Oltre al Destino
I personaggi delle serie "Angel" e "Buffy, the vampire slayer", appartengono a Joss Whedon, la WB, ME e la Fox, l'autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.
"Cordelia stai bene?" - Angel si protese a sfiorarle un braccio.
"Sì, credo di sì. Ma faccio brutti sogni in questo periodo."
"Sogni?"
"Uhm" - annuì la ragazza, con aria assorta- "C'è sempre un uomo, un essere incappucciato."
"E poi?"
"E poi combatte ed arriva davanti a me, e alza le braccia. E non capisco, se vuole farmimale. Mi mostra i palmi. Ma potrebbe fulminarmi, o che so io!"
"E…"
"E mi sveglio, Angel, mi sveglio con una gran angoscia."

Cordelia schivò il fendente. E finì per terra.
Angel se la cavava altrettanto bene. Schivava i colpi, ma si stava ugualmente riempiendo di lividi. Combatteva forsennatamente, sicuro di potercela fare anche se la situazione era disperata.
Stava in mezzo alla mischia, vampiro contro vampiro.
Con un occhio sempre puntato verso la sua pseudo-segretaria, perché non si facesse male, perché nessuno le facesse male.
Come un tempo sorvegliava Buffy.
Il pensiero quasi lo distrasse. Per poco non gli costò caro. Intervenne nel combattimento, polverizzò uno di quei cadaveri ambulanti e si diresse verso Cordy. Di colpo la situazione degenerò. Cordy arretrò senza riuscire ad alzarsi, fino ad avere le spalle contro il muro.
Adesso c'era qualcosa di malsano nell'aria. Lo poteva sentire.
Lo respirava.
Dal nulla era apparsa una spada.
I vampiri se la passavano, da uno all'altro. Come se fosse
qualcosa da preservare più della propria non esistenza.
Una spada…
Un essere incappucciato…
Di colpo il gelo, Cordelia si sentì paralizzare, il gelo le correva dentro come impazzito. Non riusciva a levarsi dalla vista annebbiata quella dolorosa immagine, di un uomo incappucciato che combatteva e uccideva.
Angel non lo vide. Stava correndo verso di lei, volteggiava come un falco, planando tra i suoi simili, per massacrarli.
Lui, il reietto che uccideva la maggioranza.
Cordelia non riusciva a muoversi, perché alle spalle di Angel avanzava quella figura, combattendo, uccidendo i non-morti con colpi sicuri.
Verso la spada. Quella spada sembrava assorbire ogni loro pensiero. Cordelia la vedeva, da una mano all'altra, da una mano all'altra, sempre più pericolosamente vicina. Faticosamente si rimise in piedi, frastornata, senza riuscire a staccarsi dal muro, strisciando le spalle, la schiena.
Angel non la perdeva di vista. Talvolta fissava Cordelia, ignorava la spada, interessandosene solo ogni qual volta permaneva nella sua visuale.
Cordelia.
Non era indifesa come pensava.
Ma andava protetta.
Perché poteva morire.
Quel pensiero lo raggelava. Cordy, morta, stesa in un lago di sangue.
Senza possibilità di riaverla indietro.
Cordy.
La sua Cordy, tanto rompiscatole, così premurosa con quel suo sano egocentrismo. Ora la spada gli interessava di più.
Da una mano all'altra le era giunta vicino.
Ma Angel non poteva sapere di quell'ombra alle sue spalle.
E Cordy non riusciva a vedere altro. Un uomo incappucciato, con le mani alzate. Ed una spada, con la lama scura ed oleosa.
Oleosa.
Adesso notava quel particolare.
Qualcosa che aveva già visto.
In un sogno.
Ma vedeva quell'aspetto della questione solo ora, che la spada era di fronte a lei.
Alzata al di sopra del suo capo.
Non riusciva a muoversi.
Come nel peggiore degli incubi, la spada ruotò, al di sopra della sua testa e Cordy ne vide la punta, mirata al suo petto.
Le sue membra si bloccarono, la limitarono a brevi millesimali movimenti, poco più di tremiti, come per sfuggire appena da un colpo inevitabile.
Ma la spada stava calando, lanciata, destinata a penetrare nel suo cuore.
Cordy chiuse gli occhi, stretti, girò la testa.
Attese.
Angel stava urlando?
Qualcuno aveva urlato.
Un urlo di dolore, di impotenza.
Disperazione.
Il raschiare di una lama sull'osso.
La sua cedevole pressione nell'attraversare la carne.
Un attimo più tardi il battito del suo cuore la sorprese.
Il suo cuore.
Batteva.
Forte.
Perché era viva.
Aprì gli occhi. Perché il suo primo pensiero fu la spada.
La lama si era conficcata nel muro, leggermente spostata rispetto al suo petto. Era passata al di sotto della sua ascella, come se qualcosa l'avesse deviata.
Appariva lucida.
Lucida di sangue.
Cordelia era stordita, stordita tanto da non riuscire a riunire i frammenti di un'immagine.
L'immagine di Angel.
Angel posava le mani ai lati della testa di Cordelia, si sorreggeva, con i palmi sulla superficie del muro.
Il muro a cui la spada l'aveva inchiodato.
Il mantello, il suo lungo cappotto scuro ancora volteggiava. Le gambe leggermente divaricate, le braccia tese, per non schiacciarla, per reggere la pressione del colpo.
Ed il suo sangue, che correva lungo la lama.
"Attenta, non toccarlo." - le sussurrò appena, consapevole di come potesse essere un veleno per lei. Lei, che ora lo fissava atterrita.
Il colpo era a pochi centimetri dal suo cuore. Il suo prezioso cuore, quella spanna di petto che doveva proteggere, quell'organo che era il suo tallone d'Achille.
Povero Angel, tanto sicuro di poter sopravvivere. Che non avrebbe conosciuto morte ma solo dolore nel farsi inchiodare ad un muro.
Ma qualcosa non andava.
Gli ci volle una frazione di secondo per accorgersene. Mentre i suoi pensieri venivano inghiottiti da tenebre torbide.
Cordelia gli passò sotto il braccio, come una furia, nell'istante stesso in cui perse i sensi, lasciandogli nel buio una fuggevole scia del suo profumo.
Doveva difenderlo.
Dall'uomo incappucciato.
Nella mischia sempre più vicino. Il vampiro che aveva colpito Angel si frapponeva tra di loro. Disarmato. Atterrito, all'idea di aver perso quella spada tanto preziosa, rimasta incastrata tra tendini e pelle.
Baldanzoso, per il fatto di saperla in quel fodero.
Ammutolito, nell'attimo in cui divenne polvere. La mischia si diradò. Fuggivano, i pochi superstiti. Incapaci di ultimare il lavoro, semplici fantocci, alla morte dei loro leaders.
Certi dell'aver assolto il loro compito.
Ed uno alla volta morivano.
Prima di essere troppo lontani.
Massacrati dall'uomo incappucciato.
Lo stesso che ora si stagliava di fronte a Cordy. Con le mani alzate, i palmi aperti verso di lei. E Cordelia, con il solo pensiero di proteggere Angel, inchiodato laddove sarebbe dovuta essere lei. Proteggerlo come poteva.
Nell'affrontare il suo incubo.
L'incubo che alzava le mani.
Per levarsi il cappuccio.
Lo tirò indietro, con forza, stupito.
Stupito, nell'attimo in cui capì.
Perché Cordy, sotto quel cappuccio, non aveva visto i suoi occhi trasparenti.
Perché non aveva riconosciuto la sua voce, nell'attimo in cui aveva urlato, nell'istante in cui aveva creduto di essere arrivato tardi.
Doyle.

Il suo Doyle.
Tornato dall'inferno.
Cordelia stava piangendo, e non lo sapeva.
I lacrimoni sbucarono all'improvviso e Doyle li baciò, afferrandola e stringendola forte.
Non aveva tempo per spiegarle.
Non l'avrebbe fatto.
Non le avrebbe detto come. Ma perché.
O forse non avrebbe avuto bisogno di dirlo. Cordelia piangeva, rideva e soprattutto lo abbracciava disperatamente.
"Cordy, Cordy, non abbiamo tempo." - mormorò quel pazzo spirito irlandese, allontanandola appena- " Angel, devo pensare ad Angel."
Cordella annuì e gli occhi si dilatarono. Angel era ferito, ma immortale. Altrimenti sarebbe finito in polvere. Bastava portarlo a casa.
Ma la spada era oleosa…
"Veleno." - boccheggiò.
E Doyle annuì, con un lampo di agitazione in fondo allo sguardo.

Rapidamente Doyle s'insinuò sotto il braccio dell'amico. S'appoggiò al muro dove stava Cordelia ed ordinò:
"Ora."
Cordelia afferrò l'elsa con entrambe le mani e sfilò la spada, cercando di mantenere l'inclinazione d'entrata.
E chiudendo la mente, al suono atroce di una spada liberata dal fodero di carne.
Fuggevolmente pensò a Spike, salvato da Angel nello stesso modo, con il suo corpo, da un pugnale che non avrebbe dovuto colpirlo.
Pensò a quanto aveva odiato quel suono.
Un fiotto di sangue sgorgò, quando anche la punta fu lontana dalla ferita.
Angel si accasciò tra le braccia di Doyle, senza riconoscerle.
Inerte.
Doyle lo sostenne, addolcì lo scivolare verso terra. Quante volte, in quei mesi di lontananza, separati dalla vita e dalla morte aveva desiderato di stringerlo e rassicurarlo. Ma soprattutto, aveva desiderato che sapesse.
Sapesse che non era stato abbandonato.
Perché un amico non abbandona mai un amico.
Doyle si frugò tra le pieghe del mantello. Ed estrasse una fiala. La stappò con i denti e sputò il tappo lontano. La accostò a quelle labbra esangui.
Il sangue continuava a scorrere copioso dalla ferita e Cordelia fissava quelle due figure abbracciate ai suoi piedi. Ancora con la spada tra le mani.
"Questo l'aiuterà. Lo aiuterà." - le disse Doyle, frastornato dalla consapevolezza che si faceva strada- "Cordy, sono arrivato in tempo. In tempo. Starà male, male da morire. Ma vivrà. Vivrà."
Chinò la testa e chiuse gli occhi, un attimo. Solo un attimo di gioia, il primo che poteva concedersi.
Perché era lì.
Perché era con loro.
Perché adesso poteva rispondere alla muta domanda di quella meravigliosa ragazza, che, tremante, lo fissava.
"Sono tornato. Non me ne andrò più." -le sorrise birichino, alzando la testa- "A meno che non ci sia qualche atto eroico da compiere, mentre Angel si gode il meritato riposo."

Ma Angel non migliorava. E Cordy doveva aggrapparsi alla fiducia che aveva in Doyle.
E lo faceva con gioia.
Piangendo.
Posò la spada a terra e li abbracciò entrambi, con la mano di Doyle sulla ferita di Angel, perché il sangue non potesse nuocerle.
Sarebbero andati a casa, lo avrebbero protetto e rassicurato.
Perché ancora non sapeva che Doyle era tornato.
Angel non sentiva nulla.
Galleggiava nel nulla, nell'irradiarsi del dolore.
Si era reso conto di scivolare lontano, pericolosamente veloce.
Poi la sua caduta si era arrestata.
C'era stata un'esplosione impazzita vicino al suo cuore, metallo gelido era strisciato via come un serpente.
Una mano stava sul suo petto, riposava, appoggiato ad un calore solido.
Una presenza sembrava avvilupparlo.
Buffy.
Il primo pensiero informe.
Qualcosa di forte gli stava correndo in gola.
Sembrava che le labbra si sciogliessero al suo passaggio.
Darla. Il suo sangue.
Un turbine di pensieri.
Spike, la sua anima.
Profumo di donna, Drusilla, la sua bella follia.
E poi il nulla, il cadere disperato, affogando nelle tenebre.

"Aiutami. Da solo non ce la faccio." - Doyle sollevò Angel, afferrandolo per le spalle. Anche in quel frangente, Angel sembrava molto più solido di lui. Alto, spalle larghe.
Era una sensazione stranamente umana, il fidarsi poco delle proprie forze.
Cordy prontamente s'insinuò sotto il braccio del loro ferito ed afferrò la spada con la destra. Quando ce ne fosse stato tempo, l'avrebbe gettata personalmente in mare, come la gemma.
Non voleva saperne più nulla di quella spada che per un attimo aveva quasi distrutto le loro vite.
La vita senza Angel. Non poteva più neanche concepirla.
E senza Doyle…. Come aveva fatto a sopportare quel pensiero? Il suo cuore sembrava non aver mai smesso di urlare la sua impossibilità.
E Doyle era tornato. E stava lì, stringeva il suo amico, accasciato sul sedile posteriore della macchina, mentre Cordy si metteva al volante.
E la spada sempre lì, abbandonata.
Doyle si tolse il mantello e lo drappeggiò addosso ad Angel. Lo sostenne, gli fece posare il capo sul suo petto di demone e lo cinse con entrambe le braccia.
S'appoggiò allo schienale e fissò la città che sfrecciava oltre il finestrino.
Non gli importava di stare scomodo, non gli importava nulla, fino a quando quel corpo stava al sicuro, lì, con lui. Non l'avrebbe mai affidato a nessun altro.
Nemmeno a Cordelia.
Solo Doyle poteva proteggere Angel.
Solo Doyle.
Ed era per questo che era tornato. Aveva smosso terra e cielo, a partire da quando era stato consapevole di quel pericolo.
Angel sarebbe morto.
Il suo destino era scritto.
Ma cosa può il destino, se uno spirito irlandese prende in mano la situazione?
Nulla.
Nulla.
Ed Angel sarebbe vissuto.
E Cordelia non avrebbe dovuto piangere più.
E Doyle aveva una nuova vita da vivere.
Ed in cuor suo, sperava di essersela meritata. Perché mai, quel mondo tanto caotico ed incomprensibile gli era sembrato più affascinante.

Sapere che tutto sarebbe finito bene non li tranquillizzava affatto.
Angel aveva la febbre alta e non si svegliava. Apriva gli occhi e poi li chiudeva. La testa gli scivolava inerte sul petto ad ogni minimo scossone della macchina
La ferita era tamponata, ma ancora aperta. Doyle, frugando con il braccio libero nel bagagliaio, aveva trovato quei pochi farmaci che Cordy si ostinava a portare in giro per rattoppare, quando necessario, il povero Westley.
Già…
Come avrebbe preso, un povero ex-osservatore, la notizia di avere una nuova anima tormentata tra i piedi? Si sarebbe consolato, una volta tornato in città, all'idea che questo demone fosse più ottimista del suo capo-vampiro?
E poi c'era Cordelia….
Se non avesse avuto tra le braccia un vampiro troppo debole per ridere, gli avrebbe raccontato cosa pensava dei mesi a venire….
Ed Angel avrebbe detto: "Che cosa ho commesso per meritarmi tutto questo? L'inferno è niente a confronto… ed io lo so, perché ci sono già stato…"

"Aspetta, voglio prima medicarlo come si deve." - sussurrò Doyle nell'adagiarlo sul divano.
Lo privò della camicia mentre Cordy recuperava il necessario. Lavorarono in silenzio. Doyle ripulì la ferita, il taglio d'ingresso e quello d'uscita, poi lo fasciò stretto, mentre Cordelia bruciava i vestiti, compreso l'amato mantello.
Angel non l'avrebbe presa bene, ma Cordy, armata di comunissimi guanti di gomma e ben lontana dal fumo che si levava, pensava a quanto fosse rassicurante spargere la cenere dei vestiti e non quella di Angel.
Quando rientrò, sostò un istante sulla porta.
Angel era ancora sdraiato sul divano, le braccia abbandonate sul petto, gli occhi chiusi, la fronte aggrottata ed imperlata di sudore.
Doyle tornò indietro, non badò a Cordelia e si sedette sul bordo del divano, aggiustando la vecchia coperta su quel corpo scosso dai tremiti. Ed Angel aprì gli occhi.
E lo fissò.
Perché adesso lo vedeva.
E lo chiamava. Con un sussurro, appena.
Il cuore di Cordy ebbe un balzo. Doyle non disse nulla, nell'accogliere quel breve riconoscimento.
"Doyle." - disse Angel.
Nient'altro.
E Doyle tese una mano, la pose su quella fronte che scottava. Con le dita scostò quei ciuffi indisciplinati in cui Buffy amava impigliare le unghie.
"Non ti lascio." -rispose- "Sono tornato per restare."
Angel lo fissò ancora, deglutendo. Poi perse i sensi, e la testa gli scivolò da un lato. Doyle rimase fissarlo ancora, seduto dov'era, con un lampo di tristezza nello sguardo. "Non vi voglio più lasciare. Non me ne andrò più." -ripeté, solo per se stesso.
Cordy si coprì la bocca con una mano, ma il singulto fu lo stesso udibile. Una morsa si era chiusa intorno alla sua gola. Aveva paura. Paura di dovergli dire ancora addio.
Ed a nulla bastavano le braccia di Doyle, per rassicurarla, per scaldarla.

Il profumo di caffè…
Cordy aprì gli occhi e si stiracchiò.
Dopo tre notti, rannicchiata in una poltrona, iniziava ad avvertire qualche dolore muscolare.
Ma nulla l'avrebbe fatta andare via da quell'appartamento.
Perché lì dentro stava tutta la sua vita.
Angel non si era più svegliato. Non era mai stato lucido e non aveva mai smesso di delirare. Aveva chiamato tutti quelli che avevano un senso nella sua vita, aveva sussurrato il nome di Buffy.
E Spike, aveva urlato a Drusilla di lasciarlo in pace.
Aveva persino chiamato Faith.
Era come se percorresse la sua vita, istante dopo istante, tormentandosi con ricordi dolorosi e con volti di persone che erano state capaci di fissarlo negli occhi con mute domande.
Aveva invocato Cordelia, le aveva addirittura stretto le lunghe dita, in uno spasmo di dolore.
E Doyle. Doyle, che aveva avuto un gesto d'affetto per l'amico ogni volta che si era sentito chiamato.
"Ehi, uomo, finirai con consumarmi il nome" - gli aveva sussurrato, una volta, abbozzando un sorriso, nel passargli nuovamente una mano tra i capelli, sulla fronte, lungo la linea della guancia.
E Cordelia s'addormentava ogni sera, con la loro immagine negli occhi. Pensando a Doyle seduto sul bordo di quel letto. E s'addormentava solo se Doyle, con lo sguardo, la rassicurava.
"Tranquilla. A domani, quando ti svegli. Lo sai, sono qui."
Li proteggeva. S'addormentava seduto a terra, con le gambe incrociate e la testa appoggiata alle coperte di Angel.
Tenendo una mano tra le sue. Non rinunciando mai ad un contatto fisico, che superasse le tenebre che ancora li dividevano, che non lasciavano trapelare le parole che erano capaci di dirsi.
E quando si svegliava, per avere la situazione sotto controllo, copriva Cordy con una coperta, si concedeva un istante per guardarla, per ricaricarsi.
Perché l'amava. Ma non avevano tempo per parlarne; in certi momenti si abbracciavano, si stringevano uno all'altro, per ricordarsi che nulla sarebbe andato storto.
Anche se sembrava.
Ed ogni mattina Doyle preparava il caffè, lungo e nero e ne versava due belle tazze. E quando tornava, Cordy era sveglia, impegnata a stirare i muscoli, a guardarsi assonnata nello specchio.
Con un fuggevole istante di paura, temendo di sognare ancora, che profumo di caffè ed il tramestio in cucina non ci fossero. Con la paura di non vedere Doyle riflesso nello specchio, intento a varcare la porta senza rovesciare la loro colazione.
Si sedevano sul divano, oppure andavano sul terrazzo, serrando bene le tende, perché neanche un raggio di luce entrasse.
Ed era un piccolo gesto rituale che dava forza quasi quanto il caffè.
Parlavano, si scambiavano brevi battute, fingendo un attimo di tranquillità, prima di rientrare. Doyle si soffermava, la provocava con leggerezza, per farla sorridere ed ascoltava la sua risposta, scostando la tenda, gettando un'occhiata nella stanza.
Ed era così ogni volta, ad ogni pasto, in piedi, sgranocchiando qualcosa.
Cordelia si lamentava di quello che mangiavano, definendole schifezze caloriche.Gemendo per la linea che le sembrava di perdere, ogni volta che infilava la mano in un sacchetto unto.
"Vorrei vederti, dopo mesi di assoluta spiritualità" - ribatteva lui, addentando un panino, assaporandolo lentamente, allontanando la mente, prima di rituffarsi nella sua missione.
La vita era la vita. E tutto si poteva vedere con animo diverso, adesso.
E non poteva spiegarlo con parole che fossero comprensibili. Forse Angel avrebbe capito, Angel che aveva saputo vivere come un mortale per ventiquattrore, prima di rinunciare spontaneamente. Per amore.
Ma in fondo Doyle era morto per amore.
Almeno una volta nella sua vita.
Ed ora aveva di nuovo il tepore del sole. E Cordelia.
Ed Angel.
Ed ogni volta che ci pensava, doveva sfiorarli, per sapere che erano reali, che non erano un desiderio passeggero, inventato da uno spirito ormai privo di materia. Doveva sentirsi carne.
Doveva sentire la loro carne.
Il corpo palpitante di Cordy, le membra ancora inerti di Angel.
In quei momenti doveva respirare la loro consistenza, sentire la loro voce, il loro respiro.
E quando si svegliava dai suoi brevi e tormentati riposi, li cercava con lo sguardo, si posava una mano sul cuore.
E poi sul cuore di Angel, per assorbirne il battito.

Angel. Ancora una volta Doyle sbirciò dalla porta della cucina.
Cordy stava seduta sul ripiano, sorseggiava il caffè e sgranocchiava un biscotto, pigramente. Non era cambiato nulla.
Angel dormiva, forse di un sonno più tranquillo.
Ma ancora non succedeva nulla.
Sembrava una giornata uguale alla precedente.
La ferita era quasi rimarginata, ma la medicazione andava cambiata. Con infinita pazienza, Doyle lo avrebbe sorretto, mettendolo a sedere, per fargli scivolare tra le labbra ancora un po' d'antidoto. Poi Cordelia gli avrebbe portato un tazzone come quelli che stavano usando, colmo fino all'orlo di sangue.
Per nutrirlo, per dargli la forza di combattere e di ristabilirsi.
Come se fosse un'influenza, come se si trattasse di brodo bollente.
Cordelia stava lì, si sedeva sul letto, raccogliendo le ginocchia con le braccia, mentre Doyle parlava piano, tranquillo, nell'imboccarlo, gli raccontava qualche aneddoto.
Di tanto in tanto alzava i suoi occhi trasparenti, quanto bastava da inglobare Cordy nella sua visuale, assaporando quell'intimità.
Desiderando solo di rendere Angel partecipe. Come voleva saperlo seduto, a parlare, discutere.
A volte Cordy si sorprendeva a fantasticare. Immaginava la convalescenza di Angel, lunghi pomeriggi passati su quel letto, magari a colpirsi con i cuscini, per tenerlo allegro, perché non tornasse ad essere il cupo tormentato di ogni giorni. Fino a quando non ne avesse avuto la forza, ovviamente.
Perché, cosa poteva essere Angel senza le sue meditazioni, senza un'ombra a nascondergli il volto?
A Doyle mancava quello sguardo, lo sguardo triste di chi attraversa l'eternità con un fardello troppo grande per le sue spalle.
Un fardello che avrebbe volentieri condiviso.
Perché nessun altro poteva farlo.
Nessuno.
Né Spike, né Buffy. E Cordelia… Angel non l'avrebbe mai lasciato scivolare su quell'anima che gli sembrava tanto esile. Come se non si fosse mai rassegnato all'idea di quanto fosse forte e testarda la sua vanesia segretaria.
Quella bellissima ragazza che stava scalza, a fissarlo in silenzio.
Doyle gli parlava anche di questo, quando restavano soli. Gli parlava, come aveva fatto per tanti mesi, restandogli a fianco, senza essere visto.
Abbassava la voce e cercava di scivolare nei suoi sogni informi, per infondergli calore e protezione.
Perché smettesse di rabbrividire, di affondare pesantemente nel suo passato, tra le ombre.
Ma Angel non sapeva. La voce gli giungeva da lontano. Un sogno, soltanto più effimero perché più reale. Un sogno che l'avrebbe fatto soffrire, se fosse riuscito a svegliarsi.
E non poteva sapere che non era il primo.
Perché era il primo. Il primo che avrebbe potuto ricordare.
Perché Doyle non sarebbe più riuscito a cancellarlo.
Perché Doyle non era più un sogno. Perché anche Angel, galleggiando nel suo delirio, la riteneva una cosa impossibile.
Il pensiero più logico, per un vampiro con l'anima vegliato da un demone irlandese redivivo.

Quella notte la situazione degenerò all'improvviso. Angel scivolò pericolosamente giù per il baratro.
Qualcosa di ferale si risvegliò in lui. Qualcosa lo fece urlare, scalciare e contorcersi aldilà dell'umana comprensione.
Doyle lo fermò, s'appellò ad ogni sua forza, legandolo, scotendolo, tamponando la ferita da cui nuovamente zampillava il sangue.
E cacciò Cordelia, le disse di andar via, le gridò di stare lontana. Perché non voleva che vedesse tutto questo.
Non voleva che subisse.
E Cordy scappò, scappò dalla stanza e si rannicchiò in un angolo in cucina, tappandosi le orecchie come non aveva mai fatto, piangendo istericamente nel percepire, in fondo al suo animo, come Angel stesse barcollando in cima a quel muro che separa la terra dall'inferno.

Doyle la trovò lì, il mattino successivo. Rannicchiata a terra, con il capo tra le mani, appoggiata ad uno stipite del mobile.
Profondamente addormentata.
La sollevò e Cordy si fece piccola sul suo petto, bofonchiando il suo nome.
"Ehi, piccola." - le rispose, scostandole i capelli dal viso ancora segnato.
Ad un tratto sussultò. Si svegliò, tornando ad essere rigida.
"Angel!" - esclamò in un soffio.
Doyle la fissò.
"Preferivo Doyle." - replicò. Poi stirò il suo bel sorriso sottile- "Ma lui sta bene."
"Perché non me l'hai detto." - chiese lei, senza rancore, tornando a posargli il capo sul petto, lasciandosi trasportare fino al divano- "Perché non mi hai detto che rischiava ancora di morire. Pensavi che non potessi esserti d'aiuto."
"Non è stato un bello spettacolo." - Doyle si sedette, tenendosela sulle ginocchia, in un improvviso slancio d'intimità - "Volevo evitartelo. E sapevo che ti stavi preoccupando, indipendentemente da quello che ti avevo detto. Sei fatta così Cordy, avevi paura per lui già credendolo al sicuro. Io volevo risparmiarti un altro dolore."
Cordelia avrebbe voluto discutere, ma, d'altra parte, Doyle non aveva voglia di lasciarla parlare. Aveva qualcosa d'importante da dirle. Adesso.
"Perché se qualcosa fosse andato storto, se Angel fosse morto, avresti conosciuto il dolore dell'impotenza. E quella lenta agonia di avrebbe lacerato più di una guarigione finita in modo inaspettato."
"E così no?" - la sua voce suonava amara.
"No." - mormorò Doyle, stremato, seppellendo le labbra tra i suoi serici capelli, rassicurandosi con la loro morbidezza- "Perché Angel è vivo. E tutto andrà bene. Soprattutto adesso, che ti ho detto la verità."
Stettero così, parlandosi appena, sdraiati sul divano, carezzandosi timidamente. Doyle aveva delle profonde ombre scure sotto gli occhi, stravolto dalla stanchezza e dal dolore per ciò di cui era stato testimone.
Parlava appena di quello che era successo, lasciava uscire in un soffio brevi frasi, scarne descrizioni. Parlava dell'attimo in cui le grida si erano quietate e poi ancora, della lotta furibonda, del sangue aveva macchiato le lenzuola ed il pavimento.
Sussurrava le frasi concitate, gli spezzoni comprensibili che aveva sentito.
Le raccontava tutto quello a cui non aveva assistito, tutto ciò da cui l'aveva protetta.
E Cordelia lo viveva attraverso le sue parole, con il sollievo che poteva darle solo il risultato di quella battaglia.
Perché Angel e Doyle, a modo loro, avevano vinto insieme.
E qualunque fosse stata la loro sofferenza, non avevano dovuto dare una vita in cambio di un'altra, non c'era stato sacrificio che la loro sopravvivenza non avesse ricompensato.
Quella temporanea follia aveva parlato al cuore di Doyle. Un mosaico di situazioni si era ricomposto sotto i suoi occhi, nello strazio di Angel, le parole ed i suoi fantasmi.
I fantasmi che avevano cercato di afferrarlo e che un demone aveva scacciato.
Perché Angel l'aveva chiamato. Con tutta la forza che gli restava in corpo. Perché, senza saperlo al suo fianco, aveva creduto in lui e nel suo aiuto.
Perché, in tutti quei mesi non aveva fatto altro che sperare di averlo vicino, a guardargli le spalle, con quel gelo in fondo al cuore, con quel pensiero, sempre in agguato…
"Se ci fosse Doyle sarebbe diverso."
Ed era stato diverso.
Perché c'era Doyle.
Doyle, che con la sua dolcezza insegnava più della forza. Capace di non farsi sentire, con le sue premure. E Cordelia lo sapeva meglio di chiunque altro.
E non poté evitare di pensarci, con un sorriso, nel drappeggiargli una coperta indosso, quando si fu finalmente arreso al sonno.
Lo coprì, aggiustandogli un cuscino dietro il capo. Proprio come Doyle le aveva insegnato, senza una parola.

Ora dormiva. Dormiva il sonno del guerriero dopo lo scontro.
E Doyle lo lasciava solo più volentieri, per parlare con Cordelia, indaffarata a trafficare, da una stanza all'altra.
Come se l'affannarsi le permettesse di scaricare una tensione che non sapeva d'avere accumulato.
Senza smettere mai di parlare. Come faceva quando si erano conosciuti, per riempire ogni spazio vuoto che riusciva ad accaparrarsi.
Perché anche Doyle aveva voglia di parlare, di lasciar risorgere l'innato ottimismo, quello della sua prima vita. Perché ora poteva ricominciare a vivere. Come prima.
"Ma dormirà ancora per tanto? Io sono stufa, mi sono provata tutti i suoi vestiti… uh, guarda questo!" - esclamò, infilandosi un altro capo indescrivibile.
"Adesso si riposa."
"Ma lo faceva anche prima. Lui dormiva, noi lo fissavamo." - replicò petulante, immergendosi nuovamente nell'armadio.
"Ehi, ma sei sicura che Angel sarà soddisfatto di quello che stai facendo?" - le chiese cautamente, nel vedere un nuova pila di cianfrusaglie che rotolava sul tappeto.
"Ovvio. C'è polvere di secoli, qui dentro!"
E come darle torto…
All'improvviso qualcosa lo distrasse.
Una tensione lo travolse.
Anche Cordelia si accorse dell'anomalia; rimase inginocchiata, ma con la testa sbirciò oltre l'anta, giusto in tempo per vedere la schiena del suo demone che si allontanava. Ed un istante dopo, giunse l'urlo.

"Doyle."
Angel si levò di scatto sul letto. Ed una fitta lo piegò in due.
Si puntellò con la mano tra le coperte e si portò una mano al cuore. Per tastare le bende che sembravano soffocarlo.
Doyle.
Doyle.
Doyle.
Quel singolo pensiero gli martellava in testa, fino a diventare un rullio che scuoteva ogni singolo ed intimo componente del suo essere.
"Doyle." - sussurrò ancora, come una preghiera.
Una preghiera inascoltata, come altre centinaia di volte.
Eppure ritentò.
"Doyle."
Come lo aveva sentito vicino, nel brancolare in qualcosa che ancora gli sfuggiva. Non ricordava nulla, se non il vortice della follia. E Doyle.
La sua presenza, la sua voce, la sua forza.
La stessa forza con cui l'aveva stordito la notte in cui era morto. Per salvarlo.
Anche adesso lo aveva salvato.
Angel lo sapeva.
Ma c'era un altro dolore in agguato, un dolore che lo spinse a chiudere gli occhi, travolgendolo, insensibile della sua debolezza. Di colpo, Angel desiderò lasciarsi scivolare di nuovo tra quelle coperte, nasconderci il volto, fino ad aver esaurito ogni lacrima che potesse sgorgare da quella ferita che non si vedeva.
Eppure rimase seduto, a combattere la disperazione, come se fosse un giorno qualsiasi.
"Era solo un sogno. Come sempre." - mormorò.

"No, uomo. Non lo è." -Doyle si allontanò dallo stipite. Ed avanzò.
Passando dalle zone d'ombra.
Per vedere quegli occhi pieni di dolore levarsi su di lui.
Travolti.
Chiudersi, sotto lo sguardo più dolce che avesse mai conosciuto.
Lo sguardo di Doyle. Il suo tormentato spirito irlandese.
Silenzioso, leggero nell'accostarsi, nel sedersi in un posto che a lungo aveva occupato, a sua insaputa.
E le parole di nessuno avrebbero mai potuto rivelargli quel girotondo di pensieri, intorno a lui, alla sua malattia.
Avrebbe voluto chiamarlo per nome. Ma non ci riusciva. Perché non ci credeva. Perché era solo un fantasma, come tanti che gli si erano accostati prima di lui.
Era solo il fantasma di qualcuno che aveva ucciso.
"No, non lo sono. Perché è finito il tempo dei rimorsi." - gli rispose in un soffio.
Ed Angel lo guardò, con la vista appena oscurata. Oscurata dal dolore di non potergli credere.
Eppure tese la mano. Tese la mano verso quella che credeva un'allucinazione.
E non arrivò mai sfiorarlo, nell'attimo in cui le forze gli mancarono, nello scivolare appena in avanti.
Finendo tra le sue braccia, con il volto sul suo petto, per una volta ancora.
La prima che riuscisse a ricordare.
Come i sogni.
E si perse, in quel calore, in quel respiro sul suo capo, tra le mani che lo sostennero.
Naufragò in quell'emozione, nel riconoscere le proprie lacrime, nel parlare con i primi rauchi singhiozzi. Per quello scontro con la realtà, per il calore di quel corpo che aveva visto svanire in un lampo di luce.
Per la forza pulsante del suo affetto. Per quello di Cordelia, che si ritraeva dietro la porta aperta. E per quella singola parola, sussurrata da una voce profonda, tra i suoi capelli.
"Ehi, uomo…."

II
Gli bastavano quattro passi per fare una rampa di scale. Due gradini per volta, senza nessun rumore.
Era la sua grande vittoria degli anni novanta: camminava con gli anfibi senza farsi sentire.
Non era silenzioso come Angel, ma sapeva mantenere un certo stile. Era di ottimo umore. La sacca sulle spalle non gli pesava affatto. Era stato a Sunnydale, senza trovarla poi molto cambiata, in quattro mesi. E senza essere stato molto felice all'idea di doverci andare.
Ma Spike aveva alcune cose in sospeso.
Ed era ben lieto che quella tediosa vacanza fosse finita.
Soprattutto per quella fastidiosa sensazione… meno di ventiquattr'ore prima si era svegliato, di soprassalto, con il cuore in gola.
Qualcosa o qualcuno…
No, non riusciva a definirlo. Non riusciva nemmeno a liberarsene.
L'impressione che qualcosa fosse fuori posto. Ma il suo orgoglio gli aveva impedito di alzare il telefono e chiamare…
Chiamare chi?
Angel, che avrebbe sorriso del suo tono incurante e si sarebbe reso conto della nostalgia di casa che sentiva?
Cordelia, che avrebbe trovato il modo di fargli un terzo grado invadente?
Westley, in Inghilterra? Ma siamo matti?
E Faith? Faith non possedeva cellulare e, se si allontanava da Los Angeles, era per non farsi importunare….
La lista si assottigliava incredibilmente, con un approccio critico del genere. E Spike, con un po' di buonsenso, evitava accuratamente tutto ciò che l'avrebbe potuto mettere in polemica con la Cacciatrice.
A niente erano valsi orgoglio e ragionamento.
Spike aveva messo a posto le poche rimanenze ed era ripartito, il prima possibile.
Sulla porta s'imbattè in Cordy. Un colpo netto e l'afferrò, prima che gli sbattesse addosso.
La squadrò senza lasciarle le braccia.
"Allora gattina, posso baciarti?"
Cordy alzò lo sguardo e lo fissò negli occhi. E Spike la lasciò andare all'istante, aggrottando le sopracciglia. Al di sopra della spalla si muoveva una figura.
"Ciao Spike."
Doyle e Spike si erano visti una volta sola, fuggevolmente, in una situazione che entrambi preferivano dimenticare. Dimenticare, nella sorpresa di trovarsi uno di fronte all'altro.
Spike lo squadrò in silenzio e Doyle si lasciò osservare, con un leggero sorriso sulle labbra.
Incrociò le braccia e attese.
Spike appariva lo stesso di sempre, ai suoi occhi. Uguale ai racconti di Angel, tale e quale all'idea che Doyle si era fatto di lui. Biondo, baldanzoso ed ora leggermente sulla difensiva.
Ma con un'anima. Un'anima forte e piacevole da percepire, quanto quella di Angel.
Spike non era altrettanto sereno nei suoi ragionamenti. Doyle non era una risposta consona alla sua tensione. Non poteva essere quel suo ritorno,di cui per altro non sapeva nulla, a provocargli quell'agitazione.
Perché Doyle si trovava, redivivo, a casa di Angel?
"Finiscila, Spike. Io rispondo alle domande. E vorrei parlarti." - Doyle avanzò verso di lui. Tra loro stava ancora Cordelia. Immobile, come uno spartiacque, divideva le loro considerazioni. Ed aspettava, fissando il vampiro biondo.
Di colpo Spike si sentì invadere da una gelida rabbia. Non solo era tornato dal mondo dei morti; gli stava dando un ordine. Doyle gli aveva parlato come si parla ad un bambino. Strinse gli occhi e lo fissò meglio.
Era disarmante. Sorrideva, con quegli occhi grandi e profondi.
Ma dov'era Angel?
Spike non smetteva di fissarlo, domandandosi dove fosse il triste vampiro bruno, dove si fosse cacciato, lasciando a quei due il suo appartamento.
Come se avesse intuito ciò che stava per fare, Cordelia fece un passo indietro e posò le mani sulla cornice della porta, per sbarrargli il passaggio.
Doyle si mosse per interrompere quella che gli sembrava una dichiarazione involontaria di guerra.
"Spike." - insistette - "Vorrei parlarti un attimo."
Qualcosa non andava…
Angel non andava…
Di colpo, in fondo al cuore, si affacciò la paura. Cos' era successo che non potevano dirgli così, su due piedi?
E perché Doyle era lì?
"Andiamo, vieni."
Doyle si incamminò giù dalle scale, senza pensare neanche per un istante che Spike non lo seguisse. Cordy tese una mano per afferrare la sacca e Spike discese le scale, fino alla sala del piano di sotto.
Doyle si stava versando da bere. Anzi, stava versando da bere ad entrambi.
"Mi fa piacere rivederti. E mi fa piacere che tu abbia di nuovo un'anima."
"Finiscila, irlandese. Come hai fatto a tornare."
Doyle rise apertamente di tutta quella baldanza.
"Spike… fammi la domanda vera. Quella per cui vuoi una risposta…"
Era disarmante. Gli tendeva il bicchiere con un sorriso amichevole. Comprensivo, quello era il termine adatto.
Tutto il suo essere gli comunicava l'inutilità di essere ostile.
"Angel sta bene, Spike." - gli rispose. Senza attendere di sentirselo chiedere. "C'è un motivo per cui dovrebbe star male?"
"C'è stato. Ma è passato."
"Allora vado a salutarlo." - replicò Spike, girando i tacchi.
"Dorme."
Spike si fermò, continuando a mostrargli le spalle. Angel dormiva. A notte inoltrata. Angel dormiva e Doyle era tornato. E, qualunque cosa fosse successa, Spike non era stato presente.
Di colpo si sentì testardo e insensibile.
Doyle non aveva fatto nulla per provocarlo. Anzi, era stato chiaramente disposto ad un dialogo, prima ancora che si creassero impressioni sbagliate.
Doyle era disposto a dividere un'informazione con lui. E lo trattava da amico, quando non aveva nessun motivo per farlo.
E Spike, che tra i due maggiormente si era reso conto di quanto l'altro fosse importante nell'esistenza di Angel, si comportava in modo tanto egoista.
Studiatamente si girò, ruotando quasi sui tacchi. Tornò sui suoi passi e si protese a prendere il bicchiere dalle mani di Doyle.
Poi si sedette.
"Parliamo."
"E non partiamo con il piede sbagliato."
Doyle iniziò a parlare. Gli riassunse in semplici frasi la sofferenza degli ultimi giorni, la fatica e l'angoscia. Gli raccontò perché era tornato, ma non come. Non si aspettò domande ma diede risposte.
Quando gli sembrò il caso, infine, tacque. E stette in silenzio, per lasciargli assimilare ogni informazione.
Ad un certo punto del discorso, Angel era quasi morto. No, anzi, almeno due volte nel discorso.
Strano…
Il suo cervello faticava ad assimilare un'informazione di quella portata.
Angel… morto.
Angel era quasi morto.
Adesso la sua angoscia senza forma aveva almeno un nome.
"Cosa hai sentito, Spike? Me lo vuoi dire?"
"Nulla. Non ho sentito nulla."
"Non hai sentito il suo richiamo? Non ci credo."
"Ed anche fosse? Non è a te che devo rendere conto!" - scattò furioso.
"Neanche a lui, se è per questo. Secondo me gli farà piacere vederti."
Nulla sembrava scalfire la sua calma ed il buonumore. Lasciava semplicemente che Spike gli inveisse contro. Perché non poteva negargli il diritto di sfogarsi.
Invece Spike stava immobile e lo squadrava, girando tra le mani il bicchiere.
"A cosa pensi."
Doyle voleva sapere cosa pensava. Non l'aveva veramente chiesto, non c'era stata intonazione interrogativa nella sua voce. Era come se volesse solo fargli notare che era presente, disposto a parlare di qualsiasi cosa gli passasse per la testa.
"Pensavo a quando sono salito in macchina con Angel e sono venuto a Los Angeles. È stata la prima volta in cui abbiamo veramente parlato, da quando ci conosciamo. Abbiamo parlato perché ci andava di farlo. Ed Angel mi ha raccontato cose che non sapevo.
Mi disse che in un momento buio della sua vita aveva scoperto di avere un angelo custode. Che non importava con che nome si facesse chiamare, perché arrivava sempre, quando meno te l'aspettavi." - Spike si sentiva la bocca impastata, come se le parole non volessero uscire - " E mi disse che, con quell'accento irlandese, si permetteva di dire qualunque cosa gli passasse per la testa."
Doyle chinò il capo e rise, sommessamente, di quell'affermazione. Si spostò una mano sugli occhi. Anche la sua risata era come lo sguardo: profonda. Modulata e sincera.
"Allora, Cantastorie…" - Spike aveva uno sguardo fermo e profondo - " Con quale messaggio sei arrivato, questa volta?"
"Nessun messaggio. Avevo lasciato alcune cose in sospeso. E non potevo accettare la morte di Angel. Tu saresti restato impassibile?"
"No. No. Mai. Ma io sono Spike, e tu sei il suo custode."
"E' vero. Ognuno ha il suo compito. Ed entrambi sappiamo come svolgerlo, direi."
"Tu credi?"
"No, Spike. Io non credo. Io so. È il vantaggio di essere un redivivo." - Doyle alzò gli occhi al cielo - " Le mie fonti erano molto, molto, molto… affidabili."
Fu la volta di Spike di sorridere. Il conflitto a fuoco era scampato.
"Perché non vai a tirare giù dal letto l'eroe? Io ne approfitterò per portare la mia bella a mangiare una fetta di torta al cioccolato."
"Ottima idea."
"Non strapazzarlo. E non lasciarti infinocchiare da quella faccia comprensiva che si ritrova. Deve stare a letto e deve mangiare. Ci sono due contenitori in frigo."
"Sì, mamma."
Doyle, già a cavallo della porta e con la giacca in mano, si voltò a rivolgergli un sorriso di intesa.
"Avrai le tue risposte, Spike. Quando avremo testa tutti e due, quanto basta per fare le persone serie. Ci vediamo."

L'Hyperion sembrava uno spazio tranquillo scavato nel silenzio. Spike risalì le scale. Con meno baldanza di prima, ma con il cuore più leggero. Cordy lo guardò ancora un istante, prima di seguire Doyle fuori dalla porta.
L'aria pungente le tormentava le guance. E Doyle, come se lo sapesse, le strinse un po' di più la sciarpa.
Era una serata speciale. Era la prima volta che usciva con Doyle.
Il loro primo appuntamento.
Sembrava strano. Ma era proprio così.
Con un sospiro soddisfatto si insinuò sotto il suo braccio.
"Principessa, hai quella faccia."
"Quale faccia?"
"Quella di chi ha incastrato un povero diavolo e sta per papparselo."
"Un povero demone, vorrai dire."
"Giusto. Un povero demone. È giusto. Ma non potevi negare di avermi preso all'amo? Sarebbe stato carino…"
Aveva l'aria afflitta. E Cordy, sensibilmente, gli assestò una gomitata. Leggera, ma pur sempre una gomitata.
Rideva. Ed era felice.
"Ah, principessa. Sapessi com'è, vivere senza una vita! Scopri un sacco di cose, ma non puoi assaporarle…" - la sua espressione era estatica, nell'alzare lo sguardo ai lampioni ed alle finestre illuminate.
"Doyle. Tu sapevi di Spike?"
"Sì, lo sapevo."
"Doyle, tu hai a che fare con Spike?"
"Questa è una gran bella domanda… a che fare con Spike come?"
"Doyle! Ma che domande, con la sua anima! È arrivata un giorno e non è più andata via! Angel l'ha accoltellato e poi…"
"Sì, lo so."
"come sarebbe a dire che lo sai?"
"Bhe, sai, l'eternità è lunga, il tempo passava, avevo voglia di vedervi…"
"Doyle!" - esclamò Cordelia, fermandosi di botto - "Tu ci spiavi."
"Spiare! Che parola grossa!" - il suo tono suonava vagamente offeso.
Cordelia lo squadrò. Poi aprì e richiuse la bocca come un pesce.
"Non stiamo litigando vero?"
Aveva una paura matta di rovinare tutto.
"Ma certo che no!" - replicò allegramente, rinfilandosi Cordy sotto il braccio - "Litigare noi? È un sano scambio di opinioni! Dunque, fammi capire: tu mi chiedi se io ho a che fare con il ritorno dell'anima di Spike."
"Esattamente."
"Non proprio. Non ho provocato io il ritorno dell'anima di Spike. Mi sono rallegrato molto quando è successo, ma non sono stato io. Io sono un povero demone senza potere decisionale. Ma…"
Doyle si fermò, con aria birichina ed un dito sulle labbra.
Cordelia sostò a fissarlo, incrociando le braccia. Le veniva tremendamente da ridere. E, in un attimo, si ritrovò tenuta per il collo. Doyle aveva ricominciato a camminare e parlare.
"Ma si potrebbe dire che Spike ha a che fare con il mio ritorno."
"Che cosa?"
"Io, Cordelia, sono la terza opzione. Spike sarebbe dovuto morire, quella notte, a Sunnydale. Ma Angel l'ha salvato. Ed ha segnato il suo destino. Ha scambiato il suo con quello di Spike. Ed è qui che entro in gioco io."
"Tu hai cambiato il destino di Angel."
"Esatto."
"Troppo semplice."
"Come scusa?"
"E' troppo semplice. Chi morirà al posto di Angel?" - il tono di Cordelia suonava pieno di leggerezza. Chi, chi si sarebbe dovuto sacrificare?
"Semplice. Io."
Il cuore le divenne un pezzo di ghiaccio.
"Aspetta, aspetta. Non come credi tu. Io non morirò, principessa. Il destino mi deve una vita. Io sono già morto una volta. E benché sussista ancora un certo qual margine di rischio per cause violente, non morirò di certo a breve scadenza."
"Ed allora come?"
"Tu mi darai qualcosa che mi appartiene."
"Io non ho niente di tuo, non…"
Si sbagliava. Le bastò iniziare a negare per ricordarsi che possedeva qualcosa di Doyle. Possedeva il suo dolore, la sua più grande paura. Doyle le aveva lasciato il suo potere.
Le sue visioni.
Il dolore lancinante che martellava le tempie riempiendogli la mente di urla e facce contorte. Cordelia sapeva come potesse essere profondo il coinvolgimento con le immagini.
Odiava avere visioni. Ma odiava anche doverle sapere nella testa di Doyle.
"Sono stato costretto, allora. Non avrei mai voluto, principessa. Ma ne andava della vostra vita. E della vita di chissà quanti innocenti."
"Doyle, no. Non puoi…"
"Sì che posso. È il prezzo che devo pagare per restare. Quello e la memoria delle cose che ho visto e sentito dall'altra parte. Non proprio tutto, ma parecchio."
Cordelia si sentiva una pena infinita in fondo al cuore. Gli occhi di Doyle, dietro il sorriso, erano tristi ma sereni.
"Sapere ed essere in pace con il mondo non è come stare qui con te con la testa piena di dolore. È molto, molto, molto peggio. Sono disposto a tutto per avere sere come questa almeno tre volte la settimana. Diamine, non c'è paradiso abbastanza felice per compensare la tua assenza."
"E quella di Angel."
"Ovvio. Io sento sempre la mancanza di Angel. È triste, cupo e tormentato. Tutti dovremmo avere un avvilito pensieroso in qualche angolo di casa." - Doyle la cinse con entrambe le braccia fino a sentire il suo peso sul petto - "Restituiscimi il dolore, Cordy. È un prezzo che posso pagare."
Le sue labbra si avvicinarono e si dischiusero. Cordelia lo sentiva tremare.
Ma lo baciò ugualmente. Con amore. Tutto l'amore che aveva rimpianto di non avergli trasmesso la prima volta.
Quando le loro labbra si separarono, gli occhi di Doyle erano ancora chiusi. Un'espressione strana gli brillava sul volto, come se un nuovo peso si fosse posato sulle sue spalle, come se sentisse una voce che nessun altro poteva percepire.
Doyle era in ascolto di qualcosa. Le sue palpebre vibravano appena. Tremava, e respirava appena. Cordy l'abbracciò stretto, fino a quando non si sentì ricambiata, fino quando non sentì la sua testa sulla spalla, il volto nel collo di pelliccia del suo giaccone.
Una coppia qualunque, all'angolo di una strada silenziosa.

L'appartamento di Angel era immerso nella penombra. Nel salone il silenzio ed il buio erano quasi opprimenti. Cordelia era uscita, lasciando accesa la lampada vicino al divano.
Il leggero cono di luce illuminava i passi di Spike, appena attutiti dal tappeto.
La porta della stanza era socchiusa. Ma una luce brillava anche al suo interno.
Era tanto che non entrava in camera di Angel.
Era sobria, ordinata, molto diversa da quella di Spike, dall'altro lato del pianerottolo. Spike, a confronto di Angel, era una personalità prorompente.
Quaderni, libri, spartiti.
La chitarra, e vestiti dappertutto.
Angel aveva un grosso armadio, pieno di roba accuratamente piegata. Scaffali con testi rilegati allineati con cura.
L'essenziale.
La sua vita si svolgeva con poca privacy nella sala su cui si affacciava la stanza. Laddove tutti potessero trovarlo, piombando a qualunque ora del giorno e della notte. Una sala in cui tutti portavano confusione ed oggetti. Una sala in cui si respiravano la presenza di tutti loro, coralmente.
Una delle luci sul comodino era accesa. Angel dormiva, sdraiato sul fianco e volgendo le spalle alla luce.
Aveva il torace fasciato.
Spike fece cautamente il giro del letto. Sulla poltrona,nell'angolo, stavano un cuscino ed una coperta, ancora impregnati del profumo di Cordelia. Ma intorno al letto era più tenue, benché ci fosse un secondo cuscino, incurantemente gettato sulla moquette. Un cuscino su cui poteva aver riposato solo un demone con lo sguardo fatto di pensiero.
L'espressione di Angel era attraversata da una vena di dolore. La ferita doveva dargli ancora qualche fastidio, a giudicare dalle rughe appena visibili sulla fronte, dalle ombre sotto gli occhi.
C'era profumo di lacrime in quella stanza. Lacrime di vampiro.
Spike lo sentiva chiaramente. Si tolse il giaccone di pelle e lo lasciò scivolare sulla poltrona. Poi tornò verso il letto.
In effetti aveva una gran voglia di svegliarlo. E magari di prenderlo a calci, per la paura che gli aveva fatto provare. Oppure poteva sedersi a fissarlo, per assimilare fino all'ultimo frammento di quella grande verità. Angel non era morto.
Se non ci fosse stato Doyle, Angel sarebbe morto, in qualche vicolo, tra le braccia di Cordelia. E Cordelia con lui.
Avrebbe perso una parte della sua famiglia. Lui e Faith sarebbero stati orfani di nuovo. In balia di un osservatore troppo compito.
Si fermò, indeciso sul da farsi.
Un passo avanti ed uno indietro.
Poi qualcosa lo distrasse.
Sembrava aver freddo.
Senza pensarci, si chinò verso di lui ed afferrò un lembo di coperta.
Lo coprì fino al viso e, quando le mani furono vicine, Angel aprì gli occhi.
Come se una scarica fosse passata, dalle loro cicatrici.
Spike si sentì come un bambino colto sul fatto.
"Dormi, è solo un sogno." - gli disse, frettolosamente.
Ed Angel, di rimando, sorrise.
"Ciao William."
La sua voce era quella di sempre. Era contento di rivederlo, alzava lo sguardo verso di lui senza alcuna traccia di imbarazzo, per il ritrovarsi in un letto, con il temibile Spike che gli rimboccava le coperte.
Spike lasciò andare il lenzuolo e si sedette a terra, a gambe incrociate. I loro sguardi erano alla stessa altezza. E quello di Spike mandava scintille.
"Ma si può sapere cosa cazzo ti è saltato in mente?" - scandì - "ti sei quasi fatto ammazzare non appena ho girato l'occhio."
"Se è per quello, in effetti, penso che sarà un'accusa che mi rivolgeranno in parecchi." - già Westley, al telefono, in chiamata internazionale, aveva urlato. E senza parsimonia.
"Io… sono furioso con te."
"La prendo come una dimostrazione di affetto."
"Fa' come vuoi." - con un'alzata di spalle, Spike chiuse il discorso e si fece sbollire la rabbia.
"Come è andata a Sunnydale?"
"Tutto uguale in provincia. Tutto bene. La Cacciatrice massacra. I massacrati non si pronunciano."
Angel abbozzò un sorriso. Spike cercava di fare battute e si nascondeva dietro la rabbia. Spike era spaventato. E, tanto per cambiare, non poteva ammetterlo.
"Ho incontrato Doyle."
"Ti aspettava."
"Ha detto che dobbiamo parlare."
"Lo so."
"Ed immagino che saprai anche cosa deve dirmi."
"Non tutto. E comunque ciò che deve dirti lo saprai direttamente da lui. Mi ha detto solo alcune cose che riteneva dovessi sapere,prima che le dimenticasse."
"E perché dovrebbe dimenticarle?"
"Deve pagare un prezzo per restare." - Angel cercò i puntellarsi su un braccio ma Spike l'obbligò a restare sdraiato - "Riavrà anche le visioni."
"Buon per Cordelia. Stai sdraiato, disgraziato." - la sua mano stringeva quasi il collo di Angel. Con tutte quelle bende non era certo di sapere di preciso dove fosse la ferita. Ed infilarci la mano…
"Sto bene, William. Puoi anche calmarti."
"Ah! Doyle mi aveva avvertito."
"Doyle cosa?"
"Ha detto di non farmi fregare dalla tua faccia comprensiva se tentavi di alzarti."
"E magari ti ha detto di farmi mangiare."
"Certo. Ed io ho fame. Ha lasciato due flaconi, vado a prenderli."
Si alzò e sparì. Angel lo sentì correre giù dalle scale e non poté trattenere un sorriso ed una smorfia di dolore, nel mettersi un braccio sotto la nuca.
Tutto sommato aveva combinato un bel pasticcio. Aveva creato una confusione cosmica di enorme portata.
Risultato? A letto, in convalescenza, con Spike e Doyle intenti a viziarlo come due perfette balia svizzere.
Era qualcosa di molto vicino ad un incubo.
Oppure era la felicità…

"Come ti senti?"
"Come se qualcuno mi avesse prima svuotato e poi farcito come un tacchino."
Camminavano sul marciapiede, lentamente. Il braccio di Doyle le pesava appena sulle spalle. Ma Cordy sapeva benissimo come Doyle stesse opponendo resistenza alla sola idea di appoggiarsi veramente.
Era pallido. Ma allegro.
Le gambe lo reggevano appena. Ma fingeva ugualmente di essere allegro.
"Principessa, non ti pare che quel gradino abbia proprio un aspetto comodo?" - suggerì, dirigendosi verso l'ingresso di una casa.
Alla fine non avevano mangiato la fetta di torta. In compenso Doyle aveva vomitato fin l'anima. E questo spiegava il colorito verdognolo.
Cordy l'aiutò a sedersi e poi si accomodò a suo fianco. "Dovrei fare l'inventario delle mie idee a questo punto. Non ci capisco più niente." - bofonchiò, massaggiandosi la testa con aria imbronciata.
Cordelia lo squadrò. Poi, con un gesto del tutto naturale e perfetto, scoppiò a ridere, nascondendo la testa tra le braccia.
"Oh, grazie, amore."
"Scusa, scusa…."
"…ma non riesco a smettere…"
"…e' il primo appuntamento…"
"…più strano della mia vita…"
Doyle rimase interdetto. Era vero. Era il loro primo appuntamento.
Non ci aveva pensato.
All'improvviso si sentì un idiota ed un insensibile. Talmente preso dalla sua missione…
"Cordelia, io non ci avevo pensato. Non mi è venuto in mente che fosse la nostra prima uscita ufficiale. Oddio, potevo almeno aspettare fino a domani, oppure almeno a fine serata."
"Sì, certo, così avresti potuto vomitarti la torta di mirtilli che pregustavi di mangiarti."
Cordelia non riusciva a smettere di ridere, si asciugava le lacrime, non riuscendo a distogliere la sua attenzione dalla comicità della situazione
Per la prima volta, da quasi un anno, si sentiva leggera; qualcosa di molto simile a ciò che provava al liceo, prima di Xander, prima di Buffy e prima del crollo finanziario.
Era felice. Aveva Doyle.
E le visioni se ne erano andate.
Rideva, anche se l'espressione di Doyle continuava ad essere molto contrita.
"Nessuno" - singhiozzò - "Mi ha mai detto così tanto carine, prima di cominciare a vomitarsi anche le budella."
Doyle cambiò espressione. La sua bocca si allargò in un enorme sorriso. E presto le sue risate si unirono a quelle di Cordelia, nella strada deserta.

III
Una porta sbattè.
E Spike si alzò di scatto.
Con un balzo saltò il divano, passando sopra Angel, che abbassò sorpreso la rivista. Doyle, ad un passo dalla porta, frenò per lasciarlo passare.
"Lo dico io alla Cacciatrice!" - urlò Spike, facendo a perdifiato la rampa delle scale.Doyle rimase un attimo interdetto, al centro della stanza, poi girò su se stesso e si risedette in poltrona. Angel, rinunciando al giornale che stava sfogliando, lo guardò, con un'allegra rassegnazione nello sguardo.
"Sono giovani, Doyle. Esuberanti…"

"Ehi, Cacciatrice!"
Spike fece l'ultimo tratto di rampa scivolando sul corrimano. Arrivò in fondo, saltò a terra e afferrò Faith per la vita.
Per coinvolgerla in un turbinoso girotondo.
Faith contrariamente al suo carattere, gli si aggrappò al collo e rise. Gettando la testa indietro e lasciandosi travolgere da quel benvenuto. Gli occhi le brillavano mentre Spike, altrettanto libero, la teneva stretta e vorticava nella hall come una trottola.
Quando finalmente la rimise a terra, i loro sorrisi non si erano ancora spenti.
Faith lo guardò, posandosi provocante le mani sui fianchi. Poi, con un sospiro rassegnato, lo stese.
Lo mandò lungo tirato sul tappeto.
"Spike." - mormorò a mo' di scusa, inginocchiandosi vicino a lui - " E' stato il più bel benvenuto a casa che io abbia mai avuto. Grazie."
"Allora perché me lo sono prese?"
"Perché neanche in un momento tanto bello puoi mettermi le mani sul fondoschiena senza permesso." - spiegò pazientemente.
Spike rimase interdetto a fissarla. Poi, con un sorriso sardonico stampato sul muso, mormorò.
"Come sono contento di vederti."

Faith, mettendo da parte il suo senso dell'onore, gli tese una mano e lo aiutò a rimettersi in piedi.
"Allora, Spike, cos'è che devi dirmi?"
"Non per allarmarti, ma Angel ha cercato di nuovo di farsi ammazzare e questa volta c'è quasi riuscito…"
"Che cosa?" - a Faith il seguito non sembrava interessare, mentre gli girava le spalle e si incamminava.
"E visto che nessuno di noi era qui, è arrivato Doyle."
Faith frenò con entrambi i piedi, sbarrando gli occhi, presa in mezzo tra la verità che le veniva gridata alle spalle e quella che si ritrovava innanzi.
Sul pianerottolo, appoggiato alla balaustra, stava il redivivo. Dietro di lui, con le braccia conserte, un Angel di ottimo umore.
"Bentornata." - le disse piano, con un sorriso aperto.
Faith finì di salire le scale.
"Allora nemmeno tu sai stare fuori dai guai. Si è sfatato il mito dell'eroe tutto d'un pezzo…"
"A quanto pare…" - concordò Doyle, osservandola - "Faith, piacere di fare la tua conoscenza. Ho sentito molto parlare di te."
"Chissà con che termini lusinghieri." - commentò sarcastica la ragazza - "Chi parla di me, di solito, lo fa urlando."
"Faith!" - urlò Westley spalancando la porta del piano di sopra e affacciandosi - "Ma è mai possibile che tu prenda libri senza avvertirmi e senza restituirli mai al momento opportuno? E se mi fossero disperatamente serviti? E tu ! nemmeno sei rintracciabile! Dove sei stata?"
"Appunto" - mormorò Faith, guardando in alto.
Doyle la guardò ancora con un sorriso a fior di labbra. Sotto i pantaloni di pelle e la maglietta nera strappata, c'era un fisico da adolescente, solido e pieno, ma quasi privo delle curve e del movimento che Cordelia portava come un miracolo.
Faith non era un manico da scopa, anzi, tutt'altro. Ma, agli occhi di Doyle era troppo giovane e con uno sguardo troppo grande. E Doyle non aveva dubbi in merito a come la vedesse Angel.
Faith fissò Angel, poi si protese e gli diede una spinta amichevole sul braccio. Giusto per accertarsi che non fosse un'illusione, giusto per premere sulla sua solidità.
"Allora, tutto ok?"
"Non ascoltarli, era cosa da poco."
Spike non era dello stesso parere, nel passare tra di loro brontolando. Ma ebbe la decenza di stare zitto.
"Allora vado a posare le mie cose e a farmi una doccia." - concluse Faith, noncurante.
Dal piano di sopra Westley la chiamava ancora. Gemendo sui suoi libri e disperandosi per il disordine. La sua voce giungeva attutita dalle pile di scartoffie ammucchiate in ogni angolo.
"Qualcuno vuole dire a Westley che Io starei lavorando?" - urlò Cordelia, spuntando dalla sala del piano terra, con le mani sui fianchi - "Perché se lui vuole continuare ad ordinare libri per corrispondenza, Io devo far quadrare i conti!"
E per risposta Spike uscì dalla sua stanza, infilandosi la giacca di pelle.
"Io vado a fare a pugni, qualcuno vuole venire?"
"No grazie." - urlarono tre voci da tre stanze differenti.
"Ciao gente, buona serata." - aggiunse Spike, passando nuovamente tra Angel e Doyle, ancora immobili sul pianerottolo, prima di scendere fischiettando. E di sbattere la porta.
"Angel…"
"Dimmi Doyle."
"Ma tu non eri quel tipo ombroso e solitario che prediligeva i posti silenziosi?"

L'Hyperion era nuovamente silenzioso. Da lontano giungevano solo le note un po' stonate della radio di Cordelia, che finivano con il confondersi con il baccano assordante del locale sull'angolo.
Angel stava di nuovo sdraiato sul divano, con le braccia incrociate dietro la testa e l'aria assorta.
Seduto nella poltrona a fianco, con le gambe incrociate e l'aria compita, stava Doyle. "Dunque, mi parli pure della sua infanzia…" - esordì serio e con voce vagamente nasale.
Angel si girò ridendo dell'espressione altera dell'amico.
"La mia infanzia?" - replicò, stando al gioco - "Le dirò, ero povero e raccoglievo carbone che la mamma rivendeva…"
"Sì, certo,mi immagino. E magari vivevi in un quartiere londinese pieno di nebbia.."
"Quello è William. Ti stai confondendo." - precisò Angel, finendo di girarsi e puntellandosi su un gomito.
"Non mi vedo neanche lui a raccogliere carbone…" - poi, cambiando argomento, in linea con i suoi ragionamenti, aggiunse - "E meno male che sono tornato. C'è bisogno di qualcuno che metta in riga la truppa, si imponga per fare ordine e repulisti. Non trovi?"
"Hai ragione. Perfettamente ragione." - concordò serissimo Angel - "E da quando sai importi sulla gente?"
"Mi stai sfottendo?"
"Non lo farei mai."
"Bene, bene, Angel, che sorpresa. La presenza di Spike ti fa veramente bene. Da quando conosci il sarcasmo?"
Angel non rispose, si limitò a fissarlo. E Doyle si lasciò guardare, con un lampo malizioso in fondo agli occhi. Avere in mente il proprio dovere non era gratificante come vederne i risultati. Angel era sereno e Doyle non aveva proprio nessuna intenzione di negare la sua importanza nella vita dell'eroe. Era una questione di completezza. Ed Angel, dedito a tutelare il suo prossimo, non riusciva ad ignorare il senso di protezione che solo Doyle sapeva dargli.
Doyle. Unico tra i pari.
"Uomo…. Se prometto di non svanire nel nulla, smetti di fissarmi?"
Angel allargò la bocca in un sorriso.
"No. Sei la cosa che desideravo di più: uno che sta nella stanza con me. E sa stare zitto."
Doyle buttò la testa indietro e rise. Era piacevole, in effetti. Tranquillamente seduti, a parlare solo se avevano voglia, liberi di starsene in silenzio, oppure di ridere.
"Uomo, uomo. Come eroe vivi veramente in una comunità interessante."
"L'ha detto anche Spike quando si è trasferito qui."
"Certo, detto da lui…"
"Hai qualcosa contro i vampiri redenti e con l'anima?"
"Oh sì. Brutta razza! Come le Cacciatrici in fuga, gli osservatori ripudiati e le attrici in carriera."
"Allora dovrai cercarti un altro domicilio…"
"No grazie, penso che accetterò un posticino al pianoterra."
"Ma non ci sono stanze libere al piano terra." - obiettò Angel - " A parte la sala grande sono tutte proprietà di…"
Angel sbarrò gli occhi.
"Sei un po' tardo per essere un eroe." - concluse Doyle.
Doyle andava a vivere con Cordelia. Nella Reggia Off-limits.
"Preferivi che sgattaiolassimo misteriosissimi da una stanza all'altra, non appena sorgeva il sole?" - lo punzecchiò Doyle - "Senza tenere presente l'importanza di far recepire il messaggio a tutti gli spasimanti di Principessa… umani e non."
Non c'erano commenti da fare.
Sembrava pure razionale, esposto in questo modo. Eppure Angel sembrava avere qualche difficoltà ad assimilare la notizia.
"Inizio ad essere preoccupato della reazione che avranno gli altri." - disse Doyle, fissando l'aggrottarsi e il distendersi della sopracciglia di Angel.
"No, io sono felice sul serio. È che…"
"Cambiamo discorso. E tra qualche tempo ti spiegherò anche il lato piacevole della convivenza." - concluse allegramente il mezzo-demone - "perché non mi racconti dei tuoi pupilli?"
"Cosa vuoi sapere?"
"Come li hai convinti a venire qui. No, aspetta ripensandoci, di Spike so già parecchio. È successo in un periodo in cui non mi facevo propriamente i fatti miei." -ammise - "Parlami di lei. Parlami di Faith."
Angel fissò gli arabeschi del tappeto e cominciò a parlare.
"E' successo un anno fa…"

"Cordelia, smetti di urlare. Ti ho sentito."
Angel si affacciò al pianerottolo e guardò giù nella hall.
Cordelia Chase, capelli annodati sulla nuca e pantaloncini, alzò lo sguardo verso di lui e verso Westley che gli stava accanto.
Le sue labbra, strette in una linea sottile, si aprirono nuovamente.
"Angel…"
Non urlava più. Cercava un appiglio per iniziare una frase e stringeva tra le mani un giornale, un giornale fresco di stampa.
Anche da quell'altezza, Angel si rendeva conto della sua espressione. Della sua indecisione.
"Cordelia, non diverrà più semplice, se continui ad aspettare. Dillo, qualunque cosa sia."
Cordelia fece un respiro e si tuffò a capofitto.
"Angel. C'è stata un'esplosione alla prigione. Faith…"

Faith.
Faith era morta.
L'ala in cui si trovava era distrutta. Un cumulo di macerie incomprensibili, un mucchio di lamiere contorte.
Un'esplosione. Una grande e incomprensibile esplosione che riempiva da una colonna a quattro pagine in ogni giornale.
"Il Consiglio." - sospirò Westley, sfilando gli occhiali e posando l'ennesimo quotidiano tra gli altri ammassati sul tavolo.
Cordelia gli aveva procurato ogni carta stampata che era riuscita a rimediare. E su ognuna, parole differenti spiegavano una stessa tragedia.
"Come fai a dirlo."
Il tono di Angel non ammetteva repliche. Da quando Cordelia era finalmente riuscita ad esprimersi, Angel versava in un cupo e riflessivo silenzio.
La sua mente rifuggiva il presente. Il suo corpo ricordava dolorosamente i pugni di Faith, la rabbia e le lacrime che si mischiavano alla pioggia.
E la ricordava, seduta davanti alla scrivania, nell'ufficio di Kate. Sola.
Convinta, a modo suo, di poter stare al sicuro dentro una prigione. Contenta di non dover dipendere da nessuno di loro, di non dover fronteggiare ancora Buffy.
Buffy…
Anche in quegli istanti, dedicati a Faith, Angel non poteva smettere di pensare a Buffy, a come le aveva mentito, per telefono, l'unica volta in cui aveva trovato il coraggio di chiamarlo. E nel sentire la sua voce, il cuore di Angel aveva conosciuto un sussulto.

"Dimmi, Buffy. Cosa hai bisogno?" - la voce di Angel suonava calda e forte.
"Angel, Faith si è risvegliata. Ed è stata qui."
"State tutti bene?"
"Certo. Certo. Io volevo avvertirti che… io penso che verrà a cercarti."
"Starò attento."
"Lo so."
Silenzio.
"Buffy…"
"Angel…"
"Grazie della dritta. Ci sentiamo."

Abbassare quel telefono senza aggiungere altro gli era costato uno sforzo immenso. E per un attimo, in vita sua, poche erano le cose che sembravano essergli costate così tanta fatica.
Eppure aveva dimenticato presto quel disagio.
E l'aveva dimenticato per via di Faith.
Una Cacciatrice aveva scalzato l'altra, nella sua mente.
Faith aveva dato il meglio di se stessa.
Tentato di ucciderlo.
Tentato di uccidere Westley.
Fatto del male a Cordelia.
Ma non era quello il motivo per cui Angel si era concentrato su di lei.
Erano state quelle parole disperate.
Il desiderio di morire.
Lo sguardo…
La Cacciatrice aveva lo sguardo della morte. Lo sguardo della morte… Spike lo aveva definito così, in un raro momento di intimità. Spike insisteva sull'importanza di quella luce in fondo alle loro iridi, la fiammella che di colpo si spegneva, nell'istante stesso in cui si arrendevano.
Si arrendevano alla vita. Morivano con, negli occhi, l'ultima illusione.
E Spike non sbagliava. Angel non aveva mai ucciso una Cacciatrice. Ma lo sguardo di Faith era stato più forte di una coltellata, nel penetrargli in fondo all'animo. Avrebbe potuto finire l'opera, l'opera iniziata da Faith stessa. Limitarsi a calare la scure.
Ma sotto la pioggia, in un vicolo, il mondo aveva smesso di girare come avrebbe dovuto.
Ed Angel, a Buffy, non avrebbe mai potuto dirlo. Non avrebbe potuto dirle che le parlava mentre Faith, alle sue spalle, dormiva nel suo letto.
No, non avrebbe potuto.
Buffy non avrebbe capito.
O forse era Angel che non avrebbe capito Buffy.
E, in entrambi i casi, avrebbe scelto di mentirle.
Buffy l'aveva avvertito del pericolo. Angel non poteva spiegarle il perché fosse cessato.
Era un segreto.
Un segreto tra Angel e Faith.

"Cosa ti fa pensare che sia stato il Consiglio?"
"Un'intuizione. Non c'è niente che lo affermi in questi articoli. Ma non mi sto sbagliando. È stato il Consiglio. Una Cacciatrice rinnegata è un pericolo che va eliminato, assolutamente."
"Ma non questa. Questa non era un pericolo per loro. Era una loro vittima." - Angel misurava la stanza a grandi passi.
"Lo so. Ma ciò non nega la realtà dei fatti. Faith è morta in un incidente che incidente non è." - la voce di Westley suonava metallica - "Sempre che in questa stanza ci sia qualcuno disposto ad accettare che sia veramente morta."

"Tu non lo credi?"
No, non lo credeva. Rispondeva alle domande di Cordelia e la sua mente già si allontanava, sulla stessa strada di quella di Angel. Anche per lui, il mondo aveva smesso di vorticare davanti alla sua carnefice. Inerme e troppo giovane per essere ciò che il mondo diceva di lei.
Inerme e troppo giovane per non trovare la forza di perdonarla.
Anche Westley aveva una natura che non poteva negare.
Anche Westley era un rinnegato.
E, prima ancora, un Osservatore.
Scelto tra molti che aspiravano a diventarlo, per una nobiltà di sangue che all'interno del Consiglio sembrava impossibile da scalzare. Scelto per le sue capacità e nient'altro.
E ben presto estromesso, per la sua incapacità ad accettare ogni forma di ingiustizia o scorrettezza. Westley il pignolo, Westley l'imbranato.
Tutti luoghi comuni per descrivere un cuore puro.

"Angel, possiamo anche metterci a coltivare false speranze basate sul mio intuito. Ma non abbiamo prove in mano per dimostrare la mia tesi, né possiamo appellarci al Consiglio per accusarlo di scorrettezza. Anzi, non possiamo in nessun caso appellarci al Consiglio. Se Faith è morta, non ci sarà modo di vendicarla. Ma se è ancora viva…"
"in quel caso niente mi impedirà di andare a riprenderla."

Cordelia aprì gli archivi ed estrasse ogni foglio che sembrava poter dare un'informazione. Westley, con un quaderno davanti, annotò ogni particolare gli venne in mente. Sfogliò giornali senza un commento, escludendo completamente Angel, abbandonandolo alle sue riflessioni, ben sapendo che l'amico avrebbe rispettato anche adesso i segreti della sua educazione.
Westley sapeva dove cercare. Usava spietatamente le informazioni in suo possesso per risalire ad una fonte che sapeva certa e ripetitiva nelle sue decisioni.
Scrisse, fino a quando non spuntò il nuovo giorno.
Faith era ufficialmente morta.
Cordelia, da qualche parte in internet, aveva scorso la lista delle vittime, fino trovarne il nome. Senza che questo permettesse di avere una certezza. Un corpo tra tanti scelto a caso per poter porre un cartellino di riconoscimento. Senza aspettarsi che i conti tornassero veramente.
Angel attendeva e rifletteva. Dandosi dello stupido.
Ritenere Faith al sicuro era stata una cosa stupida. Da parte sua e da parte di Faith. In fondo, entrambi conoscevano le potenzialità del Consiglio. Eppure avevano deliberatamente ignorato l'idea di un diversivo, un modo per mettersi in contatto in caso di pericolo, un posto dove ritrovarsi.
Percorrere a ritroso le loro vite non bastava, non portava a nessuna conclusione, non dava appigli a cui aggrapparsi.
I pochi intravisti lo avevano condotto ad afferrare il cappotto e salire in macchina, portando con sé Cordelia, per potersi avventurare in pieno giorno a caccia di qualcosa che non poteva trovare.
Che non sapeva nemmeno se valesse la pena di cercare. Non aveva nulla, se non la tenacia di Westley ed il suo istinto di Osservatore.
Ed anche in questo caso sapeva che Buffy sarebbe stata un intralcio più che un aiuto.
Una sensazione sgradevole quanto inevitabile.
Le loro menti si stavano ancora allontanando. Ma i loro cuori erano sempre vicini ed uniti in un solo battito.
E di Faith nemmeno un palpito.
E, al rientro a casa, nemmeno Westley.
"Dovevamo immaginarcelo." - mormorò Cordy, fissando la sedia vuota dietro la scrivania - "Non c'è modo di sapere dove sia andato, vero?"
E già sapeva la risposta.

Ancora oscurità. Il sole calava lentamente sulla città degli angeli,senza aspettare nessuno.
Senza illuminare i passi stanchi di Westley sulla via di casa.
Cordelia, in piedi sul marciapiede non badava alle gocce di pioggia che iniziavano a cadere sottili e fitte. Si cingeva con le braccia, per proteggersi dal freddo e scrutava il cielo, in cerca di uno spiraglio.
In ogni goccia stava un frammento di oscurità. La notte giungeva così, cadeva in terra con rumore di pioggia.
Ed in mezzo a quel ticchettare monotono, camminava Westley, tenendosi chiusa la giacca con una mano, senza badare agli occhiali ormai appannati.
Cordelia fece un passo e sussurrò.
"Ce la fai?"
Westley annuì silenzioso e una goccia di sangue si mischiò all'acqua, nel cadere sul marciapiede.
"Angel?"
"E' uscito per cercarla. Credevo tornassi con lui…"
"Non ero più là, quando ho chiamato. Ero più lontano. È stata una trattativa burrascosa." - spiegò, asciugandosi il rivolo di sangue dal mento.
Cordelia lo squadrò, con un lampo di comprensione negli occhi.
"Povero Westley. Non sembrerai un eroe, ma tutto sommato non sei nemmeno un disastro." - mormorò abbracciando piano tutte le sue contusioni.

Entrarono in casa e si sedettero. Davanti ad una tazza di the e con un buon quantitativo di disinfettante sui tagli Westley sembrò ritrovare loquacità.
"L'ho trovata. Mi ci è voluto parecchio tempo, per capire ed escludere alcuni posti. Io… per un attimo ho pensato fosse inutile. In fondo sembrava solo una stupida ostinazione contro il dolore. Cercarla senza sapere se fosse veramente viva. Però, una volta trovata una pista…"
Westley sembrava in imbarazzo. Ma Cordelia non disse nulla. Accennò un sorriso e tuffò una zolletta nella tazza. E poi una seconda. Sapeva quanto gli piacesse dolce.
"E non hai trovato motivo per aspettarci…." - concluse.
"Già." - Westley annuì e sbattè le palpebre. Un occhio iniziava a gonfiarsi e cerchiarsi di scuro - "Dapprincipio sembrava un magazzino disabitato… poi ho visto un container. Con un lucchetto. Cosa serve un lucchetto se il posto è vuoto? Il problema era che poi sono arrivati anche un sei energumeni con un camion. Ed il resto è storia."
"E Faith?"
"Viva. In fuga. Le ho detto di scappare e le hanno sparato dietro." - Westley guardò desolato i suoi occhiali, deformati e irrecuperabili - "Non so se l'hanno colpita. Ma mi sembrava stordita e malmessa."
"In fondo, suppongo che sia rimasta coinvolta nell'esplosione."
"Era un diversivo. L'esplosione, intendo. Ma puoi star certa che non è stata trattata con i guanti."
"Pensi che Angel la troverà?"
"Se non la trova, continuerà a cercarla fino alla fine dei suoi giorni."

Pioggia. Uniforme e fredda fin dentro le ossa.
Westley era vivo. Se l'era cavata, menando pugni in percentuale direttamente proporzionale alla quantità che si era beccato. Un leone.
Fuggevolmente aveva desiderato essere ancora una Cacciatrice in attesa del suo Osservatore.
Ma non era così. Non sarebbe mai più stato così.
L'aveva visto restare solo nello spiazzo e poi correre verso la macchina, armeggiando con il cellulare. E si era allontanata, sperando che la pioggia cancellasse ogni traccia.

Angel buttò giù con un calcio un'altra porta. Erano più di trentasei ore che Faith era sfuggita al controllo del Consiglio. Più di trentasei ore che la pioggia cadeva, quasi incessante sulle loro preoccupazioni.
"Forse ha preso un treno. È salita su un vagone merci ed è andata via." - obbiettò Cordelia, coprendosi la testa con le braccia, per evitare le schegge di legno della porta successiva - "Abbiamo perlustrato ogni caseggiato disabitato che ci sembrava potesse andare. Ma come possiamo trovarla, in una città come Los Angeles, senza un indizio? E poi, Angel, se Faith avesse voluto, avrebbe potuto già mettersi in contatto da parecchio."
"Sempre che sappia il numero da chiamare." - le rispose, distratto.
"Ma anche fosse, abbiamo un'agenzia investigativa ed un numero a cui rintracciarci!"
"Cordelia, se Faith non si fa viva possono esserci un sacco di buoni motivi. E tra i tanti il fatto che non vuole metterci tutti al centro del mirino."
"Oppure perché sa che hanno certamente riconosciuto Westley! Restasse con noi, sarebbe subito rintracciabile…" - Cordelia fece un respiro e buttò fuori la frase che le premeva - "Forse è meglio se non la troviamo."
Angel si fermò e fissò le macerie di un altro magazzino abbandonato. Poteva percepire la presenza di due ragazzi, in uno degli angoli, percepiva l'aroma dei loro corpi.
"Forse hai ragione. Ma Faith non può continuare a fuggire. E non merita di essere sola. Non deve più succedere, io non permetterò che accada più."
"Angel, io posso capirti. Ma tu devi capire che non possiamo andare avanti alla cieca in questo modo. Non la troveremo mai. Si è nascosta. È brava a nascondersi, è tutta la vita che lo fa. È ferita, sa che deve stare attenta…"
"Già. È ferita."
Come.
Dove.
I quesiti sembravano interminabili. E tutti senza risposta.
Cordelia si passò una mano sulla fronte e rese uniforme la polvere sulla pelle. Non sapeva da che parte cominciare, per portare un minimo di razionalità nella tenacia di quei due.
Angel.
E Westley, pure lui, sempre così razionale, intento a perlustrare il piano superiore.
"Trovato nulla?" -urlò Angel,affacciandosi alla tromba delle scale.
Nulla. L'osservatore, edificio dopo edificio, urlava sempre la stessa risposta.
E sempre con la stessa speranza.

"Non c'è il rischio che il Consiglio la trovi prima di noi?" - domandò Cordelia, quando Westley salì in macchina. Parcheggiato davanti a loro, Angel mise in moto e partì, subito seguito.
"Hanno le nostre stesse probabilità."
"Tu hai trovato loro, partendo da zero. Loro non hanno un metodo simile per rintracciare una Cacciatrice?"
"No, possono dedurlo se hanno qualcosa in mano. Ma non credo che Faith sia stata docile e disponibile. In più c'è la pioggia. Almeno lei è dalla nostra parte."
"Westley… non sei in pericolo, vero? Ti hanno visto aiutare la Cacciatrice…"
"No, non lo sono veramente. E di questo posso dire grazie ad Angel. E a Doyle."
"Doyle? Cosa può aver fatto Doyle! Non vi siete nemmeno conosciuti!"
"Si tratta di qualcosa che è successo nelle Alte Sfere, dopo la sua morte. Può darsi che il nostro sodalizio sia vagamente pilotato. E questo mi mette in una posizione da cui il Consiglio non può scalzarmi. Soprattutto dopo lo Shanshu."
"Ed il fatto che tu abbia salvato Faith, potrebbe implicare che il Consiglio non possa più darle la caccia?"
"Lo escludo. Possono accettare di perdere un Osservatore che già amavano poco. Ma la Cacciatrice rinnegata è un'altra storia…" - Westley tacque e si immerse nei suoi pensieri. Angel aveva svoltato a sinistra e Cordelia lo seguiva senza perderlo mai di vista. Quando si fermò, davanti ad un altro quartiere fatiscente, accostò e permise a Westley di scendere.
E poi, con un sospiro di rassegnazione, spense il motore e li guardò entrare, ad inseguire le loro illusioni.

"Adesso dovete smetterla!" - gridò, pestando i piedi ed infischiandosene degli scricchiolii del pavimento.
"Cordelia, non ti muovere."
"Oh, finiscila, Whydam-price, piantala di essere così allarmista. Non ha ceduto finora e non cadrà con me sopra. E se anche lo facesse sono già sopravvissuta una volta ad una caduta del genere. Manda giù Angel a raccogliermi e portami in pronto soccorso! Ma adesso stammi a sentire, una volta per tutte. E pure tu!" - recriminò, puntando il dito nero di fuliggine contro Angel - "Non possiamo andare avanti così. È la terza notte che ci comportiamo in questo modo assolutamente inconcepibile. Volete ritrovare Faith! E mi sta bene. Avete le vostre motivazioni. Ma non avete nulla in mano. Piantatela di comportarvi come se il destino guidasse sempre i vostri passi! Lo tirate in ballo quando fa comodo,lo combattete quando non vi garba. Ma il mondo non è questo. Il mondo è caos, è casualità, confusione e cose che non si possono spiegare! Sono ore che ci comportiamo come delle trottole e giriamo a vuoto, al freddo e sotto la pioggia. Ed io sono stufa!"
Cordelia si sedette in mezzo ai calcinacci con un tonfo. Tirando indietro i capelli appiccicaticci e le ragnatele che vi stavano incollate. Era sporca e stanca.
"Non arriverà niente di sovrannaturale ad indicarci la strada giusta." - aggiunse con voce stanca. Soffocando tutte le parole che ancora avrebbe voluto dire…
Angel la guardò allibito, quando si chinò in avanti, tenendosi la testa tra le mani.
Non poteva capacitarsi che Cordelia crollasse in questo modo, per stanchezza ed esasperazione…
Ma bastò un urlo della ragazza per distoglierlo da quella conclusioni tanto sbagliate.Cordelia urlava e la testa le si riempiva di scene incomprensibili.
"Le visioni." - Westley si buttò in ginocchio e l'afferrò per le braccia. Se la tirò contro il petto e la strinse, anche se opponeva resistenza. L'afferrò per i capelli e la bloccò, per evitarle di farsi male, ma con una brutalità che lo sorprese.
Cordelia respirò profondamente la polvere dei suoi vestiti nel tuffare il viso contro il suo petto. Tossì e sentì gli occhi bruciarle. Spinse con le mani per liberarsi da quella sensazione e si sedette.
"Lasciami Westley, lasciami!" - mormorò, cercando Angel con lo sguardo.
Lo afferrò per la manica e lo costrinse a chinarsi.
"Ascoltami bene."
"Cordelia, dopo con le recriminazioni, dimmi cosa hai visto."
"Razza di eroe senza cervello! Tu e gli aiuti che ti arrivano dall'alto e tramite me! Sta zitto e ascoltami! Ascoltami una volta per tutte!" - ringhiò, mostrandogli tutti i denti ed afferrandolo per il bavero della giacca - "Faith, in un bar con l'insegna BullDog. E spicciati, sta facendo a pugni."

Angel non se lo fece ripetere due volte. Corse verso la macchina. Sapeva dove andare, era passato in quell'incrocio meno di due ore prima.
Westley guardò Cordelia che finiva di togliersi le lacrime dalle guance, tirando su, poco signorilmente, con il naso.
"Cosa dicevi del destino?" - azzardò, con un lampo di ilarità nello sguardo.
Cordelia socchiuse gli occhi, fino a farli divenire due fessure pericolose.
"Ne riparleremo dopo che avrò preso un'aspirina." - replicò, fredda, scandendo ogni parola - "E adesso portami a casa."

Bulldog.
Un' insegna luminosa ed una vetrina sfondata. Tanta gente ammassata intorno alla porta.
Non valeva la pena di fermarsi, Angel già sapeva di essere arrivato tardi. Ma Faith non poteva essere andata troppo lontana.
Fece il giro dell'isolato, sbirciando le finestre e i vicoli. Avrebbe voluto chiamarla, urlare il suo nome, farle sapere in modo irresponsabile che la stava cercando.
Poi, tra gli odori confusi della città, ne giunse uno più nitido e forte.
Odore di Sangue.
Lasciò la macchina di traverso, in un vicolo. E corse a piedi fino alla fonte di quel segnale. Sulla parete, un vecchio manifesto appariva intriso. E, subito a fianco, un'impronta rossastra. Una mano sottile, minuta.
E sangue fresco.
La pioggia non ne aveva mascherato l'odore soltanto perché era un punto riparato. Un punto adatto per sostare, a riprendere fiato.
Era la pista giusta.
Angel correva, incurante della pioggia. Si arrampicò su per la rete metallica che chiudeva la strada, poi, saltando sui bidoni, afferrò la scala antincendio e proseguì la sua scalata, fino al tetto.
In piedi sul cornicione, sopra ai tetti del mondo.
E, ai suoi piedi, già mischiato con l'acqua, altro sangue.
E si sorprese a gettare al vento ogni precauzione. A chiamarla, veramente, ad urlare il suo nome sotto la pioggia, con la disperazione di chi ha perso qualcosa di importante. Pregando di essere sentito.
E, nel silenzio, gli giunse nitido un suono metallico, di qualcosa lanciato in strada.

Camminando da un parapetto all'altro, Angel si spostava, lungo i tetti. Qualcuno batteva qualcosa, con ritmo regolare e scandito. Si sarebbe potuto dire il suono della pioggia sulle lamiere. Ma i sensi di Angel, tesi e sviluppati, avvertivano l'anomalia di quell'interpretazione.
La luce giungeva appena dalla strada. E dietro un comignolo, nascosta appena alla furia del cattivo tempo, stava lei.
Piccola e zuppa come un pulcino. Con lo sguardo enorme, lucido e le gambe contro il petto.
Teneva in mano un tubo, lo batteva regolarmente su un'ammaccatura della lamiera su cui era seduta, un'ammaccatura piena d'acqua piovana per attutire il suono.
"Scusami, non me la sentivo di urlare." - sussurrò. Era rauca.
"Non importa, piccola, non importa." - mormorò Angel chinandosi verso di lei e protendendo le mani per toccarle il viso, un visino pallido e febbricitante. Faith stava rannicchiata veramente in uno spazio ristretto ed Angel, con la sua mole, sembrava inglobarla e proteggerla.
"Non pensavo che mi avresti cercato."
"Cerco sempre le cose preziose che ho perso."
Piano, per quanto le sue forze le permettevano, Faith scivolò fuori dal suo nascondiglio. Era ferita, malconcia.
Angel si sfilò il cappotto e l'avvolse stretta. Già una volta aveva accolto così Faith, stremata e piangente, tra le braccia, infondendole calore. Faith sembrava giungere nella sua vita sempre preceduta da un acquazzone, come un dono piovuto dal cielo.
Angel la strinse e la sollevò da terra.
"Ce la faccio a camminare."
"Non importa." - sorrise Angel, nell'assestarla meglio tra le braccia.
"Mi troveranno."
"Ti sbagli. Troveranno me."

Guidò piano, fino al parcheggio seminterrato dell'Hyperion.
Westley, non appena sentì il motore rombargli sotto i piedi, si precipitò nel garage. Angel stava seduto in macchina, immobile e, per un attimo, Westley pensò che non l'avesse trovata.
Ma gli bastò avanzare ancora di un passo per vedere che, sotto il braccio destro di Angel, stava rannicchiato un fagotto.
Un fagotto con lunghi capelli castani.
Ed Angel non disse nulla, quando Westley aprì la portiera e si protese a sollevarla. Lo lasciò fare e lo seguì mentre, rannicchiata e dormiente, la portava finalmente a casa.

"E da allora nessuno si è ancora messo d'impegno per reclamarla." - concluse.
Angel e Doyle stavano seduti sul davanzale della finestra, con le gambe a penzoloni nel vuoto. Doyle non disse nulla, ma gettò il mozzicone in strada, guardando la brace rossastra cadere tra i piedi di Spike.
E quando questi alzò lo sguardo lo salutò con un cenno. Osservandolo scuotere la testa ed entrare dall'ingresso principale.
"E così Faith è entrata definitivamente nella mia vita. Buffy non lo sa…"
"E questo è l'unico problema che prima o poi dovrai risolvere."
"Lo so." - Angel annuì e fissò l'orizzonte, pur sapendo che il sole non sarebbe ancora spuntato - "Ma io penso che… che Buffy non possa capire."
"Ama te, Angel. Mi sembra sia un controsenso abbastanza grosso da afferrare anche questo."
"No. per me è più facile capire e perdonare Faith. Ma per Buffy si tratta di colei che ha cercato di uccidermi dopo aver rinnegato una natura da cui Buffy stessa non può scappare. Buffy non è stupida. Ma è in trappola. Come Faith. Nello stesso modo e dall' altra parte della barricata, allo stesso tempo."
"Può darsi. Ma non affrontarla con questo pregiudizio, come tuo solito. E di Spike che mi dici?"
"Tra di noi?"
"Tra di noi."
"Il fratello che avevo perso e che ora ho ritrovato."
Doyle si lasciò sfuggire un fischio sommesso.
"Caspita, che ammissione"
"E' una situazione ricca di pro e contro. Siamo di nuovo una famiglia. E questa invece è una sua ammissione."
"Già. Non ci voleva un genio per accorgersene l'altra sera."
"Ti sbagli. È molto bravo a dissimularlo. Ma tu sei altrettanto bravo."
"Può darsi." - Doyle si accese un'altra sigaretta - "L'hai già mandato a cantare da Lorne?"
" Non ancora. Ma penso che Lorne si farà vivo, non appena saprà che sei tornato."
"Già lo sa. Avevo bisogno di parlare con una persona, l'altra notte. Sai, dopo che ho riavuto…" - Doyle interruppe la frase e si indicò la tempia. Poi riprese - " Io e Lorne ci conosciamo da un sacco di tempo. Avevo bisogno che mi desse una controllatina. Sai, la revisione…"
"E gli hai cantato una canzone per telefono?"
"Pressappoco." - rise Doyle - "Ma sono intonato, puoi chiedergli conferma. Invece quando parla di te che canti…ride."
"Grazie tante."
"E parecchio."
"Vuoi insistere?"
"Dice che è bellissimo."
"Doyle…"
"Mi canti una canzoncina? Piccola, piccola…"
"Doyle, tra un secondo cascherai di sotto…"
"Non lo faresti…"
"Ne sei certo?"
"Se lo fai lo dico a Cordy."
Angel abbassò lo sguardo e si fissò la punta dei piedi.
"Ricattatore." - sorrise.
"Al tuo servizio. Senti un po', ma quel tizio biondo che è entrato? Davo per scontato che venisse di sopra…"
"Non è detto… sa essere più discreto di quello che sembra."
"Vero. Sono discretissimo." - concordò Spike, appoggiato alla porta.
Doyle ed Angel si scambiarono un'occhiata.
"Appunto." - Sospirò Angel.

Il sole stava sorgendo.
Giù in strada, uno tra le braccia dell'altro, Doyle e Cordelia camminavano lentamente.
"Principessa…"
"Non dubitare mai dell'importanza del destino…"
"Cosa? Come ti è venuto in mente?"
"Chiacchierando con Angel."
"Dovevo immaginarmelo… senti, Doyle, non mi dire cosa devo pensare del destino… io preferisco non pensare al destino solo perché mi capitano cose belle che non so da dove arrivano e per dargli la colpa se capitano cose brutte e non so come gestirle. Io preferisco pensare che me le sono guadagnate, oppure che mi sono capitate e basta. Io…"
E Doyle le chiuse la bocca con un bacio.
"Principessa, pensa quello che vuoi." - un bacio - "Veramente, non ci penso nemmeno a provare a farti ragionare" - un altro bacio - "Anzi, chi la pensa diversamente, si convertirà alla tua visione del mondo non appena avrà avuto modo di sentirla."
E l'avrebbe baciata ancora se Cordy non si fosse ritratta mezza-soffocata.
"Ma tu non mi hai mai detto che respiravi con le orecchie!" - replicò, cercando di riprendere fiato - "E comunque, se avessi potuto terminare, ti avrei detto che, ogni tanto, sono disposta ad accettare un'eccezione."
"Un'eccezione…"
"Certo. un'eccezione." - si avvicinò maliziosa - "Un'eccezione con gli occhi chiari e pessimo gusto per il vestiario."
"Io mi vesto casual."
"Sì, certo. Andiamo, se pensi davvero di comprarti quell'orribile poltrona.""Non è orribile, è comoda. Che importa il colore?"
"Si può trovare di meglio."
"Ma io voglio quella…"

Dall'alto dei cieli, dalla finestra della mansarda, Faith li guardò allontanarsi, discutendo. Con un vago sorriso.
"Sai, Angel, tutto sommato avevi ragione." - sussurrò - "Non bisogna smettere di cercare ciò che si è perso."

IV
I personaggi delle serie "Angel" e "Buffy, the vampire slayer", appartengono a Joss Whedon, la WB, ME e la Fox, l'autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.
Le piaceva gettare i biscotti dentro al latte.
Li guardava andare a fondo, contemplava le poche bollicine che salivano verso l'alto e sbirciava la porta, per non farsi scoprire da nessuno.
Non riusciva a resistere. Sgattaiolava in cucina e sedeva, con le gambe penzoloni dallo sgabello. Leggeva il giornale e beveva latte, caffè e quant'altro la dispensa le offrisse. Ma soprattutto dolci.
Biscotti.
A volte si stupiva del quantitativo industriale che ne divoravano giorno dopo giorno. Soprattutto Westley. Sembrava non riuscire a stare lontano dalla simpatica scatola di latta che capeggiava al centro del ripiano. E per quanto Cordelia scuotesse la testa e brontolasse, Wes non metteva su un grammo e continuava a prediligere quelli con le gocce di cioccolato.
Lasciando a Faith quelli semplici di pasta frolla, dal leggero sapore di malto. Perfetti nel latte.
E da gustare nel silenzio di casa, senza dividerli con nessuno.
Era mattina inoltrata. O forse primo pomeriggio.
Ma non aveva molta importanza.
Intanto dormivano tutti. E l'Hyperion era tutto per Faith.
O quasi.
"E' permesso?" - Doyle battè discretamente un dito sulla cornice della porta e Faith, finendo di masticare gli fece un cenno, perché entrasse.
"Allora non sono l'unico ad avere cattive abitudini." - commentò Doyle, avvicinandosi al bancone e sedendo.
Aveva un tono della voce scanzonato e vagamente incoraggiante. Ma Faith era un osso duro, reso affilato da mille contrasti.
Lo guardò e non le parve chissà cosa. Era minuto, con una maglietta grigia e dei vecchi pantaloni da tuta. I suoi capelli andavano in tutte le direzioni ed i piedi erano nudi.
Sembrava uno desideroso di far colazione.
Uno che si lasciava guardare con espressione tollerante.
Faith lo fissò ancora, rimestando il suo latte con un cucchiaio e masticando pacatamente.
"Passato l'esame?" - la canzonò, con un sorriso enorme, mutando completamente tutta la sua fisionomia. Sembrando ancora più giovane.
Era simpatico.
Normale.
Simpatico e normale.
Disposto a farsi radiografare, se per una buona causa.
Faith annuì ed abbassò lo sguardo. Non c'era nulla in lui che le provocasse disagio. "Resterai?" - chiese, imperturbabile.
E lui annuì, con serietà. Senza aggiungere nulla.
"Cordelia ne sarà lieta." - mormorò Faith, prima di accorgersi d'aver parlato. Di aver detto una cosa incredibile, che invadeva impunemente la privacy di un'amica ed uno sconosciuto.
La sua mente si vuotò tutto d'un colpo, senza permetterle di rimediare quella constatazione. Rimase lì, a rimuginare sulla verità che le era sfuggita dalle labbra.
"Tranquilla. Capita ad un sacco di gente." - la consolò doyle, come se leggesse tutto di quel dissidio. E capisse - "Sono fatto così. la gente smania di parlarmi e raccontarmi tutto. Ma a me piace. Mi offri un biscotto?"
Faith annuì. Poi, con un ripensamento, s'alzò.
"Vuoi un po' di caffè?" - chiese rispettosamente, andando a prendere la caraffa ed un tazzone e senza attendere una risposta.
Doyle accettò, gentilmente e la squadrò rapidamente, non visto. Riservò alla sua figura, di spalle, uno di quei sorrisi che rivelavano molto di lui. E che avrebbero detto a Faith molto più di quello che cercava. E con molta meno fatica.
Versare il caffè, lentamente, era un'ottima mossa per prendere tempo.
La bevanda, nera e lucente le permetteva, con il suo aroma, di radunare le semplici informazioni su di lui. Ma non le lasciava il tempo di inventariare le emozioni che quell' irlandese, mingherlino e così differente dal suo connazionale, sapeva scatenare in chi lo conosceva.
E Doyle godeva della stessa attività. Guardava Faith, con le gambe ben disegnate e la camicia enorme. Non sua.
Una camicia di Angel, sanguigna.
La ricordava… buffo, se ne rendeva conto solo adesso che non era più indosso al suo proprietario. Angel l'aveva comprata così tanto tempo addietro… prima ancora di essere l'Angel di Buffy, prima di essere l'eroe. Quando ancora era un demone che non riusciva a sfuggire al suo passato, quando ancora non sapeva se c'era qualcosa per cui valesse vivere con la mente oltre che con il corpo.
Quando, tra capo e collo, gli era capitato uno strano tipo, incapace di farsi i fatti suoi e tutto preso dalla smania di portarlo al di fuori del vicolo in cui si era cacciato.
Tanto tempo.
Quasi un'altra vita.
Una delle tante che Angel poteva vantare.
Faith aveva veramente una figura minuta e solida allo stesso tempo. Era un guizzare di muscoli. Era un'estrema consapevolezza della sua fisicità.
Come Spike.
Pazzesco.
Guardava una Cacciatrice e pensava ad un vampiro. Peggio che peggio, fissava una sana ragazza americana e pensava ad una peste di inglese.
E faceva lo sbaglio di molti. Non vedeva Faith, la paragonava a qualcun altro, per definirla in semplici caratteristiche.
"Tieni…" - disse, tornando a sedersi e posandogli davanti il caffè ancora fumante.
"Grazie."
E stette in silenzio. Perchè preferiva di gran lunga che fosse Faith a parlargli, ad accettarlo, visto che aveva impunemente infranto la sua intimità.
Ma Faith non era un tipo loquace. Afferrò un altro biscotto e lo morsicò, fissando il ripiano, senza veder il giornale ancora aperto.
Poi la vide farsi violenza. Deliberatamente.
"Io so poco di te." - buttò, noncurante. Ma le costava uno sforzo enorme - "So quello che mi racconta Angel."
"calcolando la loquacità dell'eroe…" - rispose Doyle, spalancando gli occhi - "si sarà limitato a frasi del tipo: 'era un bravo ragazzo'. Credimi, mi sono impegnato ad insegnargli a non essere così essenziale. Ma è un vero mulo irlandese."
"Anche tu." - replicò Faith, con un mezzo sorriso.
"Si nota, vero?" - Doyle si erse tutto orgoglioso, tornando a posare sul ripiano il caffè, senza berlo - "La mia mamma ne sarebbe fiera. Era così preoccupata che l'America mi rovinasse il carattere!"
Era divertente. Esuberante. La bocca di Faith si allargò in un bel sorriso e Doyle ne fu intimamente soddisfatto. Quella conversazione confermava ampiamente la prima impressione e gli faceva capire, con un certo sollievo, quanto la resurrezione non avesse deformato le sue capacità.
Faith lo guardava dritto in faccia e con il sorriso aveva dischiuso un nuovo mondo, per entrambi.
"Che hai da fissarmi?" - lo accusò, abbassando lo sguardo. Non riusciva a rinunciare al suo atteggiamento difensivo.
Doyle bevve un sorso di caffè e rispose.
"Nemmeno io so molto di te. Ma hai un sorriso molto bello, espressivo. Te l'ha mai detto nessuno?"
"Non guardano la mia bocca di solito…"
"Allora ti guardo anche le gambe." - Doyle si sporse comicamente sotto il bancone e Faith ne fu così sorpresa da non riuscire nemmeno a replicare - "Belle. Molto. Le guardavo già prima. Ma preferisco il sorriso, se non ti spiace."
Nessuno la trattava in quel modo. Spike le metteva deliberatamente le mani addosso, Wes la invitava a vestirsi un po' di più ed Angel… bhè, Angel era senza ormoni…
A pensarci bene solo Spike sembrava riconoscerle un certo potenziale femminile. Gli altri la trattavano da bambina, dandole protezione, comprensione e talvolta un sano senso di intrusione nella sua privacy.
E poi arrivava questo tizio. Propenso come gli altri a trattarla come una ragazzina, ma non come a comportarsi come un vecchio zio. Sembrando anch'egli un ragazzino, più di tutti gli altri.
Ma da dove traeva quella forza, quel modo saldo di comportarsi. Faith non sapeva cosa rispondersi. Doyle frugava in frigo, appoggiato allo sportello, fischiettando appena, ed il silenzio sembrava avanzare nell'ambiente.
"Vedi, Faith, il sorriso è una porta sull'anima. Soprattutto un'anima come la tua, che sembra nascondersi dietro tutto."
Era un'osservazione profonda. E forse un'offesa.
Ma Faith rimase immobile ad ascoltare.
"Non domandarti con che faccia mi permetto di dire queste cose. Lo faccio senza un motivo, perché non mi piace mettere un filtro tra quello che sento e quello che dico, soprattutto quando parlo alle persone con cui vado a vivere. Come una riunione di condominio… socializziamo, beviamo qualcosa…" - aggiunse, sedendosi, con in mano la bottiglia del latte ed i cereali.
Faith lo squadrò di nuovo, inarcando appena un sopracciglio.
"Ti prendo un cucchiaio." - disse, senza alcun commento aggiuntivo. Non aveva voluto essere scostante, solo che le riusciva naturale.
Le sarebbe piaciuto avere la certezza che Doyle capisse. Ma era una recondita speranza. Non si conoscevano, provenivano da due mondi differenti. In comune avevano nulla.
Ma Faith desiderava solo sembrare una brava persona, agli occhi di quel tizio. Perché Angel aveva un rispetto per lui che andava ben oltre la sua comprensione.
Doyle la guardò, afferrando il cucchiaio e sfiorandole le dita.
Per Faith fu una scossa elettrica. Così, assorta nei suoi pensieri, alzò lo sguardo, incrociandolo con il suo.
E Doyle le sorrise.
Il sorriso di Doyle.
Come ne aveva parlato, quell'unica volta, Cordelia?

"faith, attenta a dove metti i piedi!"
"Oh sì, si capisce, dove metto i piedi! E dove metto i piedi se faccio da facchino e ti vengo appresso seguendo solo la scia di profumo? Non ci vede un beneamato…"
"Alt. Non parlare in questo modo, non sta bene."
"Non sta bene? Non sta nemmeno bene che tu rinnovi il guardaroba ed io sposti i tuo pacchi, dalla macchina alla tua camera."
"Mi fa male un polso."
"Anche a me fa male qualche muscolo… ma io sono faith, niente mi piega.." - brontolò ancora, scaraventando i pacchi sul letto e sedendosi in mezzo.
Bella stanza, pensò guardandosi in giro.
Non era la prima volta che entrava in camera di Cordy, ma era sempre una sorpresa. Una camera bianca. Con pareti pastello.
Cordy aveva impugnato stucco e pennello, aveva accuratamente scelto, abbinato e ripulito. Sperando che Angel non scoprisse mai come laccava i mobili d'epoca…
Alla parete, molte fotografie.
Sue ed autografate, sopra il tavolino con la specchiera.
"Ma che sano senso dell'io…" - la sbeffeggiò Faith, quando Cordy si sedette sul suo amato sgabello imbottito.
Appariva vagamente retrò, mentre si spazzolava i capelli. Faith si mise più comoda, appoggiandosi ai gomiti ed allungando le gambe. Per quanto andassero poco d'accordo, faith si era spesso ritrovata in quella posizione a parlare con il riflesso di Cordy. Convocata da Queen Cordy, in quella che aveva battezzato la "reggia off-limits", si sedeva sul fondo del letto, mentre Cordelia si lanciava in grandi monologhi su tutto.
Quel pomeriggio, un motivo in più per restare era che Cordy aveva molti lavori da fare, visto che, a metà del suo repulisti, la classica visione l'aveva obbligata ad abbandonare tutto e a buttarsi nella confusione notturna cittadina.
Una vita da salvare….
Una vita salvata.
Anche se per cordy, al momento, l'unico risultato visibile di quella grande soddisfazione erano un polso slogato e molti muscoli intorpiditi.
"Cordy, ti cadranno tutti, se li spazzoli ogni minuto." - esclamò, buttando indietro con orgoglio, quella sua folta chioma scomposta - "Ci diamo una mossa?"
"Tanto va fatto…" - sospirò la ragazza, posando la bella spazzola intarsiata sul ripiano, vicino alla cipria ed ad altri gingilli incomprensibili agli occhi della Cacciatrice.
"dunque…" - Cody camminò fino al centro della stanza congiungendo le mani e puntando imperiosamente il dito - "Questo pacco… là!"
Questo là, quello qua. Sembravano non finire mai.
Faith spostava e rispostava.
Cordelia faceva la parte più difficile, a suo dire. Pensava dove si poteva stipare tutta quella roba, aprendo un armadio alla volta.
Fino all'ultima anta. La più strana.
Scatoloni. E scatoloni. Un giaccone di pelle ed uno strano cappello.
"Questi non mi sembrano abiti tuoi." - costatò Faith, afferrando la manica del giaccone consunto.
"No, è roba di un amico. L'ho tenuta ma…" - Cordelia si fermò, mordicchiando le labbra - "Forse dovrei buttarla tutta, occupa spazio. E lui non tornerà."
Stavano vicine, davanti a quell'armadio aperto. E Faith guardava il profilo riflessivo della ragazza.
"Un buon amico?" - azzardò.
"Certo, il migliore. E per qualche motivo che non ho mai capito. Mi adulava, vestiva male, prediligeva i cibi calorici, i bassifondi e non si faceva mai avanti. Ed aveva un pessimo tempismo."
"caspita, che quadretto che hai fatto."
"Già. È la cosa incredibile è che si tratta di una descrizione realistica. Chiedi ad Angel, Doyle non lo lasciava mai stare. Tanto il nostro eroe è cupo e riflessivo, tanto doyle era logorroico." - Cordelia si coprì la bocca con la mano, per fermare un risata che voleva diventare rimpianto.
Doyle.
Faith aveva già sentito questo nome.
Angel aveva detto qualcosa su di lui…
"Le visioni. Non è quello che ti ha lasciato le visioni?"
"Già. Proprio 'quello'." - Cordelia annuì - "Non avrebbe mai permesso ad Angel di restare senza una guida. Ma io non sono poi molto brava. Doyle non faceva che ripetere di essere solo un messaggero, che le immagini arrivavano e lui si limitava a riferirle. Ma non era così. Conosceva bene Angel, sapeva trattarlo. Diceva di conoscerlo da tempo… ma Angel tiene talmente tanta gente nascosta nel suo passato…"
"Già." - Angel non diceva mai niente, poi traeva fuori informazioni e persone come conigli dal cilindro - "Mi spieghi perché tieni tutta questa roba?"
"Ricordi… non ho nemmeno una sua foto, il suo profumo l'ho dimenticato da tempo." - Cordelia accompagnò le parole con un'alzata di spalle - "Speranza vana, chi può dirlo…"
"Se sono ricordi non puoi gettarli via."
"potrei anche. E' solo roba, oggetti che poi non contano molto, anche se mi sembra di non potermene separare. La cosa più bella di lui me la porto impressa in testa."
"E sarebbe?"
"La sua bocca. Credo. No, non è esatto, non è la sua bocca. È il suo sorriso. Quello di doyle non era un sorriso era… Il Sorriso."

Il Sorriso.
Cordelia non aveva saputo descriverlo. Si era persa a cercare termini descrittivi mentre, soprappensiero, chiudeva nuovamente l'armadio, lasciando immutato il contenuto.
No, non aveva saputo dire a Faith che il sorriso di Doyle era fatto di occhi trasparenti e sottili linee sulla pelle. Non aveva saputo dirle che non era solo quello, che era luce, comprensione e apparizione.
No, non era ancora abbastanza.
Era Il Sorriso.
Quello che diceva tutto di lui.
Quello che completava i suoi occhi ed il suo atteggiamento discreto. Che si fondeva con la sua espressione, completandola.
Come se i suoi occhi chiari potessero averne bisogno.
Il sorriso… il sorriso era intrappolato in quello sguardo, dentro quegli occhi.
Faith non riusciva, ancora una volta, di smettere di fissarlo. Come le era successo pochi minuti prima, ma in modo differente.
Il sorriso, specchio dell'anima. No, porta, porta dell'anima.
Doyle le aveva descritto quel miracolo, prima ancora di mostrarlo.

Le loro mani si allontanarono. Doyle impugno il cucchiaio e si immerse nella preparazione della colazione, tornando ad essere semplicemente Doyle. E Faith sedette, con un tonfo.
Con gli occhi bassi. Domandandosi se anche nella sua mente sarebbe rimasto intrappolato.
"Almeno so che non era un abbaglio d'amore." - esclamò. Prima di iniziare ad arrossire.
Il cucchiaio di doyle si bloccò a mezz'asta. E lui la guardò sottecchi, lasciando che la sua bocca si increspasse nuovamente in un sorriso diverso dal precedente. Sapeva benissimo a cosa si stava riferendo Faith, non c'era bisogno di un soggetto, di una spiegazione.
La guardò, mentre passava tutte le gamme di color ciliegia riconosciute dall'occhio umano.
Mentre Faith cercava un sistema rapido per riavvolgere il tempo e stare zitta.
Era già la seconda volta che le succedeva, in una sola serata.
Come ci riusciva?
Perché DOVEVA essere colpa sua.
E di chi poteva essere, altrimenti.
Non di Faith.
Perché a Faith non capitava mai.
MAI.

"Vuoi farmi qualche domanda?" - chiese Doyle imperturbabile, concentrandosi sui suoi cereali. E reprimendo l'ilarità che gli suscitava quella bella ragazza che non aveva più il controllo delle sue parole.
"Certo! smetto di farmi figure di merda e mi metto a fare domande imbarazzanti!" - esclamò Faith, prima di tapparsi la bocca con entrambe le mani.
Adesso Doyle rideva sul serio.
Il suo segreto erano gli occhi. Non la bocca. Il sorriso era un pretesto, per scomporre i riflessi delle sue iridi nei lineamenti.
Eppure su una cosa, Faith concordava con Cordelia. Le capacità descrittive si frantumavano su quella faccia.
Incomprensibilmente.
Perché tutto questo non si notava, non mutava la verità.
Doyle restava minuto, simpatico e poco aitante.
Nulla impediva di accettarlo, per quella sua esuberanza. Nulla permetteva di carpire il segreto di quello sguardo. Uno sguardo affacciato su due finestre.
"Sei di nuovo la guida di Angel?" - Faith diede un colpo di tosse per ricomporsi.
"Le visioni, intendi? Sì, non mi piaceva sapere che le mie intuizioni fossero a spasso per altre teste."
"E le hai… già riavute?"
"Certo. non è stato piacevole, soprattutto per Principessa." - in effetti, come suo solito, non era stato molto cavaliere, nel liberarla…
"Lo conosci da molto?" - visto che Cordelia non aveva saputo rispondere…
Doyle annuì, passandole i cereali, perché li affogasse nel latte insieme all'imbarazzo.
"Angel? Da anni. Abbiamo avuto un avvio difficile, ma non ce la caviamo poi così male."
"E Spike?"
"Non propriamente. Ci siamo visti un paio di volte in tutto." - so molte cose di lui, però…
"Che altro dire. Ho un nome di cui mi vergogno, difficilmente esco da una rissa senza essermele prese e… adoro il Whisky. Tutto, a mio parere, vale la pena di un brindisi."
"E sei morto…"
"Certo, ho fatto anche questo. Un'esperienza interessante…"
"E sei tornato con grandi rivelazioni?"
"Ovviamente sì." - Doyle fece un sospiro fintamente pieno di rimpianto - "Ma le hanno chieste indietro. Alle porte del paradiso mi hanno vuotato le tasche e perquisito rigorosamente."
"per cui non ricordi nulla…"
"No, non è esatto. Ricordo molte cose, ma non tutto. E' semplice." - Doyle accompagnò la spiegazione movendo le mani, come se infornasse una torta - "Io muoio, scopro cose che non so, poi resuscito. Faccio spazio alle mie visioni e rendo un bel pacchetto di informazioni che i capi ritengono superflue per il mio mestiere. Cose del tipo fine del mondo, perché ultimo, soluzioni di delitti. Tutto qui. Risultato? Nemmeno una corsa di cavalli su cui puntare! Bella ricompensa, per uno dedito al lavoro come me."
"Non mi sembri uno che si sforza per sopportare situazioni scomode." - mormorò faith, dimenticando che una frase del genere sarebbe potuta sembrare invadente.
"Sei molto perspicace. Mi piace vivere, mi è sempre piaciuto." - il cuore di doyle percepiva il rasserenarsi di Faith. L'iniziare a fidarsi - "Non c'è nulla della perfezione e della pace che io possa rimpiangere. Perché qui, in mezzo ai casini e alle cose che vanno storte e non si capiscono, trovo la gente che amo. E la mia debolezza è non poterli sapere senza di me. In testa ho sempre un'unica frase: se ci sarò io, andrà tutto bene. Niente di male può accadere, se ci sono qui io, a tenerli d'occhio."
"Guarda che se la cavavano anche senza di te..." - replicò Faith, riprendendo il tono spaccone di sempre.
"Vero." - rispose Doyle, senza una traccia di imbarazzo - "Ma questo non toglie che io viva meglio qui, che non-vivere alla grande dall'altra parte della barricata. Sono a casa Faith. Con tutti voi. In famiglia."
"In famiglia." - era una bellissima parola. Famiglia. Faith non riusciva a pronunciarla nemmeno a se stessa, tanto aveva paura che fosse una temporanea illusione. Tanto aveva paura di ritrovarsi da sola, in una strada, in una mattina di pioggia. Di scoprire che Angel non l'aveva mai ritrovata.
"Già. Con zii impiccioni, padri petulanti e sorellastre perfette." - concordò doyle - "Ti sei ereditata un gran bel parentame."
"e Tu, in che categoria stai?" - chiese, impertinente, alzando un sopracciglio.
"Cugino di primo grado. Complice ideale, mai cresciuto." - Doyle spinse il piatto al centro del ripiano e si stiracchiò, scompigliando i capelli arruffati- " Sai se c'è della cioccolata?"