osservatore di me stesso…"
"Per carità, non far venire un'idea del genere alle Cacciatrici!" - Doyle mimò disperazione, infilandosi le mani tra i capelli - "Già così è un'insurrezione dietro l'altra. Soprattutto adesso, che di cacciatrici ce ne sono due…"
"Due… e come… no, non penso di volerlo sapere." - concluse Methos, ricordando rapidamente a se stesso che erano quasi tremila anni che riusciva a stare lontano dalle arti magiche e da ciò che esuberava dalla sua natura di immortale. Ad esclusione di Doyle, ovviamente.
"Prima o poi dovrai…" - ribattè, evasivo Doyle.
Di colpo provava un grande interesse per i graffiti sul muro. E sperava già di passare indenne, quando sentì una mano afferrarlo per un braccio e fermarlo.
Prima che tagliasse la corda.
"Francis Allen." - scandì bene Methos, provocandogli un brivido giù per la schiena - "Sei certo di non avere niente da dirmi?"
Quando si voltò, per fissarlo in viso, rivide il cipiglio che aveva segnato la sua infanzia. Lo sguardo indagatore e l'espressione attenta. Methos poteva avere anche l'atteggiamento di uno qualunque, ma quando scrutava il mondo con quell'espressione, Doyle tornava a sentirsi il bambino senza padre che era stato.

Una pallonata. Un calcinaccio.
Ancora una pallonata.
Ed un altro calcinaccio. Quel muro si sgretolava proprio bene…
"Francis! Smettila."
Si era voltata, per gridare, ma non gli era sembrata poi molto arrabbiata.
Un'altra pallonata ed un altro calcinaccio.
Adesso non aveva detto nulla. Parlava con un uomo, un uomo più alto di lei che la obbligava ad alzare la testa, ad ogni parola.
Da lontano, Francis non lo vedeva in viso… ma non gli importava nemmeno che faccia avesse… non era suo padre, questo lo sapeva. Suo padre era morto, gli aveva spiegato la mamma, ed anche se non era volato in cielo, per un motivo che non era proprio chiaro, non sarebbe tornato.
Papà non torna. Questo era una cosa facile da capire, anche per lui, anche se aveva solo cinque anni.
Un'altra pallonata.
"Francis!"
Oh, se ne era accorta di nuovo. Adesso era proprio girata verso di lui ed anche se non si muoveva, aveva le braccia conserte.
Aveva l'aria severa, con i capelli sciolti sulle spalle. Rendevano troppo affilato quel viso piccolo e lentigginoso che si ritrovava, incoronandola con lunghi ricci rosso cupo.
Anche il tizio lo stava fissando. Aveva un cappotto lungo e nero, ed un maglione a collo alto, grigio. Vicino a lui la mamma era veramente piccola…
Francis ondeggiò sulle gambe, strofinandosi la testa con aria imbarazzata. Così la mamma, credendolo pentito, si sarebbe voltata e l'avrebbe lasciato giocare ancora un po'…
Oh…oh…
La mamma non l'aveva bevuta…
Stava scotendo la testa, ed era proprio contrariata.
Ma come poteva non capire? Era noioso, starsene sempre da solo. Come poteva giocare a palla se non aveva amici? Rimaneva solo il muro del cortile.
L'uomo si era chinato verso di lei e le aveva sussurrato qualcosa all'orecchio. Le aveva sfiorato i capelli con la punta delle dita, ma lei non l'aveva guardato.
Sinead Doyle era un osso duro. E non bastava accarezzarle i capelli in quel modo per intenerirla.
Solo un uomo nel suo cuore.
Francis Allen Doyle.
Suo figlio.
Quell'uomo era proprio alto...Francis non sapeva se fissargli i piedi o provare a guardarlo in faccia.
E fu allora che accadde qualcosa di strano.
L'uomo rise. Una risata morbida e amichevole, prima di accoccolarsi sul talloni e porgergli la mano.
"Ciao." - disse, con un bel sorriso - "Io mi chiamo Methos. E tu devi essere Francis."
"E' un nome stupido." - commentò il bambino, guardandolo con degli occhi azzurri calmi e trasparenti - "Solo la mamma mi può chiamare così. Perché piace solo a lei."
"D'accordo." - L'uomo non smetteva di sorridere - "Tu come vuoi essere chiamato?"
Nessuno gliel'aveva mai chiesto. E Francis dovette pensarci un po' su, prima di rispondere. Tutto era meglio del suo nome. Lo chiamavano 'ragazzino', oppure 'ehi tu!' o 'marmocchio'…
"Doyle." - disse, annuendo convinto per la scelta - "Voglio che tutti mi chiamino Doyle."
E che nessuno dica più che sono stupido.
"Va bene." - commentò l'altro, diventando serio - "Mi sembra una buona scelta. Ed ora dimmi, Doyle… vuoi continuare a giocare a pallone con il muro o vuoi giocare con me?"
"Tu sei grande. Non sai giocare a palla." - ribattè, incrociando le braccia - "E poi sei uno sconosciuto. Ed io non gioco con gli sconosciuti."
"Però mi hai parlato."
"Perché parlavi con la mamma." - iniziava a diventare una conversazione difficile. Si piegò, per vedere la sua mamma, ancora ferma a guardarli entrambi. E Methos si voltò, facendo altrettanto e scoccandole un'occhiata di attesa.
"Mamma? Lui è uno sconosciuto?" - chiese. Desiderava tanto un amico. E quel tizio era simpatico…
Sua madre non rispose. Per la prima volta sembrava non sapere realmente cosa fosse giusto. Lei, proprio lei, capace di mettersi contro la sua famiglia, pur di crescere il suo bambino senza padre e nel migliore dei modi.
"Giusto, Sinead. Bella domanda." - mormorò Methos, con uno strano sguardo - "Sono uno sconosciuto?"
Aveva una voce intrigante. E morbida come velluto. E tra loro esisteva ancora qualcosa di inspiegabile e forte.
E vederlo ora, inginocchiato vicino a Doyle, rendeva ancora più evidente quale fosse il suo obbiettivo.
Doyle era una carta che il destino aveva posto sul suo tavolo.
Doyle era il bambino che in cinquemila anni di vita Methos aveva potuto soltanto sognare. Un bambino senza padre. Per un padre senza figlio.
Sinead lo conosceva troppo bene, per non vedere in lui quell'insaziabile desiderio di insegnare ed essere compreso. Methos, con il suo disprezzo per l'esoterico, sapeva di poter trovare comprensione solo in quei simili che tanto abilmente evitava. Oppure in qualcuno che, come lui, e per altri destini, fosse scelto a divenire tutt'uno con il fiume in piena degli eventi.
Doyle era un bambino a lungo atteso dal mondo. Inspiegabilmente importante e senza risposte, nato da corpo umano e sangue demoniaco.
Era ancora presto perchè gli venisse affidato il ruolo per il quale era stato concepito. Ma già adesso era un bambino strano. E troppo solo.
Con troppe domande.
Domande per cui non sarebbe bastata la mente di una ragazza irlandese semplicemente bella e testarda.
Domande che avrebbero trovato risposte solo sulle labbra di Methos, umano, immortale e leggenda.
Ed ancora capace di ridere di se stesso.
"Non ti preoccupare, Francis…" - parlò, prima ancora di accorgersene - "E' un amico di mamma. Un buon… amico…"
Methos la guardò e Sinead, con un brivido, vide la stessa espressione sul volto di entrambi. E seppe che adesso, insieme, sarebbero andati molto più lontano di quanto potesse immaginare.
Methos sarebbe stato il tempo… Doyle, il suo messaggero.
"Sarai anche amico mio?" - chiese il bambino.
E Methos si girò, per guardarlo. Indagando dentro di lui, quanto fosse profonda e disperata quella richiesta. Quegli occhi. Non erano occhi adatti al viso di un bambino. Troppe cose si riflettevano e troppe ne erano assorbite.
Troppo azzurro.
Troppo puro.
Occhi che ora raccoglievano ogni più piccolo frammento dell'espressione dell'uomo. Francis aggrottò le sopracciglia, imbronciandosi. Quell'uomo lo stava studiando e gli stava dedicando un'attenzione che mai nessuno gli aveva rivolto.
E mai nessuno, per le strade del quartiere, gli aveva trasmesso quel senso di coscienza. Erano semplici sensazioni, per un bambino come lui, come il freddo, o la fame, la paura e l'affetto.
"Sarai mio amico?" - insistette. Di colpo la risposta era divenuta necessità.
Per entrambi.
"Certo." - Methos gli sorrise, annuendo - "Per me sarà un onore."

E fu allora che il velo del ricordo, lacerandosi, divenne una visione.

Doyle lo stava ancora guardando. E da tempo aveva smesso di vederlo.
I suoi occhi si erano rivolti lontano, focalizzati su immagini che contenevano al loro interno.
Methos strinse le labbra, impercettibilmente, per l'esasperazione. Qualunque cosa fosse, per Methos sarebbe sempre rimasta un mistero. Anche per lui, in eterno con la mente piena di immagini.
Immagini del passato.
Mentre Doyle altro non era che un canale per fotogrammi di eventi futuri.
Quando sussultò, portandosi le mani alle tempie, Methos lo abbracciò e lo tenne stretto. Rivedendolo bambino, alle prese con un incubo troppo grande perchè il suo sonno potesse contenerlo. Percependo ancora in lui il piccolo atterrito che era stato, come se quelle dannate visioni non potessero fare altro che riportare a galla, con la forza del futuro, quello che era il suo passato.
Lo tenne in piedi, mentre la folla li schivava, con occhiate ostili.
L'uomo alto dallo sguardo brillante e lo smilzo ragazzo sepolto nel suo giaccone.
Uomini persi, all'angolo di una città troppo grande.
E con l'intero mondo al loro interno.
II
Quando lo sentì impegnarsi in un respiro più profondo, seppe che le cose iniziavano ad andare meglio. Spostò le mani, per allentare la stretta, sentendo che riacquistava equilibrio. Cuore contro cuore.
"A me viene una fitta alla testa e a te un infarto?" - lo sentì mormorare, restando immobile. Doyle sentiva le tempie pulsargli… ma il vero rimbombo era la giugulare di Methos, sotto la sua fronte.
Methos che mal tollerava la questione delle visioni, dalla prima volta in cui era successo. E non poteva fare a meno di lasciare che la rabbia gli montasse dentro per quel sistema che riteneva troppo crudele per essere il migliore.
"Spero che almeno abbia la sua utilità." - avrebbe voluto dirlo, ma si morse la lingua. Era inutile riaprire quella vecchia discussione. Dopotutto, Doyle si era fatto ammazzare ed era resuscitato.
Il che dimostrava che conosceva molto bene i rischi del gioco che stava conducendo. E che, se lo riteneva necessario, sapeva anche barare. La resurrezione non era un fatto canonico, nel suo mondo…
"Methos… calmati…"
"E' una parola." - sbuffò l'altro, rendendosi conto di continuare a stringerlo, in mezzo ad una fiumana di gente. Un posto in cui entrambi erano troppo vulnerabili.
Un particolare che rimediò per istinto, trascinandolo, senza pensare neanche di mollare la presa, fin dentro il vicolo alle loro spalle.
"Un vicolo…" - commentò Doyle, mentre Methos lo aiutava a sedersi su una scala antincendio- "Sono un abbonato dei vicoli."
"E' tutto quello che sono riuscito a trovare." - spiegò Methos, buttando un'occhiata alla via, mentre Doyle tornava a stringersi la testa tra le mani - "Non un'altra visione, spero…."
"No. Ho solo perso l'allenamento. Dopo prolungate ferie nell'aldilà, sono un po' arrugginito." - bofonchiò, sbattendo le palpebre. Continuava a vedere a macchie colorate, ma doveva ugualmente riuscire a mettersi in contatto con Cordelia.
Armeggiò, cercando di mantenersi diritto e frugando contemporaneamente in tasca, per estrarre un cellulare che odiava e mai avrebbe pensato potesse servirgli.
Lo portava appresso solo perché Cordy la trovava una cosa rassicurante… e Doyle avrebbe fatto di tutto per accontentarla.
"Principessa? Ciao, sono io. Senti, avrei avuto un'informazione dall'alto…." - disse, continuando a massaggiarsi la fronte e iniziando a descrivere, con voce monotona, tutto quello che aveva visto e captato.
Dall'altro lato, per il volume troppo alto, c'era una voce femminile vagamente acuta, di una ragazza che, da come stava urlando, sapeva bene come trattare quel demone trasandato.
Methos trattenne un sorriso, appoggiandosi alla ringhiera, vicino all'amico e cercando di ignorare la telefonata ed il fatto che Doyle fosse bianco come un cencio. Probabilmente gli succedeva talmente spesso da non badarci più. Ma Methos continuava a sospettare che fosse spiacevole quanto morire e risorgere. Se non peggio.
Adesso la conversazione sembrava maggiormente di stampo privato. Ed era una lunga discussione sulla necessità che qualcuno venisse a recuperare Doyle.
Indipendentemente dalla volontà di Doyle che si stava rifiutando di fornire le coordinate.
"Non mi dirai che te le da' tutte vinte…" - mormorò, quando finalmente il demone interruppe la telefonata.
"Tutt'altro. Sono io che, potessi, le darei tutto…" - sorrise, ricominciando ad avere un aspetto più sano - "Allora? Ti sei calmato? Lo vedi che sto benone?"
"permettimi di trovare tutto questo poco etico da parte dei tuoi capi…"
"Vero. Meglio tagliare le teste per avere informazioni che trapanare la propria." - annuì, con aria convinta. Si sentiva ancora lo stomaco in subbuglio e fitte come lampi nel cervello. Chiuse gli occhi e si appoggiò un attimo a Methos.
Soddisfatto.
Pienamente soddisfatto, mentre l'altro si limitava a spostare il braccio, di modo da non colpirlo con il gomito, lasciando che, con un sospiro, posasse la testa al suo torace.

Il frastuono della città saliva e scendeva di intensità. E la grondaia, gocciolava, nel vicolo, provocando una pozzanghera poco lontano dai loro piedi.
Era un suono ritmico e ipnotico.
Come il respiro di Doyle. Methos chinò lo sguardo, osservando il profilo del demone. Appariva rilassato. Ma negli occhi dell'immortale era ancora impressa l'espressione di dolore della visione.
Così simile a quella di Sinead…

Sinead…

"Si è addormentato." - commentò Methos, tornando nella stanza.
Sinead posò l'ultimo piatto lavato e si voltò, con calma, per squadrarlo, con un lampo di combattività negli occhi chiari. Methos si era arrotolato le maniche del maglione ed era rimasto appoggiato allo stipite della porta, con le braccia conserte.
Alle sue spalle, ancora illuminato dalla lampada accesa sul comodino, c'era Doyle. Era crollato, di traverso nel letto, mentre erano seduti a chiacchierare pigramente sul terrazzo, davanti ai resti della cena.
"Tutto quel giocare a pallone lo ha stravolto." - aggiunse, lasciando che la donna continuasse a sfidarlo con gli occhi.
"Si corre molto meno, quando si ha solo un muro contro cui calciare." - commentò freddamente lei.
"Mi spieghi adesso cosa ti prende?" - Methos si spostò e Sinead gli voltò le spalle, riprendendo il lavoro da dove l'aveva interrotto. Negli occhi conservava ancora una fuggevole immagine, un fotogramma che andava a sommarsi a molti altri di quella giornata: Methos, chino su quel ragazzino, intento a sfilargli il pallone da sotto il braccio, con una coperta tra le mani.
Posò lo straccio, sbattendolo quasi sul ripiano.
"Sarai capace di essere quello di cui ha bisogno?" - l'aggredì. I suoi occhi avevano una sfumatura smeraldo, rispetto a quelli del figlio.
"Ha bisogno di un amico." - replicò l'uomo, senza lasciarsi intimorire da quello scatto - "E questa è una cosa che so fare."
"Andiamo! Sai bene che gli serve una guida! Non è un bambino come tanti, non è umano. I suoi coetanei lo sentono e ne hanno paura. Sono solo i primi che lo classificheranno come malvagio. Tu sai cosa significa, non è vero? Ricordi cosa si prova?"
Methos la guardò avvicinarsi, infervorata dalle sue stesse parole. Era la tigre che difende il proprio cucciolo. Era l'essere volitivo e splendido che aveva tanto amato, prima ancora che fosse realmente donna. La fanciulla che non si curava delle chiacchiere e delle opinioni.
E che amava con una passione indimenticabile.
La donna che non aveva esitato a sparargli e ucciderlo, per una singola visione rimasta intrappolata nella sua mente. Perché doveva provare a se stessa di non essere pazza, a crederlo invulnerabile.
La donna che aveva atteso che si risvegliasse, stringendogli la mano, perché non fosse solo.
Si fissarono un attimo interminabile, prima che lei si voltasse.
"Non mi aspettavo che comprendessi. Hai avuto cinquemila anni per badare a te stesso, continuerai a farlo e lo lascerai."
Come lasciasti me. Quel pensiero la ferì. Non era stato lui a lasciarla. Ma lei. Lei lo aveva abbandonato. Sperando, forse, in cuor suo, che Methos fosse più forte della sua testardaggine.
Della sua capacità di mentire.
La fitta del rimpianto giunse contemporaneamente alla visione. La sua mente si riempì di visioni urlanti e psichedeliche. Represse un urlo, mutandolo in un singhiozzo.
Non gridare. O Francis ti vedrà.
Ed avrà paura.
Methos l'afferrò e la tenne stretta. Tutto era svanito nella fierezza del suo dolore. Il suo rancore era evaporato, nel contatto tra i loro corpi. Sinead lo colpiva sul petto, con i pugni stretti, trattenendo le lacrime. Cercando la lucidità necessaria per captare ancora un singolo particolare di quella macabra immagine.
Uno. E uno ancora.
E a ogni lampo nella mente seguiva, come per scandire regolarmente il tempo del dolore, un colpo, un pugno su quel torace magro e forte. Provocandogli un sussulto, nel cuore, per quella disperazione che gli trasmetteva. Che lo spingeva a stringerla ancora.
Sempre più forte.
Pregando, per potersi sobbarcare quello che stava provando, almeno una volta nella vita.
Sinead, la sua piccola strega. Il Messaggero.
La sentì inarcarsi e poi abbandonarsi, inanimata. La sollevò, adagiandola sul divano, continuando a tenerla stretta. Slacciandole la camicetta, cercando di visitarla senza dover interrompere l'abbraccio, appellandosi a quelle che erano nozioni mediche già da qualche tempo sepolte sotto altre professioni.
Chiamandola dolcemente, ed aspettando che si svegliasse.
Di vederla aprire gli occhi e fissarlo. Orribilmente svuotata.
Tanto da fargli provare una paura che credeva di non poter più sentire per nessuno.
"Sto bene." - mormorò lei, con un filo di voce. Mentendosi e tornando a nascondersi dietro uno sguardo duro e cupo.
"Non è vero." - replicò piano, guardandola. Continuando a stringerla - "Sei debole. Stai tranquilla, riprenderemo la nostra discussione quando starai meglio."
"No." - la sua voce risuonò salda - "Tu hai tutto il tempo che vuoi. Io ho un figlio che crescerà prima ancora che riesca a rendermene conto. Non voglio saperlo da solo, quando avrà bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi."
C'era qualcosa di lei, come una tragica consapevolezza. Methos la contemplò, senza trovare in lei nessun segno del tempo trascorso lontani. Nulla, se non quell'ombra dura che le adombrava lo sguardo. E in quell'attimo, si rese conto, qualunque cosa accadesse, Sinead non sarebbe invecchiata. Sarebbe morta così, con quel viso appena sbocciato e la chioma ancora fiammeggiante.
"Methos. Io sono umana. E le visioni mi uccideranno, prima o poi. Il mio cuore esploderà, per il contraccolpo, oppure sarà il mio cervello a cedere. Quando accadrà, devo essere certa che Francis non sia da solo. Passeranno anni, ma tu sarai ancora come oggi, ai suoi occhi."
La guardava. E taceva. La fissava con gli occhi della prima volta in cui l'aveva stretta tra le braccia.
"Le visioni… è destinato a questo, non è vero?" - chiese. Lo atterriva, il pensiero di quel bambino, in balia di un dolore del genere. Un dolore che stava consumando lentamente sua madre, togliendole ogni speranza.
"La sua natura di mezzo demone lo renderà più forte. Soffrirà così, le prime volte." - spiegò lei, in un soffio. Lasciando che Methos, scivolando sdraiato sul divano, la trascinasse con sé. Lasciando che i suoi boccoli rossi gli infiammassero il petto e le braccia, ricoprendoli - "Poi imparerà a sentirle giungere. E, se sarà abile come penso, anche a controllarle. Le sue risorse sono ampie ed io posso intuirne solo una parte. Posso intravedere qualcosa del suo futuro. Vedo la sua morte…"
la sua voce scese di intensità, mentre il corpo di Methos, sotto il suo, si irrigidiva per lo shock. Si impose di respirare, prima di proseguire.
"Lo vedo morire e tornare. E sento l'universo contrarsi per questo miracolo. Francis cambierà il corso degli eventi e la sua forza sarà l'amore. Egli crederà in un eroe e nella giustizia… un eroe forgiato da buio più nascosto, con sangue della sua terra nelle vene. Un essere antico come il peccato e la redenzione. Ma come può un bambino solo, conoscere e comprendere questo amore… come può un bambino dare risposte se nessuno ne ha per lui…"
"Crescerà Sinead.." - mormorò Methos, intrecciando le mani con i suoi capelli. Fino a tenere la sua nuca in un palmo - "Crescerà con la forza ed i poteri di sua madre. E con il suo amore. Sei tu che scrivi la sua strada, un giorno alla volta."
"Io non sono abbastanza… non ho nulla per nutrire l'eterno che è in lui" - mormorò, perdendo la mente in antiche leggende del suo popolo che nessuno più ricordava - "Francis sarà la Guida.E per esserlo, deve avere la consapevolezza della memoria e del tempo. Delle cose che mutano. E di quelle che non cambiano.
Egli sarà il Cantastorie dell'Universo…"
La sua voce si spense in un sospiro. Era stremata. Presto si sarebbe dovuta alzare e uscire. Aveva informazioni che andavano divulgate alle persone giuste.
Avrebbe chiesto a Methos di aspettare il suo ritorno, per non lasciare il suo piccolino da solo. Poi l'avrebbe lasciato libero di andare.
Methos non parlava, le accarezzava la testa, pensieroso.
Il suo sguardo si era perso, in un'ombra del soffitto. E nel corridoio del suo passato. Dei volti che aveva amato e perso. Delle ambizioni umane svanite come neve al sole. Sinead, un giorno o l'altro sarebbe divenuta una di quelle ombre. E, probabilmente, anche suo figlio.
Methos non poteva che domandarsi se era pronto, ancora una volta, ad accettare, sapendo che sarebbe stata una cosa temporanea. Che un giorno sarebbe potuta divenire un rimpianto insostenibile.
Lo stesso, sopportato, anno dopo anno, in attesa che i giorni divenissero secoli.
Restando innamorato perdutamente della vita. Ugualmente.
La vita… sinead combatteva per la vita.
Per la vita nella sua essenza, perché continuasse ad essere il bene prezioso che gli eroi difendevano.
Lei, che mai sarebbe stata leggenda. Ma solo strega, mirabolante veggente.
E dopo di lei, quel ragazzino dagli occhi indaco, levati silenziosi verso le stelle…
"Il Cantastorie dell'Universo…" - mormorò pensieroso. Prima di baciarle la folta capigliatura, con un'unica frase, a fior di labbra - "In tal caso, avrà veramente bisogno qualcuno che gli racconti qualche aneddoto…"
La sentì sussultare e la vide alzare la testa. Un'espressione di stupore che le ingrandiva gli occhi.
Quanto l'aveva amata. E quanto avrebbe dato ora, per lei. E per quel bambino che gli era entrato nel cuore.
Irrimediabilmente.
La vide addolcirsi, nel guardarlo. Ed alzare gli occhi, verso la stanza del piccolo.
"Non mi dirai che si è svegliato." - esclamò. Prima di rendersi conto di quello che aveva detto, guardandola sorridere ed illuminarsi, davanti quella frase che aveva il sapore di famiglia.
Sinead lo guardò, imprimendosi i suoi lineamenti nella mente. Come se dovessero svanire, con l'amara consapevolezza che mai nulla li avrebbe distorti o mutati. Ne incontrò lo sguardo e si chinò verso le sua labbra.
Un sorriso contro un sorriso.
"Tranquillo papà… nulla verrà a disturbarci."

Sinead aveva visto suo figlio crescere.
E quando, alle soglie dell'adolescenza, l'aveva irrimediabilmente lasciato, crollando a terra, aveva sentito il suo dono abbandonarla e scorrere in lui.
In un bagliore, ancora una volta, l'ultima, l'aveva visto uomo. Ed aveva respirato la speranza che sapeva portare, con il suo cuore puro ed il suo sorriso.
Ed aveva chiuso gli occhi, con il ricordo di Methos, del suo sorriso e la consapevolezza di lasciare il suo piccolo Francis in buone mani.

Methos era la sua aria di casa.
Doyle aveva dimenticato come potesse essere rassicurante con la sua presenza. Sapeva essere tremendamente solido ed umano, così lontano dall'etereo e dall'eterna lotta tra bene e male in cui Doyle si sentiva sempre più immerso, ogni giorno che passava.
Dopo cinquemila anni di sopravvivenza, passati per così tanti teatri di battaglia e scenari di storia da non riuscire nemmeno ad enumerarli, Methos continuava ad essere pieno di difetti e di emozioni genuinamente umane.
Null'altro che una trasandata enciclopedia ambulante, perennemente cinica e sottile nel cogliere la realtà semplicemente per quello che era.
Rimase fermo, con gli occhi chiusi. Sapeva perfettamente che il capogiro era passato. Ma ce ne sarebbero stati tanti altri che Methos si sarebbe perso, tanti in cui i suoi amici non sarebbero arrivati in tempo da evitargli un impatto col pavimento ed una frattura al setto nasale. Non c'era niente di male, a desiderare di essere ancora un ragazzino alle prese con problemi insormontabili, appoggiato ad una roccia, piuttosto che un demone guardiano e visionario in prima linea per la difesa del mondo.
Quando si sentì premere due dita sul collo, aprì un occhio, per scoprire Methos che, fingendo di essere distratto, gli stava contando i battiti.
"Ehi, dottore, i demoni non sono come gli umani." - commentò, restando comunque fermo e guardandolo, dal basso verso l'alto,
"Tu sei demone solo per metà." - replicò l'altro, mantenendo lo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio- "Ed anche i mezzi demoni hanno battito e coronarie."
"E tu che ne sai? Io sono un demone, non tu."
"Ed io un medico da almeno un millennio. Ho visitato di tutto. E te ben più di una volta."
"Come no… ci siamo passati insieme tutte le malattie infettive ed ogni mia frattura adolescenziale." - commentò Doyle, sollevandosi a sedere e mettendosi un po' più comodo. Per quanto Methos non avesse fatto assolutamente nulla, si sentiva decisamente meglio.
"Ti sei rotto più ossa tu in dieci anni che io in centocinquanta." - ricordò Methos, con un sospiro, scavalcandolo e sedendosi su un gradino più alto, per allungare le gambe - "Senza contare che sei riuscito ad avere contemporaneamente morbillo e orecchioni…"
"Mi spieghi come facevi a spuntare sempre al momento opportuno?" - Doyle si girò, con un'espressione interrogativa. La stessa di ogni volta che, in un momento di difficoltà, dal nulla compariva l'immortale. La stessa espressione che aveva tanto amato in Sinead.
Methos lo guardò, soppesando bene le parole.
Fino a non riuscire più a controllarsi.
Sentendo la necessità di dirgli la verità.
"Vedi, Francis…" - gli spiegò pazientemente, inclinando un po' la testa - "Quando ero un po' più giovane, un certo Meucci inventò una cosa destinata a rivoluzionare il mondo. E la chiamò telefono…"
III
"Adesso che ci penso." - mormorò Methos, porgendogli una mano perché si tirasse in piedi - "Hai usato una visione per cambiare discorso."
"Mica le comando a bacchetta." - protestò il demone, aggiustandosi la giacca - "Non sono poi così bravo…"
"In tal caso, se è stato solo un disguido, non troverai faticoso, riprendere da dove abbiamo interrotto e dirmi cosa ho a che fare con una delle due cacciatrici."
"Ah, già…" - Doyle guardò l'orologio febbrilmente, camminando spedito - "Accidenti se è tardi, dobbiamo spicciarci…."
Methos girò su se stesso, mentre Doyle tagliava la corda. O almeno ci provava.
Incrociò le braccia e puntò i piedi.
"Sto aspettando."
"Andiamo Methos, sai bene che non vuoi saperlo." - ribattè, con l'espressione più innocente del suo repertorio - "Non ti piacciono queste previsioni. L'unica veggente che hai appezzato sul serio nella tua vita è stata Cassandra.. e solo per il fatto che nessuno la prendeva sul serio. Non mi va di darti informazioni su cui rimugineresti imbestialito per un bel pezzo.
Hai già i tuoi grattacapi con Duncan, ti ci manca solo F…"
Si trattenne. Per un pelo non gli era sfuggito dalle labbra. Chiuse la bocca e lo guardò, mentre Methos socchiudeva gli occhi, studiandolo.
"F… e poi?" - chiese.
"F come fatica. È quello che stavo dicendo. Hai già i tuoi problemi con Duncan, ti ci manca solo fatica ulteriore…." - spiegò, gesticolando, per essere convincente.
"Tutto altruismo. Ti sono molto grato per essere così sollecito riguardo alla mia salute." - disse, avvicinandosi, sempre a braccia conserte - "Ma stavamo dicendo… F come?"
"Faith." - borbottò Doyle. Methos aveva il potere di estorcergli le informazioni - "ma sei sempre stato così prepotente o lo sei diventato?"
"Sempre stato." - spiegò lui - "Ma solo con i più giovani."

"Una Cacciatrice. Di nuovo una Cacciatrice…" - commentò, a beneficio personale.
"Come sarebbe a dire, di nuovo?" - bofonchiò Doyle, a bocca piena.
"Ma tu smetti mai di mangiare?" - chiese Methos, rinunciando alle sue riflessioni. Stavano seduti in una tavola calda a guardare il traffico ancora consistente. Il sole era appena tramontato e, di lì a poco, le loro strade si sarebbero nuovamente divise.
Methos sarebbe ripartito per l'Europa a notte fonda. E Doyle avrebbe ripreso la sua caccia, raggiungendo gli altri.
Erano ad un solo isolato di distanza dall'Hyperion. Era stupefacente il quantitativo di chilometri che avevano percorso, con il semplice piacere di parlarsi.
"Le visioni mi mettono fame." - mormorò il demone, facendo sparire metà panino con un paio di morsi. E annaffiando con una birra - "Poi ho davanti una lunga notte per fognature. Non mi sembra il caso di avere cali di zucchero."
"Non mi sembra il tuo caso." - sospirò l'uomo, fissando il piatto che si vuotava ad una velocità impressionante.
"Hai già avuto a che fare con le cacciatrici?"
"Direi proprio di sì. E più di una volta. In questo modo, ho scoperto gli Osservatori." - spiegò - "In media cerco di tenermi alla larga…"
"Sì, lo so. Cacciatrici uguale esoterismo." - disse laconicamente Doyle, facendo un cenno perché gli portassero un'altra birra - "Dimenticavo che gli immortali sono invece spiegabili scientificamente. Si può sapere da dove ti viene fuori questa allergia al paranormale? Sei ad un passo dal riempirti di bolle per il semplice fatto di avermi parlato…"
"Non esageriamo." - protestò - "Sto solo sfruttando i vantaggi di queste epoca in cui la ragione può avere il sopravvento su tutto il resto. Ti assicuro che è un bel salto di qualità, rispetto ai quattromilasettecento anni precedenti."
"Ed in quest'epoca di razionalismo che tanto ami." - afferrò il bicchiere che la cameriera gli porgeva e ne bevve una sorsata - "ti sei imbattuto in me e in mia madre? Il trionfo della coerenza di pensiero…"
"Checchè tu possa pensare, ero in Irlanda per caso, quando sono finito nelle grinfie di tua madre."
"Che ha sempre asserito la predestinazione del tuo arrivo." - Adesso masticava patatine, con profondo gusto - "ma non distraiamoci. Mi stavi dicendo che hai conosciuto una cacciatrice."
"più di una, ho detto. Ma sarebbe una storia molto lunga. Diciamo solo che è stato divertente, essere il suo Osservatore…"
L'aveva detto con tono incurante. E si spostò, prima di rischiare una doccia nella birra.
"sei stato un Osservatore?" - esclamò Doyle, tossendo - "Un Osservatore per una cacciatrice?"
"All'incirca a metà dell'undicesimo secolo. Poi mi hanno assassinato, per sostituirmi. Il Consiglio non è molto cambiato, da allora. Lo stesso covo di intrighi e politica." - raccontò, giocherellando con il suo bicchiere ormai vuoto. E mettendosi più comodo, con un braccio allungato sul schienale della panca su cui sedeva - "Era una ragazza in gamba, decisamente. Apparteneva ad una stirpe franca di notevole lignaggio, originaria dell'Austrasia. I suoi si vantavano di aver combattuto come vassalli di Carlomagno e prima ancora di Carlo Martello, a Poitiers. E poi, come molti, cercavano di risalire a qualche epoca remota per infiocchettare l'albero genealogico. Una pratica piuttosto diffusa…"
si era perso in qualche ragionamento a riguardo.
Ma la curiosità di Doyle era troppo forte. E restava ben poco tempo per soddisfarla.
"E dopo? Sei stato ancora un Osservatore?"
"Non proprio. Una volta, ancora, in un certo senso, durante la peste, nel quattordicesimo secolo." - sorrise, ricordando la sua bellissima cacciatrice - "Ma più per fini personali, che per sete di conoscenza. E senza informarne il Consiglio. Ma è stata l'ultima volta. Dopo di lei, ho preferito far perdere le mie tracce.
Ed oggi, preferisco di gran lunga essere un Osservatore per gli immortali. E soprattutto per me stesso. Comporta alcuni vantaggi non trascurabili…"
"Lo so. Non so quante volte te l'ho sentito ripetere." - si pulì le mani in un tovagliolo, prima di appallottolarlo e gettarlo vicino al piatto - "Non me l'avevi mai raccontato…"
"Il tuo interesse per le cacciatrici è decisamente recente." - commentò Methos, buttandogli un'occhiata di sbieco e pagando tutto il divorato senza un commento - "E del resto, ho sempre avuto storie migliori da raccontarti."

"E così, dobbiamo salutarci un'altra volta." - aggiunse poi, uscendo dal locale. L'aria si era fatta più frizzante e Doyle si stava aggiustando la giacca. Approfittando del pretesto per dare la caccia ad una sigaretta post pasto.
"Purtroppo…" - replicò, accendendola - "Lo so che è una domanda prematura per uno come te, ma pensi che ci rivedremo, in questo decennio?"
"Farò l'impossibile." - rispose, registrando il viso dell'amico - "Faith, hai detto?"
"Come la Fede…" - gli sorrise il demone - "Un nome perfetto."
"Sarà… vieni, ti accompagno per un pezzo…" - disse, incamminandosi.

L'Hyperion era già visibile. Le luci ai lati del cancello erano abbastanza potenti da illuminare parte della facciata.

Si erano fermati sull'angolo. Sapevano entrambi che si sarebbero salutati lì, senza prolungare ancora il tempo che si erano concessi. E senza realmente dilungarsi. Ad un certo punto, Methos, a fine di una frase, si sarebbe voltato e se ne sarebbe andato.
Lasciando come sempre qualcosa in sospeso, qualcosa di non detto. E allontanandosi per la strada, lasciando di sé semplicemente il ricordo di una camminata sicura e allampanata. La stessa con cui aveva percorso ogni via del mondo in ogni tempo.
"Decisamente una bella giornata." - commentò Doyle, finendo con calma la sua sigaretta.
Cento metri più in là cominciava la magia e la predestinazione. E qui, a meno di un metro, c'era quel che restava della sua vita normale. Se così si poteva definirla.
Qui, con le mani nelle tasche di un lungo giaccone sdrucito e con l'aria più anonima possibile, c'era il custode della sua infanzia, l'uomo che si era rivelato onorato di essere amico di un bambino.
E che mai l'aveva deluso.

"Starai attento?"
"E me lo chiedi?" - Doyle sorrise, indicandogli la porta dell'albergo - "Ho ottimi motivi per farlo.Guarda là…"
Dall'Hyperion stava uscendo una ragazza. Aveva dei lunghi capelli castani che spingeva indietro, come se l'infastidissero, senza decidersi ad annodarli.
I lampioni la illuminavano. Ed era bellissima.
"Lo pensi anche tu, vero?" - chiese Doyle. Ed era così felice che a Methos non sembrò il caso di fargli notare che gli aveva letto nella mente.
Dietro di lei stavano uscendo altre persone.
"Whydam-Price" - commentò Methos, vedendo uscire un uomo alto impegnato ad aggiustargli gli occhiali e a bilanciare la balestra.
"E tu come lo sai?"
"Mio compagno di corso in Accademia." - commentò serafico Methos. E visto che Doyle lo guardava allibito - "Sono un Osservatore anche in questa vita, l'hai dimenticato?"
Non aveva voglia di impegolarsi in una discussione. Alle spalle dell'Osservatore era apparso un uomo bruno. Si stava infilando una giacca di pelle e teneva lo sguardo chino.
Quando una macchina, una vecchia Desoto, inchiodò davanti al cancello, con gran baccano di una radio a massimo volume, anche da lontano, Methos lo vide alzare lo sguardo.
Ed immaginò che negli occhi scuri passasse un lampo di rassegnata tolleranza, mentre si scambiava un'occhiata con l'autista scriteriato. Un ragazzo eccessivamente biondo, con il braccio fuori dal finestrino. Che ricambiava il muto rimprovero con sfida.
"santo cielo… quei due sono proprio amici." - commentò Methos.
Svelando quell'estrema perspicacia e capacità di leggere tra le righe che sua madre aveva tanto amato in lui.
Doyle non disse nulla. Dubitava che l'analisi di Methos fosse già terminata. Senza voltarsi ad osservarlo, sapeva che i suoi occhi erano ancora puntati su di lui.
Su Angel, ancora fermo davanti a casa.

Quello era l'eroe. L'eroe forgiato dal buio. L'eroe per cui Sinead l'aveva lasciato, per concepire un bambino di sangue misto, per amore e predestinazione. Per avere un bambino che illuminasse la via ad una anima forte e perduta.
Angel, che si voltò, sentendosi osservato.
E li vide.
Doyle alzò una mano, in cenno di saluto. Ed Angel ricambiò, con un cenno impercettibile del capo, prima di sedere in macchina, vicino a Spike.
Senza dirgli una parola, ma aggrappandosi al cruscotto, mentre Spike lasciava metà dei pneumatici sulla strada. Per il solo piacere di esasperarlo.

Methos ed Angel si erano visti. E si erano riconosciuti entrambi come non umani.
Lo poteva percepire dal silenzio che si era creato. Methos, così attento a sfornare battute, al momento giusto, aveva perso un'occasione.
Per quanto non potesse ammetterlo, aveva sentito la forza di Angel. Per quanto la sua natura fosse differente da quella dei demoni e quella dei vampiri, per quanto fosse più simile a quella umana, qualcosa in lui si era risvegliato ed aveva captato un messaggio.
Qualcosa che il tempo avrebbe spiegato, forse.
"Ehi, hai già un prescelto… non guardare così il mio." - lo punzecchiò. Sentendo di meritarsi l'occhiata sarcastica che ne derivò.

Mancava una sola persona all'appello.
Era usciti tutti. Tranne una.

"Doyle… non partecipi alla rissa serale?" - chiese una voce irriverente alle sue spalle.
E lui e Methos, all'unisono, si voltarono.
E Methos sentì una scarica elettrica, percorrerlo nella sua interezza, davanti alla figura che, senza un rumore, avanzava verso di lui.
Percorreva il marciapiede lentamente, caracollando, con enormi anfibi ai piedi.
Si era puntata i capelli con un paletto, arrotolandoli in cima alla nuca. Ed era pesantemente truccata di nero.
Appariva eccessivamente monocromatica, vestita di pelle e con le mani infilate in tasca. La pelle risaltava come bianca in quel contrasto visivo.
E gli occhi le brillavano come carboni.
"Li raggiungo tra poco. Sei stata a caccia?" - chiese Doyle. Aspettandosi una semplice alzata di spalle come risposta.
"Sai, non avevo niente da fare." - commentò - "Se mi aspetti, vengo con te. Tutto sommato mi va di andare ancora per massacri."
Stava deliberatamente ignorando il fatto che Doyle fosse fermo all'angolo con uno sconosciuto. Del resto, era nella sua indole farsi gli affari suoi. E provare a pretendere che gli altri facessero altrettanto.
Methos non appariva offeso dal fatto. E singolarmente, non stava cercando di sedurla, con il suo scontatissimo fascino. La stava studiando. Ed ovviamente la ragazza, per niente inconsapevole delle sue occhiate, decise che era ora di dargli il fatto suo.
Una semplice occhiata. Una, singola, senza una parola o un cambiamento d'espressione.
Le lunghe ciglia pesantemente truccate incorniciarono la freddezza metallica dei suoi occhi scuri. Qualunque fosse il messaggio che volevano trasmettere, si erano rivelati ostili.
Un attimo, ancora.
Prima di passare tra loro e continuare per la sua strada.
"Ci vediamo a casa." - la sentirono dire, mentre si incamminava, senza voltarsi.
E rimasero lì, in silenzio, aspettando che avesse attraversato la strada e si fosse inoltrata nel vecchio giardino sconnesso.
"Altro che Fede…" - fu l'unico commento - "Quella è la cosa più vicina all'Eresia che io abbia mai visto…"